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Guida di Napoli,Capri e Costiera Amalfitana


Napoli,Capri e Costiera Amalfitana

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Napule è mille culure | Napule è mille paure | Napule è a voce d’ ‘e criature | che saglie chiano chianu | e tu saje ca nun si sulo.

Pino Daniele

 

Napoli

Situata nell’omonimo golfo, Napoli, con i suoi 957.811 abitanti, è la terza città italiana per popolazione. La città, capoluogo della regione Campania, è famosa in tutto il mondo per le sue bellezze artistiche e naturalistiche, per il suo storico passato e per la vivacità dei suoi abitanti. Napoli presenta, infatti, un ricco patrimonio artistico ed architettonico, dichiarato nel 1995, insieme all’intero centro storico (il più vasto d’Europa), patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, oltre a meravigliosi scorci, che ne vedono come sfondo il Vesuvio e le isole di Capri, Ischia e Procida.21-NapoliSfondoVesuvioImbrunire

 

Storia di Napoli

 

Questa sua magia ha addirittura origine nel mito: secondo gli antichi storici greci e romani, la nascita del borgo sarebbe da collegarsi alla leggenda della semidea marina Parthenope, che si lasciò morire per non essere riuscita, col canto, ad ammaliare Ulisse.

E’ certo, comunque, che, già prima della fondazione della città, tutto il litorale era stato colonizzato da genti greche provenienti dall’ Eubea e dalla  Calcidica.

Essi fondarono la città di Cuma e da qui partirono alla volta dell’attuale colle di Pizzofalcone, dove fondarono il primo nucleo della città di Napoli, esso prese il nome di Partenope, che nella tradizione fu associato a quello di una sirena che avrebbe avuto la sua dimora nella acque del golfo.

Tale sito fu poi distrutto e così, intorno al 470 a.C., fu ricostruita la nuova città,  che fu detta Neapolis, per distinguerla da quella vecchia; essa sorse ad oriente dell’area di fondazione della prima città.

Neapolis fu costruita secondo quello che, in seguito, è stato definito sistema ippodameo, perché creato dall’architetto greco, vissuto nel V sec. a.C. Ippodamo di Mileto: esso consiste in una rete di tre grandi strade parallele, dette, successivamente, con vocabolo latino decumani, intersecate ad angolo retto da altre vie, più strette, dette cardini. Presenti nell’attuale struttura urbanistica del centro antico di Napoli, i tre decumani sono le vie dell’Anticaglia (decumano superiore), dei Tribunali (decumano centrale) e San Biagio dei Librai (decumano inferiore).

Nel 340 a.C. i romani iniziarono la conquista del territorio campano e nel 328 a.C. scoppiò la guerra tra Napoli e Roma. Ben presto la città fu conquistata dai romani che, però, concessero agli sconfitti alcuni privilegi, come l’uso della lingua greca e la conservazione delle antiche magistrature.

La città divenne, poi, municipio romano e fu in questo periodo che l’aristocrazia romana iniziò a frequentare il golfo, costruendo splendide dimore, sia a Neapolis che in tutta la zona dei Campi Flegrei.

Caduto l’impero romano d’Occidente, l’imperatore d’Oriente Giustiniano, inviò a Napoli il suo generale Belisario per conquistarla; ma egli trovò un’accanita resistenza da parte dei napoletani. Stava quasi per abbandonare l’impresa quando alcune spie gli indicarono una via d’ingresso attraverso un antico acquedotto, solo così fu possibile per gli assedianti penetrare nella città.

Successivamente la città fu conquistata dai Goti e poi di nuovo dai bizantini. Durante il dominio di questi ultimi furono costruiti in città numerosissimi monasteri ed ebbe il definitivo sviluppo la religione cristiana.

Nel 581 e nel 592 fu la volta dei Longobardi, che assediarono Napoli. Successivamente la città si ribellò all’imperatore, dandosi un governo autonomo; ma ben presto Bisanzio ripristinò l’ordine. Infine nel 661 l’imperatore nominò Basilio duca e fu l’inizio di una certa autonomia della città.

Napoli crebbe di importanza; nel 773 il duca Stefano II, riconoscendo l’autorità del papa, a discapito di quella dell’imperatore, fu nominato vescovo. Da quel momento, pur restando formalmente soggetto all’imperatore, il ducato divenne indipendente.

In questi anni va ricordata la sconfitta dei saraceni ad opera della flotta napoletana guidata da Cesario, figlio del duca Sergio, nell’843; così come nell’849, quando, vincendo ad Ostia, si evitò il saccheggio di Roma.

Lo sviluppo dei commerci, dell’arte e della cultura fu una costante nel periodo ducale; però il nuovo attacco dei Longobardi nel 1027, costrinse alla fuga il duca Sergio IV.

Nel 1077 vi fu la comparsa sulla scena dei Normanni: essi avevano già conquistato Salerno, e solo Napoli resistette e riuscì a rimanere indipendente.

Nel 1130 Ruggiero II fu incoronato re a Palermo; nel 1134, a capo di una potente flotta, strinse d’assedio la città, conquistandola. Successivamente il popolo napoletano tentò di costituire una repubblica, con l’aiuto del papa Innocenzo II, ma, quando, nel 1139, i normanni sconfissero il papa, anche Napoli dovette arrendersi a Ruggiero.storia-di-napoli

Il nuovo re fu molto generoso con la città conquistata: favorì i nobili e i cavalieri e diede un grande sviluppo alle arti e alla cultura, così come ai commerci.

Alla sua morte gli successe il figlio Guglielmo I detto il Malo, in quanto avaro, egli regnò dal 1154 al 1176. Durante il suo regno vi furono contrasti col papa, che si alleò con Federico Barbarossa.

Fu poi la volta di Guglielmo II, egli regnò dal 1176 al 1189, morendo, in giovane età, senza eredi maschi. Salì, così, al trono suo nipote Tancredi, che regnò dal 1190 al 1194.

Nel 1191 Enrico IV, figlio di Federico Barbarossa, cercò di impadronirsi del regno, non riuscendovi. Dopo la morte di Tancredi, salì al trono Guglielmo III, che nel 1195 dovette cedere il trono all’imperatore Enrico IV.

Quando, nel 1197, l’imperatore morì, gli successe il figlio Federico II. Quest’ultimo, però, potette entrare in città solo nel 1220. Federico II fu un uomo estremamente colto, che accolse alla sua corte letterati, poeti e artisti e fondò l’Università a Napoli.

Alla sua morte, nel 1250, gli successe il figlio Corrado, ma dopo appena quattro anni questi morì, lasciando come erede il figlioletto Corradino. Però Manfredi, figlio naturale di Federico II e reggente del regno in nome del fratellastro Corradino, si fece incoronare a Palermo re di Sicilia nel 1258. Egli fu grandemente contrastato dal papa Urbano IV, che avviò trattative per affidare a Carlo I d’Angiò la conquista del regno di Sicilia.

Il principe angioino, giunto in Italia, sconfisse Manfredi nel 1266 a Benevento. Egli scelse Napoli come sua capitale e protesse anch’egli letterati ed artisti.

Un anno dopo la sconfitta di Benevento, dalla Germania scese in Italia Corradino, per riappropriarsi del regno. Egli, però, venne sconfitto da Carlo d’Angiò a Tagliacozzo nel 1268  e fu fatto decapitare.

A Carlo I successe il figlio Carlo II, che regnò dal 1285 al 1309; fu, poi, la volta di Roberto detto il saggio, che regnò fino al 1343. Anche questo sovrano fu amante delle arti e delle lettere e raccolse una ricchissima biblioteca. Egli ebbe un solo figlio maschio, Carlo, il quale morì lasciando due figliolette.

Fu così che, alla morte di re Roberto, a questi successe sul trono, nel 1343, la nipote Giovanna. Essa fu coinvolta in una congiura di palazzo che nel 1345 costò la vita a suo marito Andrea, fratello del re d’Ungheria Luigi I il Grande. La congiura fu capeggiata da Luigi di Taranto, che, poco dopo, sposerà la vedova Giovanna, cercando, poi, di far fronte al re Luigi I d’Ungheria, che aveva, intanto, occupato il regno per vendicare la morte del fratello.

Conclusa la guerra, la regina Giovanna rimase di nuovo vedova e sposò in terze nozze Giacomo III d’Aragona-Maiorca. Alla morte di questi sposò Ottone di Brunswick. Non avendo discendenti diretti, Giovanna designò erede Carlo di Durazzo, figlio di un cugino, per poi ripensarci e designare successivamente Luigi d’Angiò. Carlo di Durazzo nel 1381 si impadronì del regno, facendo eliminare la zia. Nel 1386, dopo essersi recato in Ungheria per farsi incoronare re, Carlo di Durazzo fu avvelenato.

A questo punto la vedova di Carlo, Margherita di Durazzo, dovette fronteggiare una situazione difficilissima: con Luigi d’Angiò che accampava diritti sul regno, essa cedette, nel 1393, il trono al figlio Ladislao, il quale, dopo alterne vicende, riuscì addirittura ad occupare Roma. Ciò, però, suscitò la preoccupazione di Firenze, che chiamò in aiuto Luigi II d’Angiò, che sconfisse Ladislao nel 1411. La lotta sarebbe continuata, ma nel 1414 Ladislao moriva.

Gli succedeva, così, la sorella Giovanna II che, anch’essa senza eredi, prima adottò Alfonso V d’Aragona e, successivamente, nominò suo successore Renato d’Angiò. Alla morte della regina quest’ultimo fu proclamato successore.

Alfonso d’Aragona, però, non aveva rinunciato alle pretese sul regno e assediò Napoli, penetrandovi, infine, nel 1442. Fu l’avvento della nuova dinastia aragonese. Egli fece il suo ingresso trionfale in città nel 1443, e si dimostrò da subito amante delle arti, dei letterati e mecenate. Egli favorì lo sviluppo di una accademia umanistica che, in suo onore, fu detta Alfonsina e, successivamente, Pontaniana.

Alla morte di Alfonso, nel 1458, gli successe il figlio illegittimo, poi legittimato da papa Callisto III, Ferdinando I o anche Ferrante. Egli fu inflessibile nei confronti del potere della nobiltà, che cercò in tutti i modi di combattere. Soffocò nel sangue, nel 1485, la cosiddetta Congiura dei Baroni, mandando a morte tutti i congiurati.

Nel 1494 a Ferrante successe Alfonso II, ma alla discesa in Italia delle truppe di CarloVIII di Francia, egli abbandonò il regno, rinunciando al trono in favore del figlio Ferdinando II detto Ferrandino. Questi tentò di opporsi all’invasione francese, ma dovette fuggire. Riuscì a rientrare in città pochi mesi più tardi, ma, a meno di un anno da questo evento, morì senza eredi. Il regno passò a suo zio Federico, ma questi non poté nulla contro francesi e spagnoli che si contendevano le sorti del regno. Così, mentre Federico si consegnava nelle mani dei francesi, gli spagnoli, guidati dal generale Consalvo di Cordoba, entravano a Napoli: era l’inizio di due secoli di dominazione spagnola sulla città.

Il regno fu governato da viceré. Tra i tanti ricordiamo don Pedro Alvarez de Toledo, che promosse lo sviluppo urbanistico della città, con la creazione della grande strada che, ancora oggi, porta il suo nome. Così come il conte di Lemos don Ferrante Ruiz de Castro y Andrada, che fece edificare il Palazzo Reale.

Nel 1700, alla morte di Carlo II di Spagna, vi fu una lotta per la successione al trono tra Filippo V e l’imperatore Leopoldo d’Austria, alla fine fu instaurato a Napoli un viceregno austriaco, che durò dal 1707 al 1734.

Alla fine Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese decise di conquistare l’Italia meridionale e nel 1734 sconfisse gli austriaci, instaurando, nuovamente, un regno indipendente. Egli diede un notevole impulso alla vita del regno e della sua capitale. Fece realizzare la Reggia di Capodimonte e quella di Caserta, il Teatro San Carlo e l’Albergo dei Poveri, nonché la famosa Fabbrica di Porcellane di Capodimonte.

Alla morte, nel 1759, del fratellastro Ferdinando VI, re di Spagna, che non lasciò eredi, gli succedette sul trono.

Sul trono di Napoli salì il piccolo Ferdinando IV, che governò, data la giovane età, per mezzo di un consiglio di reggenza. Quando, nel 1798, attaccò i francesi, che avevano occupato Roma, questi occuparono Napoli, costringendolo a rifugiarsi in Sicilia.

Fu così proclamata la Repubblica Partenopea. Ben presto, però, venne a mancare l’appoggio della Francia, impegnata nella campagna d’Egitto con Napoleone. Gli inglesi sbarcarono a Napoli e fu una spietata repressione: furono giustiziati l’ammiraglio Caracciolo, Eleonora Pimentel Fonseca e tanti altri fautori della Repubblica.

Rientrato a Napoli, Ferdinando IV dovette, dopo poco, fuggire nuovamente in Sicilia. Napoleone, infatti, poneva sul trono del regno di Napoli, in un primo tempo, il fratello Giuseppe Bonaparte e, nel 1808, il cognato Gioacchino Murat. Solo dopo il Congresso di Vienna Ferdinando IV, che dal 1816 diventava Ferdinando I dello stato che assumeva la nuova denominazione di Regno delle Due Sicilie, poteva rientrare a Napoli.

Francesco I, figlio di Ferdinando I, divenne re nel 1820, a lui successe, nel 1830, il figlio Ferdinando II, che, dopo aver promosso un certo rinnovamento del regno, subì una svolta reazionaria. Gli anni del suo regno videro moti e repressione e prepararono la fine dello stato borbonico. Infatti, alla sua morte, nel 1859, gli successe il figlio Francesco II, che, nel 1860, davanti all’avanzata dei garibaldini, pur di evitare sofferenze alla sua tanto amata capitale, rinunciò alla resistenza e abbandonò Napoli.

Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrava a Napoli, i plebisciti del 21 e 22 ottobre 1860 stabilivano l’unione di Napoli e della Sicilia all’Italia.

Tramite un plebiscito popolare, la città venne annessa al Regno del Piemonte, trasformato nel 1870 nel Regno d’Italia. Anche durante la seconda guerra mondiale la città ha avuto un ruolo importante con le Quattro giornate di Napoli, durante le quali il popolo si rivoltò contro i tedeschi.

 

 

METROPOLITANA

A Napoli esistono 2 linee di metropolitana: la linea 1, detto anche “Metrò dell’Arte”, attiva tutti i giorni dalle 6.00 alle 23.00; e la linea 6, attiva tutti i giorni dalle 6.30 alle 21.30. La storica linea 2, omologata come “passante ferroviario”, collega la stazione centrale con diverse zone della città fino al porto. La linea è in funzione tutti i giorni dalle 6.15 alle 23.00. Chi visita Napoli ha diverse scelte nell’acquisto dei biglietti. Per raggiungere i monumenti e le zone turistiche più importanti basta il biglietto Unico Napoli, €1,20, con validità 90 minuti dall’obliterazione, che permette di muoversi liberamente tra metro e autobus di tutta la città. Per muoversi un’intera giornata, è meglio acquistare il biglietto Unico Giornaliero, € 3,60, valido per l’intera giornata d’acquisto.MetroNapoliMetroMap

BUS

Napoli vanta un servizio autobus capillare e ben organizzato, che collega tutti i quartieri cittadini con il centro. Ma a causa del traffico non sempre è la scelta migliore. Il servizio è attivo dalle 5.20 del mattino fino a mezzanotte circa, con variazioni per le diverse linee. Il servizio notturno inizia, invece, intorno a mezzanotte e finisce alle 4 del mattino.

TAXI

Il taxi, a causa del traffico, non è il mezzo consigliato per visitare Napoli. Per prenotarne uno occorre comunque contattare telefonicamente il servizio di prenotazione taxi, attivo 24 ore al giorno, di una delle 6 compagnie cittadine. In alternativa è possibile prendere un taxi raggiungendo uno degli 87 parcheggi taxi presenti in città.

Consortaxi +39 081/5525252

Free Radio Taxi +39 081/5515151

Partenope +39 081/5560202

Cooperativa Tassisti +39 081/5510964

Radiotaxinapoli +39 081/5564444

FUNICOLARI

Napoli è dotata di 4 linee di funicolare che collegano facilmente, evitando il traffico, la zona collinare con il centro. Le 4 funicolari sono le funicolari di Chiaia, Montesanto, Centrale e Mergellina.

A PIEDI

Conoscere Napoli a piedi è la scelta ideale: il centro storico è molto grande ma tutte le zone turistiche più importanti si raggiungono facilmente senza l’utilizzo di mezzi di trasporto.

INFORMAZIONI UTILI

Siti Internet Ufficiali Della Città

Per informazioni generali visitate il sito: http://www.comune.napoli.it

oppure il sito: http://www.napoli-turismo.it

Ufficio Informazioni Turistiche Azienda di promozione turistica (APT) Via San Carlo, 9 Tel. +39 081/402394

Piazza del Gesù Tel. +39 081/5512701 info@inaples.it

City Pass

Campania Artecard è un biglietto integrato che permette di accedere ai principali musei e siti archeologici della regione, di viaggiare sui trasporti pubblici e di usufruire di sconti e vantaggi. Sono disponibili sette itinerari: Centro antico, Napoli e Campi Flegrei, Castelli di Napoli, Napoli e Caserta, Regge e siti borbonici, Archeologia del Golfo , Cilento. Per costi e informazioni sui diversi itinerari consultare il sito: http://www.artecard.it.

Clima

Napoli gode del tipico clima mediterraneo, con estati calde e soleggiate, e temperature medie che variano tra i 25 e i 31 gradi centigradi, attenzione quindi a non esporvi direttamente ai raggi solari, soprattutto nelle ore centrali della giornata. Gli autunni possono risultare talvolta umidi, con diversi giorni di pioggia. Gli inverni, invece, sono decisamente meno piovosi e la temperatura media oscilla tra i 4 e i 12 gradi centigradi.

 

Le Chiese

1 Basilica di San Francesco di Paola

Piazza Plebiscito, 11 – Napoli63028709

È la più importante chiesa neoclassica italiana e, per la forma circolare, ricorda il Pantheon di Roma. E’ al centro del colonnato di stile neoclassico voluto da Gioacchino Murat. Iniziata nel 1816 e completata nel 1836, fu edificata per volere di Ferdinando IV di Borbone come ringraziamento a San Francesco di Paola per la riconquista del Regno. Si possono ammirare tele di Luca Giordano, Pietro Benvenuti e l’altare maggiore decorato con pietre preziose.

 

 

2 Certosa di San Martino

Largo San Martino, 13 – NapoliSan-Martino-600x450

La Certosa costituisce uno dei più riusciti esempi di architettura barocca. Nel 1325 Carlo, primogenito di Roberto d’Angiò, fece erigere il monastero. Alla fine del XVI secolo la Certosa fu ristrutturata e ampliata. Da ammirare: i chiostri, la chiesa delle donne e la chiesa principale con le loro decorazioni e i loro affreschi.

 

3 Chiesa del Gesu’ Nuovo

Piazza Gesù Nuovo, 2-4 – Napoli

I Gesuiti, tra il 1584 e il 1601, demolirono Palazzo dei Sanseverino e costruirono la chiesa, che passò ai francescani nel 1767. Subì nel corso degli anni diversi crolli, demolizioni e ristrutturazioni. L’interno è in stile barocco con pareti rivestite da marmipolicromi, e una pianta a croce greca, a tre navate. Presenti affreschi di Francesco Solimena, Paolo De Matteis e Belisario Corenzio.


4 Basilica di Santa Chiara

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Eretta tra il 1310 e il 1340 per volere di Roberto d’Angiò, è la più grande basilica gotica della città. Venne interamente distrutta da un bombardamento nella II guerra mondiale, e quindi restaurata nel 1953. Dall’aspetto austero, conserva le tombe della famiglia d’Angiò. Nel convento delle Clarisse, adiacente, si ammirano affreschi di Giotto relativi alla Crocifissione. Splendido e degno di visita è il chiostro di Domenico Antonio Vaccaro.IMG_9759Chiostro Clarisse - Basilica Santa Chiara - Napoli - by ho visto nina volare

 

5 Basilica di San Domenico Maggiore

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E’ una importante chiesa cittadina, molto interessante dal punto di vista artistico e storico. Tra il 1283 e il 1324 venne innalzata inizialmente in stile gotico. Fu voluta da Carlo II d’Angiò: divenne poi casa madre dei domenicani nel regno di Napoli e anche chiesa della nobiltà aragonese. L’edificio appartiene a un complesso conventuale situato nel centro antico della città. L’ingresso principale è attraverso un portale con molti elementi gotici dal vicolo San Domenico.

 

6 Chiesa di Sant’Angelo a Nilo

VPiazzetta del Nilo, 23 – Napoli

La chiesa di Sant’Angelo a Nilo si trova nel centro storico di Napoli, all’angolo sud-est di piazza San Domenico, con una facciata rivolta su via Mezzocannone. È anche conosciuta come Cappella Brancaccio, poiché conserva al suo interno una delle opere di scultura più importanti presenti in città, il Sepolcro del cardinale Rainaldo Brancacci di Donatello, realizzato in collaborazione con Michelozzo. L’interno della chiesa presenta un arredo marmoreo sei-settecentesco.

7 Cappella Sansevero

Via Francesco De Sanctis, 1-13 – Napoli

La Cappella Sansevero è tra i più importanti edifici di culto della città. L’edificio è un concentrato di opere scultoree e pittoriche, a partire dall’affresco che ne orna il soffitto, noto come “il paradiso dei Sansevero”. I migliori artisti del periodo si alternarono nella realizzazione di opere irripetibili. Ecco alcune delle opere presenti all’interno: Monumento a Cecco de’ Sangro, Altare di Santa Rosalia, La Pietà, Monumento a Raimondo de’ Sangro e il Cristo Velato.

8 Basilica di San Paolo Maggiore

Piazza San Gaetano, 76 – NapoliNapoliSanPaoloMaggioreFacciata

Fu eretta nell’VIII sec. per celebrare la vittoria dei napoletani sui Saraceni. Tra il XVI e il XVII sec. subì vari restauri e ampliamenti. Ai lati della facciata si trovano le statue dei Santi Pietro e Paolo. La pianta è a croce latina divisa in tre navate con un interno in stile barocco. Si possono osservare affreschi di Massimo Stanzione del 1644, e di Francesco Solimena, e le cappelle Firrao di Sant’Agata e quella della Madonna della Purità

 

 

9 Basilica di San Lorenzo Maggiore

Piazza San Gaetano, 316 – Napoli

Carlo d’Angiò nel 1270 sovvenzionò la ricostruzione della chiesa e del convento; il risultato fu uno straordinario esempio dello stile gotico francese. In seguito ai terremoti, subì modifiche in stile barocco, ora cancellate, eccetto la facciata di Ferdinando Sanfelice. Da ammirare: l’abside poligonale con volte a crociera, il Sepolcro di Caterina d’Austria e il Cappellone di S. Antonio, opera barocca di Cosimo Fanzago.

10 Duomo di San Gennaro

Via Duomo, 146 – Napoliduomosg

La costruzione risale al XIII secolo e fu voluta dal re Carlo II d’Angiò. Presenta stili diversi. Nella navata destra si trova la Cappella di San Gennaro costruita come ringraziamento di un voto fatto dai Napoletani durante la pestilenza del 1527 e sotto la statua di San Gennaro c’è un busto d’argento che racchiude il cranio del Santo e le ampolle col sangue coagulato che ogni anno il 19 settembre si liquefa’. E’ uno dei momenti più intensi vissuti dai napoletani.

Il Miracolo di San Gennaro

Secondo la leggenda, il sangue di San Gennaro si sarebbe liquefatto per la prima volta nel IV sec. d.C. durante il trasferimento a Napoli delle spoglie del santo da parte del vescovo Severo (secondo altri il vescovo Cosimo). Storicamente, la prima notizia documentata dell’ampolla contenente la presunta reliquia del sangue di San Gennaro risale soltanto al 1389. Il Chronicon Siculum racconta che durante le manifestazioni per la festa dell’Assunta vi fu l’esposizione pubblica delle ampolle contenenti il cosiddetto “sangue di San Gennaro” e il 17 agosto, durante la processione, il liquido conservato nell’ampolla si era liquefatto “come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo”.slide_251546_1541481_free

Attualmente le due ampolle sono conservate nel Duomo di Napoli: una è riempita per tre quarti, mentre l’altra è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna. Il fenomeno della liquefazione è invocato tre volte l’anno (il sabato precedente la prima domenica di maggio e negli otto giorni successivi; il 19 settembre e per tutta l’ottava delle celebrazioni in onore del patrono, e il 16 dicembre), durante una solenne cerimonia religiosa guidata dall’arcivescovo. Per sottolineare come la religione possa fondersi con la superstizione popolare, la liquefazione durante la cerimonia è ritenuta foriera di buoni auspici per la città; al contrario, la mancata liquefazione è vista come cattivo presagio per la città.

Il miracolo di San Gennaro non può essere spiegato con la fede perché, se così fosse, allora non si capisce perché non credere a fenomeni analoghi di altre religioni.

La stessa Chiesa è scettica, ma fa di tutto per non mostrare il proprio scetticismo perdurando in un atteggiamento ambiguo: lascia credere ai carenti di spirito critico che si tratti di miracolo, ma non lo fa quando parla con gli scienziati!

Con il concilio Vaticano II la Chiesa (che ha sempre rifiutato di acconsentire al prelievo del liquido sostenendo che un’analisi invasiva potrebbe danneggiare sia le ampolle sia il liquido) decise di togliere dal calendario alcuni santi, San Gennaro compreso; poiché vi furono forti resistenze popolari, decise di mantenere il culto della reliquia del santo, precisando che lo scioglimento del sangue di San Gennaro non era un miracolo, ma piuttosto un fatto mirabolante ritenuto prodigioso dalla popolazione.

In realtà di mirabolante non c’è nulla. La spiegazione fisica più semplice è quella della tissotropia:

i materiali tissotropici diventano più fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, tornando allo stato precedente se lasciati indisturbati.

Un esempio di questa proprietà è la salsa ketchup che si può mostrare in uno stato quasi solido finché, scossa, non diventa improvvisamente molto più liquida.

Tre scienziati italiani, Garlaschelli, Ramaccini e Della Sala hanno riprodotto una sospensione avente un comportamento tissotropico molto simile al fluido contenuto nella teca di San Gennaro. Il loro lavoro è stato pubblicato su Nature (A Thixotropic mixture like the blood of Saint Januarius, “Nature”, vol.353, 10 oct 1991).

Ognuno può stupire gli amici con il trucco dei tre ricercatori (che peraltro hanno usato sostanze reperibili all’epoca, fine XIV sec.). Con cloruro ferrico (sotto forma di molisite, un minerale tipico delle zone vulcaniche e quindi presente anche sul Vesuvio), carbonato di calcio (i gusci d’uovo sono fatti per circa il 94% di carbonato di calcio), cloruro di sodio (il comune sale da cucina) e acqua, è possibile ottenere una soluzione colloidale di colore rosso che ha proprietà tissotropiche.

La banale domanda del perché il sangue alcune volte non si sia liquefatto è rigettata dalle proprietà stesse dei materiali tissotropici: basta agitare la soluzione delicatamente e non c’è liquefazione (del resto, il sangue di San Gennaro si è liquefatto anche al di fuori dei periodi previsti, probabilmente a causa di manipolazioni non delicate).

Un’obiezione più sensata si basa sulla diffusione della notizia secondo la quale il gel dei tre ricercatori non avrebbe più proprietà tissotropiche dopo 2 anni. La scarsa consistenza logica dei sostenitori del miracolo ha fatto gridare che questa sarebbe la prova più lampante che di miracolo trattasi (il solito errore: non so spiegarmi un fenomeno, allora è sicuramente un miracolo divino). Come ha rilevato Garlaschelli, alcuni campioni del suo gel durano dieci anni, altri molto meno:

Ma del resto, mi sono anche preoccupato poco, addirittura, di sigillare in modo perfetto i miei boccettini. Immagino che i gel tissotropici siano intrinsecamente instabili, e che piccole variazioni nelle condizioni di preparazione possano influire sul risultato finale. Penso alle concentrazioni dei reagenti, al tempo impiegato per mescolarli, alla dialisi, ecc. Forse, preparando cento campioni in condizioni lievemente diverse per ognuno, e poi essendo moooolto pazienti, si capirebbe quali campioni siano più duraturi.

Il punto è che la spiegazione scientifica del miracolo di San Gennaro esiste e si chiama tissotropia. Come giustamente ha osservato Garlaschelli, è del tutto inutile perdere anni di studi per trovare un gel che resista 100, 1.000 anni anziché 10. Per convincersene basta ricordare i celebri violini di Stradivari o Guarneri: nessuno ragionevolmente sostiene che sono opera di Dio solo perché non si conosce perfettamente il processo di lavorazione e le sostanze utilizzate per proteggere il legno (alcune indicazioni furono date da Nagyvary nel 2009).

11 Basilica della SS. Annunziata Maggiore

Via Annunziata, 21 – NapoliSantissima_Annunziata_Maggiore,_Napoli

La Basilica della Santissima Annunziata Maggiore fa parte di un vasto complesso monumentale costituito in origine, oltre che dalla chiesa, da un ospedale, un convento, un ospizio per i trovatelli ed un “conservatorio” per le esposte. L’edificio religioso venne costruito la prima volta nel XIII secolo, poi ampliato nel 1513 e modificato ancora nel 1540. La struttura fu quasi del tutto distrutta da un incendio del 1757 prima e durante la seconda guerra mondiale poi.

 

 

12 Basilica di San Pietro ad Aram

Via Santa Candida, 13 – Napoli

La Basilica di San Pietro ad Aram è famosa perché, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara Petri, ovvero l’altare su cui pregò san Pietro durante la sua venuta a Napoli. Per la sua particolare antichità papa Clemente VII, le concesse il privilegio di poter celebrare il giubileo un anno dopo quello di Roma. L’attuale ristrutturazione è del XVII secolo. L’interno è a navata unica, a croce latina.

 

 

I Palazzi

1 Reggia di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – NapoliReggia_di_Capodimonte_1

Fu voluta dal re Carlo III di Borbone, con lo scopo di impreziosire la sua vasta riserva di caccia. Il progetto cominciò nel 1738. Alla morte del sovrano, Ferdinando IV incaricò l’architetto Fuga di ampliare la reggia. In seguito le opere d’arte furono spostate nell’edificio dell’attuale Museo Nazionale e la reggia divenne residenza di Gioacchino Murat. Sotto i Savoia, rivestì il duplice ruolo di residenza e museo, per poi assolvere dal 1950 solo quest’ultima funzione.

 

2 Palazzo dello Spagnolo

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Palazzo dello Spagnolo fu costruito nel XVIII secolo per volere del marchese Nicola Moscati. Splendida è la scala a doppia rampa ad “ali di falco” presente all’interno realizzata da Ferdinando Sanfelice, architetto, pittore e nobile italiano di epoca barocca, attivo a Napoli. Egli pensò il progetto come una sorta di luogo di incontro. Meravigliose sono anche le decorazioni in stucco. Prende il nome da Tommaso Atienza, che acquistò l’edificio: era soprannominato lo Spagnolo.

 

 

3 Accademia di Belle Arti di Napoli

Via Vincenzo Bellini, 28 – Napoli

E’ un ateneo pubblico per lo studio delle arti visive che ospita circa millecinquecento studenti (napoletani, campani, ma anche molti stranieri). Ha l’ambizioso obiettivo di formare i nuovi quadri della produzione dell’immagine in breve. L’edificio venne fondato nel 1752 da Carlo III di Spagna, che fu re di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759. L’accademia è anche sede di una biblioteca, di una gipsoteca e di una pinacoteca.

 

 

4 Complesso del Convitto Nazionale

Piazza Dante Alighieri, 58 – Napoli

La storia dell’edificio, uno dei complessi storico-religiosi della città, ebbe inizio nel 1768. In origine fu un istituto gesuitico, poi divenne Collegio dei Nobili e infine si trasformò in Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Napoli quandò giunse in città Giuseppe Garibaldi, il quale abolì l’ordine dei gesuiti

5 Complesso di San Gregorio Armeno

Via San Gregorio Armeno, 14-28 – Napoli

Il complesso, fu edificato sui resti dell’antico tempio di Cecere per volere delle suore, scappate dall’Oriente con le reliquie di San Gregorio, è fra le piu’ spettacolari opere barocche napoletane. Ha un unica navata e una cupola molto luminosa. Otto botteghe sono visibili tra il campanile e la facciata. Il chiostro progettato nel 1580 è molto bello, Della Monica infatti lo edificò in funzione strettamente paesaggistica. Da notare poi al centro la fontana marmorea.

6 Università degli Studi di Napoli Federico II

Corso Umberto I, 40bis – Napoli

L’Università degli Studi di Napoli Federico II è il principale ateneo parteneopeo e uno dei più importanti d’Italia, è inoltre la più antica università a essere stata fondata con un provvedimento statale ed è la più antica università laica del mondo. La sede centrale è il Palazzo dell’Università degli Studi “Federico II” in corso Umberto I: imponente edificio neobarocco edificato tra il 1897 ed il 1908. E’ sede della facoltà di giurisprudenza.

 

7 Municipio: Palazzo San Giacomo

Piazza Municipio, 22 – Napoli

Palazzo San Giacomo, sede dell’amministrazione comunale, è il Municipio di Napoli. E’ situato e domina la maestosa Piazza del Municipio: una delle più grandi d’Europa. Lo stile dell’edificio è quello neoclassico, così come le decorazioni. Il palazzo venne innalzato, nel XIX secolo, per volere di re Ferdinando I di Borbone. La stanza del sindaco si trova sopra il portale al primo piano.

8 Palazzo Reale

Piazza Plebiscito, 27 – Napolipalazzo-reale-napoli

Reggia solenne e grandiosa è stata il fulcro del potere di Napoli e il centro degli avvenimenti storici di tutto il Mezzogiorno per quasi quattro secoli. Fu costruita nel 1600 da Fontana per ospitare il re Filippo III di Spagna, atteso a Napoli con la sua consorte per una visita ufficiale che non avvenne mai. Il palazzo divenne poi la residenza dei viceré spagnoli, di quelli austriaci e dei re di casa Borbone. Dopo l’Unità d’Italia fu eletta residenza napoletana dei Savoia.

9 Palazzo Salerno

Piazza Plebiscito, 32 – Napoli

Palazzo Salerno è un edificio di interesse storico-monumentale costruito alla fine del XVIII secolo: è opera di Francesco Sicuro (architetto e incisore messinese). Il tutto ebbe inizio nel 1775: il complesso divenne prima residenza del ministro John Acton e successivamente sede dei Ministri di Stato di Sua Maestà Borbonica (sino al 1825). Al giorno d’oggi invece l’edificio ospita il generale delle forze armate nell’Italia meridionale.

 

 

10 Villa Pignatelli

Largo Principessa Rosina Pignatelli, 201 – Napoli

Villa Pignatelli ospita il Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes. Voluta nel 1826 dal baronetto Sir Ferdinand Richard Acton la villa venne realizzata da Pietro Valente cui successe nel 1830 Guglielmo Bechi. Qualche anno dopo la morte di Sir Acton, nel 1841, la villa venne acquistata dalla famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, che la abitarono fino al 1860. Nel 1867 la villa fu ceduta ai Pignatelli Cortes d’Aragona che ne furono proprietari fino al 1952.

 

11 Villa Lucia

Via del Parco Grifeo, 63 – Napoli

Villa Lucia è situata accanto al Parco di Villa Floridiana, a cui è appartenuta fino al XIX secolo e da cui adesso è separata da un muro di cinta. Agli inizi del XX secolo la villa, acquistata dall’industriale e collezionista d’arte Garofalo, iniziò ad essere frequentata da numerosi artisti ed architetti. Oggi l’edificio è a tutti gli effetti un condominio di lusso, sebbene fino agli anni cinquanta sia stata utilizzata per mostre d’arte ed eventi mondani.

12 Villa Floridiana

Via Aniello Falcone, 170-180 – Napoli

Villa Floridiana è una costruzione di interesse storico ed artistico importante per la città di Napoli. Il nome deriva da Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, moglie di Ferdinando IV di Borbone che nel 1815 comprò la tenute per lei. Il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina è, dal 1927, ospitato all’interno della struttura: è un museo dedicato alle arti decorative. Splendidi sono gli interni dell’abitazione, così come molto curato è il parco che circonda la villa

 


I Musei

1 Museo di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – Napoli

La Reggia di Capodimonte venne edificata per volere del re Carlo di Borbone nel 1738. Nella reggia, all’interno dell’omonimo parco troviamo il Museo Nazionale di Capodimonte che ospita la più importante e ricca pinacoteca dell’Italia meridionale oltre a dipinti, sale espositive e importanti porcellane. La Reggia è circondata da giardini ben curati e ricchi di piante. Il bosco si estende per circa 124 ettari.

Aperto tutti i giorni, tranne il mercoledì, dalle 8.30 alle 19.30. Ingresso € 9, ridotto € 5.

 

2 Osservatorio Astronomico di Capodimonte

Salita Moiariello, 16 – Napoli

Fu fondato nel 1812 da re Gioacchino Murat. Accanto all’Osservatorio vi è il Museo Astronomico di Capodimonte, suddiviso in tre nuclei principali: il Museo degli Strumenti Astronomici che presenta una collezione di strumenti dell’800 e del ‘900, il Padiglione di Bamberg dedicato alla misurazione del tempo ed il il Padiglione di Repsold, con il il telescopio rifrattore equatoriale.

3 Museo Archeologico Nazionale

Piazza Museo Nazionale, 18 – Napoli

La costruzione iniziò nel 1586 come caserma di cavalleria. Nel 1612 diventò la nuova sede dell’Università. Trasformato in “Real Museo”, ospitò le collezioni archeologiche provenienti da Ercolano, Pompei e Stabia. In seguito fu ridenominato “Real Museo Borbonico”, per poi essere titolato “Nazionale” da Garibaldi, inglobando le collezioni archeologiche, artistiche e bibliografiche dai re Carlo III, Ferdinando IV, Francesco I e Ferdinando II di Borbone.

Aperto tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 9.00 alle 19.30. Ingresso € 6,50.

 

4 Galleria dell’Accademia delle Belle Arti

Via Vincenzo Bellini – Napoli

L’Accademia, che ha sede nell’ex convento di S.Giovanni delle Monache, venne fondata nel 1752 da Carlo di Borbone. L’edificio è uno dei più rappresentativi della corrente neorinascimentale che influenzò l’architettura napoletana nell’800. La collezione è divisa in 5 nuclei fondamentali: dipinti antichi, dipinti dell’’800, dipinti del ‘900, sculture, disegni e la celebre Sala Palizzi. L’esposizione narra la storia dell’Accademia e l’evoluzione culturale e artistica di Napoli. Aperto da martedì a sabato dalle 10.00 alle 14.00. Ingresso gratuito.

5 Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina

Via Luigi Settembrini, 80 – Napoli

Il Museo è ospitato nello storico palazzo Donnaregina. L’esposizione permanente vanta opere di alcuni dei più noti artisti contemporanei del panorama internazionale, Horn, Kapoor, LeWitt, Kounellis, e tra gli italiani, Clemente, Paladino, Serra. Si può ammirare anche la collezione storica costituita grazie al prestito a tempo indeterminato di opere da parte di grandi collezionisti italiani e stranieri. Il Museo ospita inoltre mostre temporanee ed eventi durante tutto l’anno.

Aperto da lunedì a domenica dalle 10.30 alle 19.30; la domenica fino alle 23.00.

 

6 Museo del Tesoro di San Gennaro

Via Duomo, 149 – Napoli

L’ingresso del Museo (aperto dal 2003) è situato accanto al Duomo. Secondo uno studio fatto da esperti questo tesoro sarebbe addirittura più ricco di quello della corona d’Inghilterra della regina Elisabetta II e degli zar di Russia. La collezione espone gioielli, statue, busti, tessuti pregiati e dipinti di grande valore. Unica nel suo genere è la pregevole collezione degli argenti. Il percorso museale prevede anche la visita alle tre sacrestie della Cappella del Tesoro

.Aperto tutti i giorni dalle 9.00 alle 17.30, tranne il mercoledì a gennaio e febbraio. Ingresso € 7.

 

7 Museo Civico Gaetano Filangieri

Via Duomo, 288 – Napoli

Il Museo Gaetano Filangieri è ospitato all’interno delle sale di Palazzo Como. Il nome deriva da Gaetano Filangieri che oltre ad essere stato un giurista e filosofo, fu anche principe e mecenate delle arti. La struttura è una sorta di studio privato che raccoglie i vari tipi di produzione artistica locale, oltre che nuovi progetti ed esperimenti artistici. La collezione offre un’ampia visione del panorama artistico napoletano, oltre ad una biblioteca e ad una pinacoteca.

8 Archivio di Stato di Napoli

Piazzetta Grande Archivio – Napoli

L’Archivio di Stato di Napoli, con i suoi oltre 50.000 m lineari di scaffalature, è di fondamentale importanza per la storia dell’Italia Meridionale dal X secolo ad oggi. L’Archivio di Stato nacque nel periodo napoleonico, il 22 dicembre 1808, per concentrare in un sol luogo gli antichi archivi del regno. Con ingresso da via Grande Archivio, ha sede nel monastero dei Ss. Severino e Sossio, in cui vi sono quattro chiostri del XVI e XVII secolo.

Aperto da lunedì a venerdì dalle 8.00 alle 19.00; sabato dalle 8.30 alle 13.30.

 

9 Centro Musei delle Scienze Naturali

Via Mezzocannone, 8 – Napoli

Istituito nel 1992, è costituito da un museo di Mineralogia, Zoologia, Antropologia, Paletnologia, collocati in edifici borbonici. Attualmente il centro offre esposizioni, un percorso sull’evoluzione del pensiero scientifico, nuovi sistemi interattivi, mostre, dibattiti e convegni.

Aperto da lunedì a venerdì dalle 9.00 alle 13.30, il lunedì e il giovedì anche dalle 15.00 alle 17.00. Ingresso € 2,50.

 

10 Museo Civico di Castel Nuovo

Piazza Municipio, 68 – Napoli

Il Museo civico di Castel Nuovo, come suggerisce il nome, è ospitato all’interno delle sale dell’omonimo castello a partire dal 1990. Tra le opere presenti, diverse sono quelle provenienti dalla Reale Casa della Santissima Annunziata. Orgoglio del museo sono: la Cappella Palatina (conserva pitture giottesche) e la Porta Bronzea (in origine ubicata all’ingresso del castello). Al primo e al secondo piano poi troviamo anche diverse opere e dipinti.

11 Museo Nazionale di San Martino

Largo San Martino, 5 – Napoli

Fu aperto al pubblico nel 1866 all’indomani dell’Unità d’Italia. Per volontà dell’archeologo Giuseppe Fiorelli gli ambienti della Certosa furono destinati a raccogliere in un museo testimonianze della vita di Napoli e dei Regni. Tra le altre si può ammirare la Collezione di porcellane Orilia , la sezione navale con vari modelli di imbarcazioni reali, la Pinacoteca con opere di Giordano, Spadaro e Caracciolo.

Aperto tutti i giorni, tranne il mercoledì dalle 8.30 alle 19.30.


 

12 Museo della Ceramica Duca di Martina

Via Domenico Cimarosa, 77 – Napoli

Il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina ospitato all’interno di Villa Floridiana dal 1927, è un museo sede di una delle più grandi collezioni italiane di arti decorative. All’interno possiamo trovare oltre seimila opere di manifattura occidentale ed orientale. Tali opere sono databili dal XII al XIX secolo, il nucleo più ricco a livello numerico è costituito dalle ceramiche. Negli ultimi anni è stata poi anche allestita una sezione d’arte orientale.

Aperto tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 8.30 alle 14.00. Ingresso gratuito.


I Monumenti

1 Fontana del Gigante

Via Partenope, 48 – Napolifontana-del-gigante

E’ una splendida fontana risalente agli inizi del Seicento, progettata dal Bernini e dal Naccherino. I due nomi derivano dalle posizioni originarie: vicino al Palazzo Reale (dove c’era la statua del Gigante) prima, e al molo, nei pressi della costruzione detta dell’Immacolatella, poi. Questa struttura trovò la collocazione definitiva e attuale solo nel 1905. Sugli archi troviamo tre stemmi: quello del viceré, quello del re e quello della città.

2 Stazione Zoologica

Via Francesco Caracciolo – Napoli

E’ composta dall’Acquario più antico d’Europa, nel quale sono presenti 200 specie di animali e vegetali provenienti dal golfo di Napoli, l’Erbario con oltre 2000 esemplari, la Collezione Geologica costituita dai 3500 esemplari, la Biblioteca che custodisce circa 50000 volumi e l’Archivio Storico. Da osservare sono anche gli affreschi che decorano le sale ed i busti in gesso di E. van Baer e C.Darwin.


3 Fontana Gruppo Europa

Viale Antonio Dhorn – Napolieuropa

La Fontana del ratto d’Europa è una delle fontane storiche della città. Venne costruita nella seconda metà del XVIII secolo e posta alla Marinella, solo nel 1807 invece venne spostata nell’attuale posizione: la villa comunale. E’ opera di Angelo Viva: scultore italiano nato, vissuto e morto in città. Nel centro della struttura troviamo una figura femminile intenta a trattenere il proprio manto, ai lati ci sono invece due sirene.

4 Fontana del Sebeto

Via Francesco Caracciolo, 1f – Napoli

La Fontana del Sebeto venne edificata su progetto di Cosimo Fanzago (scultore, architetto e nobile italiano che operò soprattutto a Napoli) per volontà di Manuel de Acevedo y Zúñiga, che fu Viceré del Regno di Napoli. Prima era situata nell’attuale via Cesario Console. Nella scultura troviamo un vecchio che simboleggià il fiume Sebeto: l’antico corso d’acqua che scorreva nel cuore della città. Il nome deriva appunto da questo.


Le Vie e le Piazze

1 Spaccanapoli

Vico Paparelle al Pendino, 13 – Napoli

Spaccanapoli è una delle strade più celebri di Napoli, dove arte, tradizione, storia e cultura napoletana si uniscono. Il nome deriva dal fatto che divide nettamente la città tra il nord e il sud con precisione quasi geometrica. Percorrere Spaccanapoli è come attraversare la storia di Napoli, incontrando lungo il suo tragitto le testimonianze del passato della città ed i suoi tesori artistici.

2 Via San Gregorio Armeno

Via San Gregorio Armeno – Napoli

È famosa in tutto il mondo per le svariate botteghe dedicate all’arte del presepe, aperte tutto l’anno. Sembra che la tradizione presepiale abbia un’origine remota: nella strada, in epoca classica, esisteva un tempio dedicato a Cerere, alla quale i cittadini offrivano piccole statuine di terracotta, fabbricate nelle botteghe vicine. Oggi si trovano anche oggetti kitsch: la statuetta del politico o del VIP del momento è divenuta abituale sulle bancarelle della via.san-gregorio-armeno1

3 Piazza San Domenico Maggiore

Piazza San Domenico Maggiore – Napoli

È uno dei luoghi più significativi della città, rappresenta il limite orientale delle mura di Neapolis. La piazza risale al periodo aragonese; fu voluta da Alfonso I d’Aragona. A lui si deve la grande scalinata a fianco dell’abside della chiesa. L’obelisco centrale a forma piramidale è ornato da marmi, medaglioni e bassorilievi e reca alla sua sommità una statua di San Domenico Maggiore; fu eretto dai napoletani come ringraziamento per essere scampati ad un’epidemia di peste.

4 Piazza del Gesu’ Nuovo

Piazza Del Gesu’ Nuovo – Napoli

È una delle piazze più suggestive e caratteristiche del centro storico. Prende il nome dalla cinquecentesca Chiesa del Gesù Nuovo, uno dei migliori esempi di barocco napoletano. Particolari della sua facciata furono riprodotti sul lato posteriore delle banconote da diecimila lire degli anni ‘70. Elemento di spicco della piazza è l’Obelisco dell’Immacolata, maestosa guglia di marmo bianco, alto 40 metri e costruito nel 1747 con i proventi di una raccolta popolare.

5 Piazza Dante

Piazza Dante – Napoli

In origine ospitava i mercati ed altri scambi commerciali, oggi invece è meta turistica per la presenza del Foro Carolino, voluto da Carlo III di Borbone, un emiciclo al centro del quale doveva essere innalzata la statua equestre del sovrano. In verità il monumento non fu mai eseguito, ma lungo il perimetro furono poste 26 statue raffiguranti le virtù del sovrano. Al centro della piazza si erge il monumento a Dante Alighieri, opera di Tito Angelini, del 1871.

6 Via Toledo

Via Toledo – Napoli

E’ una della principali strade di Napoli con edifici storici, palazzi nobiliari, chiese, teatri, caffè e svariati negozi e boutique di marchi prestigiosi. Il nome è in onore dell’artefice della sua costruzione, il vicerè Pedro de Toledo (1536), la cui idea era stata quella di collegare la zona fuori le mura del largo di Mercato con il nuovo quartiere di Chiaja. Dopo l’Unità d’Italia, dal 1870 al 1980, mutò nome in Via Roma in onore della nuova capitale del Regno.

7 Corso Umberto I

Corso Umberto I – Napoli

Corso Umberto I è una via elegante della città, la lunghezza è di 1,3 km ed è anche conosciuta con il nome di Rettifilo. Il nome deriva dal fatto che sia sorta in epoca umbertina, in poco tempo, alla fine dell’800. La via collega Piazza Garibaldi con Piazza Giovanni Bovio (Piazza Borsa), e percorrendola troviamo anche la Piazza Nicola Amore, intitolata al sindaco che fu l’artefice del Risanamento.

8 Piazza Mercato

Piazza Mercato – Napoli

Piazza del Mercato è una delle piazze storiche della città. Nei pressi troviamo la Basilica del Carmine Maggiore. Deve il proprio nome agli Angioini che ne fecero un grande centro commerciale cittadino, ribattezzandolo Mercato di Sant’Egidio e, quindi, Piazza Mercato appunto. Qui troviamo le chiese di Santa Croce e Purgatorio al Mercato e quella di Sant’Eligio Maggiore, oltre a due fontane-obelischi che decorano la piazza.

9 Piazza Municipio

Piazza Municipio – Napoli

Piazza del Municipio, di forma semi-rettangolare, è una delle piazze più grandi d’Europa. Domina la piazza il Castel Nuovo, è presente anche il Teatro Mercadante. Nelle vicinanze troviamo il porto di Napoli mentre sempre sulla piazza vi è il Palazzo San Giacomo, o più semplicemente il Municipio, sede degli uffici comunali. Troviamo poi la Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. Sullo sfondo spicca maestoso il Vesuvio.

10 Galleria Umberto I

Via San Carlo, 13 – Napoliumberto 1

Costruita tra il 1887 e il 1890, la Galleria Umberto I è una galleria commerciale edificata durante la ristrutturazione edilizia e bonifica territoriale avvenuta a Napoli a partire dal 1884, in seguito all’epidemia di colera. La larghezza è di ben 15 metri, vi sono quattro ingressi: il più importante è quello situato di fronte al Teatro San Carlo. Ogni anno la Galleria viene utilizzata, tra le altre cose, per accogliere l’albero di Natale cittadino.

11 Piazza Plebiscito

Piazza Plebiscito – NapoliBilder für Wikipedia

È la più grande e rappresentativa piazza di Napoli. Il nome celebra il Plebiscito con cui nel 1860 il Regno delle due Sicilie si univa al Piemonte dei Savoia. E’ delineata da 4 costruzioni: la chiesa di San Francesco di Paola, il Palazzo Reale, il Palazzo Salerno ed il Palazzo della Foresteria. Al centro della piazza s’innalzano due statue equestri del Canova, raffiguranti Ferdinando I e Carlo III di Borbone.

 

 

12 Via Caracciolo

Via Francesco Caracciolo – Napoli

È una parte del lungomare di Napoli, una delle più belle litoranee del mondo, il cui nome celebra l’ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della Repubblica Partenopea, giustiziato nel 1799 e gettato nelle acque del Golfo di Napoli. All’inizio del lungomare si può ammirare la seicentesca fontana del Sebeto, proseguendo si arriva al porticciolo di Mergellina, con i pescatori che vendono il pesce dalle barche. Più avanti si trovano i giardini e gli alberi della Villa Comunale.


Attrazioni e Teatri

1 Guglia dell’Immacolata

Piazza Ges – Napoli

L’Obelisco dell’Immacolata è il più famoso degli obelischi della città. All’inizio era un monumento equestre a Filippo V. La splendida guglia barocca dedicata all’Immacolata venne innalzata nel 1747 per volere dei Gesuiti grazie ad una colletta pubblica.

2 Palafrenieri

Via Vittorio Emanuele III, 51 – Napoli

I Palafrenieri sono due statue equestri bronzee esposte ai lati della porta del giardino del Palazzo Reale. Vennero eseguite dallo scultore russo Pjotr Klodt Von Jurgensburg e donate nel 1846 a Ferdinando II di Borbone re di Napoli, dallo zar di Russia Nicola I. Le statue prendono anche il nome di Cavalli russi e la porta, a sua volta, è anche conosciuta come Porta dello zar.

3 Salone Margherita

Via San Carlo, 11 – Napoli

Il Salone Margherita è un luogo ricco di fascino e di storia situato nel ventre di Napoli sotto la Galleria Umberto I. Venne creato verso la fine dell’ottocento per volere dei fratelli Marino. La struttura seguiva l’esempio dei cafèchantant francesi e divenne ben presto il simbolo della Belle époque italiana. L’idea fu talmente vincente che ricalcò del tutto il modello francese: persino nella lingua utilizzata. Il teatro fu chiuso nel 1982 ma riaperto successivamente.

4 Teatro San Carlo

Via San Carlo, 98d – Napoli

È il più antico teatro d’opera europeo ancora attivo, nonché il più capiente teatro italiano; è inoltre riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Fondato nel 1737 per volontà di Carlo I di Borbone che affidò il progetto a Giovanni Antonio Medrano, l’edificio comunicava con il Palazzo Reale, in modo che il Re potesse recarsi agli spettacoli senza dover scendere in strada. Gioacchino Rossini e Donizzetti furono direttori musicali al Teatro San Carlo.
Castelli

1 Castel dell’Ovo

Via Luculliana – NapoliVisitare-Castel-dell’Ovo-Napoli

Sull’isolotto di Megaride sbarcarono i cumani nel VII secolo per fondare la città. Durante la dominazione spagnola passò da dimora reale a prigione. Si narra che dal castello dipendano le sorti della città: Virgilio vi nascose un uovo, se questo si fosse rotto il castello sarebbe crollato; cosa che avvenne nel 300, a causa di un terremoto. Imperdibile la vista su tutto il golfo di Napoli offerta dalla terrazza dei cannoni.

2 Castelnuovo – Maschio Angioino

Piazza Municipio, 68 – Napoli

maschio-angioino

È uno dei simboli della città. La sua costruzione, nel 1266, si deve a Carlo I d’Angiò. Con Roberto il Saggio, il castello divenne centro di cultura: ospitò personalità come Petrarca e Boccaccio e pittori come Giotto vennero chiamati ad affrescarne le pareti. Vi dimorarono illustri sovrani. Nel 1799 fu sede della proclamazione della Repubblica Partenopea. Ospita attualmente il Museo Civico di Castel Nuovo. Da visitare: la Cappella Palatina e la Sala dei Baroni.

 


3 Castel Sant’Elmo

Largo San Martino, 13 – Napoli

È un castello medioevale di tufo, caratterizzato da una pianta a stella con sei punte. Di epoca angioina, ha subito nel tempo numerose trasformazioni. Durante la rivoluzione di Masaniello fu rifugio del duca d’Arcos, nel 1799 fu preso dal popolo per poi essere occupato dai repubblicani. Dalla Piazza d’Armi in cima al castello si ha un panorama indimenticabile. È possibile accedere alle antiche carceri di molti personaggi noti.

4 Castel Capuano

Via Concezio Muzii, 1-45 – Napoli

Costruito in epoca normanna è il più antico castello di Napoli. Concepito come fortezza, divenne la residenza reale di Federico II di Svevia e, nel XVI sec., sede dell’amministrazione giudiziaria. Si possono ammirare il Salone della Corte d’Appello e la Cappella della Sommaria con i loro pregevoli affreschi, dipinti e decorazioni a stucco, e la sala dei Busti che ospita i busti in marmo degli avvocati più famosi del foro.

 

 

Un po’ di tutto

1 Parco Di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – Napoli

Il Parco di Capodimonte è la maggiore area verde della città. Si estende su un’area di 134 ettari. Si presenta con boschi intervallati da ampie praterie, valloni solcati da piccoli torrenti e aree ricche di cave, caratteristica tipica delle colline napoletane. Il parco fu voluto da Carlo III di Borbone nel 1734. Fu concepito inizialmente come riserva da caccia ma con il Re Ferdinando II fu trasformato in giardino all’inglese, assumendo l’aspetto che conserva attualmente.

2 Catacombe di San Gennaro

Tondo di Capodimonte 13 – Napoli

Il nucleo originario si sviluppò attorno alla tomba di una ricca famiglia romana del II secolo., nel III secolo accolse le spoglie di Sant’Agrippino, vescovo di Napoli, e di San Gennaro, divenendo luogo di venerazione. Nel 831 il principe longobardo Sicone I, assediando la città di Napoli, si impossessò dei resti di San Gennaro e li portò a Benevento. Importanti affreschi e mosaici decorano gli ambienti e le tombe più importanti di santi e vescovi.

3 Catacombe di San Gaudioso

Piazza della Sanità, 1-17 – Napoli

Risalenti al IV sec. furono dedicate a Gaudioso, ivi sepolto, dopo che la sua barca, proveniente dall’Africa settentrionale dove era vescovo, miracolosamente approdò a Napoli. Nei cubicoli vi sono affreschi del IV-V e VI sec. e un mosaico della fine del V sec. Sono visibili anche alcuni teschi a causa dell’usanza di adagiare i defunti su sedili in pietra forati con lo scopo di lasciarli disseccare, murando poi tutto il corpo e lasciando affiorare soltanto la testa.

4 Crypta Neapolitana

Salita della Grotta, 12 – Napoli

O Grotta di Posillipo è una galleria lunga 711 m. scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia). La tradizione vuole che la galleria sia stata realizzata da Virgilio in una sola notte, col ricorso alla sua potente arte magica. La leggenda narra che Roberto d’Angiò sottopose la questione al Petrarca, e questi rispose, scherzando: “Non mi è mai capitato di leggere che Virgilio fosse un tagliapietre.”

Ville

1 Villa Doria d’Angri

Via Francesco Petrarca, 80 – Napoli

Villa Doria d’Angri deve il proprio nome a Marcantonio Doria d’Angri, principe ed esponente di spicco della famiglia di origini genovesi. E’ la più importante villa neoclassica della zona, è situata nel quartiere di Posillipo. Questa imponente struttura storico-artistica venne edificata nel 1833, ed è molto caratteristica in quanto sembra che fuoriesca dalla roccia. La villa oggi è sede dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” (facoltà di economia).

2 Palazzo Donn’Anna

Piazza Donn’Anna – Napoli

“Palazzo Donn’Anna non è una rovina: è soltanto incompiuto! Non è forse questo il suo fascino?”. Frase tratta da “Fuoco su di me” film del 2006 girato in città. L’edificio risale al XVII secolo, prende il nome da Donna Anna Carafa, consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres, la quale diede commissione di costruire l’edificio, edificio che restò incompiuto a causa della morte di Donn’Anna. E’ uno dei più celebri palazzi di Napoli.

3 Villa Volpicelli

Via Ferdinando Russo, 4-14 – Napoli

Il nome deriva da Raffaele Volpicelli che acquistò la villa nel 1884. La struttura è una delle più belle di Posillipo, quartiere in cui è situata. Particolarmente interessante è l’ampio giardino, nascosto da un muro di cinta: esso si distende in prossimità del mare e sfiora le proprietà della vicina Villa Rosebery.

4 Villa Rosebery

Via Ferdinando Russo – Napoli

Villa Rosebery è uno dei più importanti punti di riferimento del neoclassicismo della città. E’ situata nel quartiere Posillipo. Fu residenza reale, oggi è importante perchè oltre alla particolare bellezza che la contraddistingue è la residenza del Presidente della Repubblica Italiana quando si reca a Napoli. Per questo motivo, se non in qualche periodo dell’anno, non è visitabile

Mergellina e Posillipo

1 Mergellina

Piazza Sannazzaro, 200 – Napolimergellina

E’ una zona della città di Napoli, romantica e leggendaria, cantata dai poeti, situata in riva al mare. Il nome deriva dalla posizione sul Golfo e dal termine “mergoglino” (uccello acquatico). Il piccolo porto di Mergellina oggi è diventato un punto turistico mentre prima era luogo di pescatori. Da qui partono ogni giorno gli aliscafi per le isole del golfo. La zona possiede un’importante stazione ferroviaria e una funicolare che collega Mergellina conPosillipo.

2 Crypta Neapolitana

Salita della Grotta, 12 – NapoliLa-Crypta-Neapolitana-2-1024x680

O Grotta di Posillipo è una galleria lunga 711 m. scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia). La tradizione vuole che la galleria sia stata realizzata da Virgilio in una sola notte, col ricorso alla sua potente arte magica. La leggenda narra che Roberto d’Angiò sottopose la questione al Petrarca, e questi rispose, scherzando: “Non mi è mai capitato di leggere che Virgilio fosse un tagliapietre.”

3 Posillipo

Via Posillipo, 166 – Napoliposillipo

Posillipo è un sobborgo residenziale collinare della città, quartiere cittadino solo dal 1925, prima era una frazione. E’ una delle zone più belle e prestigiose della città. Il nome deriva dal greco Pausilypon che significa “tregua dal pericolo” o “che fa cessare il dolore”: questo perchè il panorama che si può godere e che si godeva anche duemila e cinquecento anni fa da questa zona è davvero splendido. Questa è una tappa obbligata per i turisti.

4 Mausoleo Schilizzi

Via Posillipo, 157 – Napoli

Il Mausoleo Schilizzi (conosciuto anche come Mausoleo di Posillipo o Ara votiva per i caduti della patria) è un monumento funebre dedicato ai caduti della prima guerra mondiale. Sorse nel quartiere Posillipo tra il 1881 ed il 1889 e rappresenta uno dei più interessanti esempi di architettura neo-egizia italiana. Attualmente ospita anche i caduti della seconda guerra mondiale, compresi quelli delle Quattro giornate di Napoli. Progettato e costruito dall’architetto A. Guerra.

 

Fuorigrotta

1 Mostra d’Oltremare

Piazzale Vincenzo Tecchio – Napoli

La Mostra d’Oltremare è una delle principali sedi fieristiche italiane e, assieme alla Fiera del Levante, la maggiore del mezzogiorno. Si estende su una superficie di 720.000 m² comprendente edifici di notevole interesse storico-architettonico, oltre a padiglioni espositivi più moderni, fontane, un acquario tropicale, giardini con una grande varietà di specie arboree e un parco archeologico.

2 Stadio San Paolo

Piazzale Vincenzo Tecchio, 70 – Napoli

Lo Stadio San Paolo di Napoli sorge nel quartiere di Fuorigrotta ed è il principale impianto polisportivo della città. È conosciuto soprattutto dal punto di vista calcistico, essendo sede delle partite interne della SSC Napoli. Lo stadio è in realtà una struttura polisportiva, dotata di palestre polifunzionali e di arti orientali, e inoltre di un campo da basket. Battezzato come Stadio del Sole, la struttura venne inaugurata il 6 dicembre 1959.

3 Fontana dell’Esedra

Via Terracina, 188 – Napoli

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La fontana fu progettata nel 1938 da due architetti, Carlo Cocchia e Luigi Piccinato, e inaugurata nel 1940. Fu voluta dal regime fascista, in quanto doveva celebrare il colonialismo italiano. L’inaugurazione fu spettacolare: venne eseguita la sinfonia “Fontane d’Oltremare” e i getti d’acqua erano sincronizzati con la musica. Il 23 maggio 2006, dopo circa trent’anni di abbandono la fontana è stata restaurata e nuovamente inaugurata.

4 Zoo di Napoli

Via John Fitzgerald Kennedy, 143 – Napoli

Lo zoo nasce nel 1940, ma a causa della Seconda guerra mondiale viene aperto permanentemente al pubblico solo nel 1949. Uno dei primi zoo italiani ad aprire i battenti, verrà considerato per tutta la seconda metà del ‘900 un luogo ideale per ricerche scientifiche, assumendo fama in tutta Europa, dato che ospitava decine di specie animali a rischio di estinzione nel loro habitat naturale. È in atto un piano per rivalutare lo Zoo di Napoli, adeguando gli spazi per gli animali.

SHOPPING

Napoli è sicuramente una meta ideale per chi ama fare shopping. La città offre, infatti, una varietà di possibilità, con prezzi che variano da una zona all’altra. A seconda della disponibilità delle tasche, si può scegliere tra negozi di grandi firme, negozi con prezzi più economici oppure i caratteristici mercatini popolari. Gli amanti dello shopping di lusso non potranno fare a meno di fare una passeggiata per le eleganti strade di via dei Mille, via Calabritto, via Filangieri e via Carlo Poerio, ricche di famose boutique delle marche più prestigiose della moda italiana e non. Per chi invece vuole fare acquisti a buon prezzo e trovare fantastiche occasioni, il posto giusto è il centro storico di Napoli, in particolare la caratteristica via Toledo e Corso Umberto. Qui troverete molti negozi con prezzi accessibili. Il Vomero è un’altra zona molto rinomata per lo shopping napoletano, passeggiando per Via Scarlatti e Via Luca Giordano, potrete trovare grandi marchi, ma è addentrandovi per i vicoletti che potreste fare i veri affari. Non dimenticate di fare una sosta nella storica bottega di cravatte di Marinella, nei pressi di Piazza Vittoria, famosa in tutta il mondo per la qualità e la bellezza dei capi venduti.

Lo shopping costoso della zona di Chiaia

Se deciderete di passeggiare lungo le eleganti strade di via dei Mille, via Calabritto e via Carlo Poerio potrete ammirare le splendide vetrine delle marche più famose come quelle di Gucci, Louis Vuitton, Ferragamo e Cartier. Accanto ai negozi di alta moda potrete apprezzare le antiche e affascinanti botteghe sartoriali di stampo assolutamente partenopeo. Ma ancor più elitaria è quella lingua di strada, piccola e spesso molto trafficata, che segue via dei Mille ovvero via Filangieri, con le sue scintillanti e seducenti vetrine di Pomellato, Hermès e Bulgari. Sempre nella zona di Chiaia, a Piazza dei Martiri, potrete fare un giro nel maxistore Feltrinelli per anche solo sfogliare qualche libro, in un’atmosfera serena e rilassante, in attesa di trovare quello giusto da comprare. Dopo la passeggiata nel mondo dei libri, per trovare il giusto equilibrio tra cultura e shopping sfrenato, dirigetevi verso il negozio di Tramontano a via Chiaia, dove vi innamorerete delle pregiatissime e anche costosissime borse fatte a mano secondo un’antica tradizione napoletana. Verso piazza Vittoria andate a visitare, quasi fosse un museo, la raffinata bottega delle mitiche cravatte di Marinella conosciute in tutte il mondo. I vostri occhi non potranno credere all’incredibile quantità di cravatte adagiate sul massiccio bancone di legno e la scelta non sarà facile anche perché il negozio è piuttosto angusto e i clienti sono veramente tanti.

Il Centro Storico è per tutte le tasche

Se volete immergervi in un’atmosfera più semplice e caratteristica, ma soprattutto se desiderate fare acquisti a buon prezzo e spesso anche dei veri e propri affari, non dovete far altro che dirigervi verso il centro storico della città. Non potete non provare l’emozione di passeggiare lungo Via Roma, che vi sorprenderà con i suoi folcloristici vicoletti che conducono alle particolari e spesso caotiche atmosfere dei quartieri spagnoli, e lungo il Corso Umberto, che è sempre illuminato, anche se non è Natale, dalle insegne dei suoi numerosissimi negozi. In questa zona c’è una grande concentrazione di catene commerciali come Benetton, Sisley, Stefanel, Phard, Camomilla, Calzedonia e per le più giovani Bershka, Zara e Pull and Bear. Ma ce n’è per tutti i gusti anche nell’ambito delle calzature: scarpe di ogni tipo e a qualsiasi prezzo per grandi e piccini. Per gli amanti delle carte particolari segnaliamo “I Cartigiani” nella zona delle Università, in cui potrete farvi fare un diario su misura scegliendo tra le numerosissime varietà di carta o anche acquistare album e cornici fatte a mano con un lavoro attento e meticoloso.

Le passeggiate al Vomero

Le colline del Vomero sono spesso proibitive per chi vuole fare un po’ di shopping non impegnativo, ma al di là delle strade principali come Via Scarlatti e Via Luca Giordano, i vicoletti un po’ più nascosti potrebbero nascondere dei veri e propri affari per le vostre tasche. Vi consigliamo comunque di dedicare un pomeriggio alle strade di questo quartiere perché anche solo ammirare le vetrine passeggiando tra le due schiere di alberi nella pedonale Via Scarlatti, o godersi la tranquilla atmosfera di Via Luca Giordano, recentemente vietata alle macchine, può risollevarvi il morale e farvi trascorrere qualche ora all’insegna del relax. Del resto se è vero che la shopping terapia aiuta a sentirsi meno tristi, è ugualmente giusto affermare che anche solo dare uno sguardo alle vetrine in un luogo accogliente fa sentire ugualmente bene.

Mercatini: una realtà parallela

Non dovete assolutamente perdere l’appuntamento con almeno uno dei mercatini che vi offre la città di Napoli. Nonostante siano tutti affollati, disordinati e caotici, sono molto amati non solo dalle persone in cerca di occasioni, ma anche da coloro che desiderano immergersi in un’atmosfera particolare per cogliere quel lato di Napoli che probabilmente altrove è inafferrabile. In tutti i mercatini le voci si mescolano, si confondo, “J teng a robba bon!” ( io ho della buona merce), “Signurì oggi prezzi pazzi, m’vogl ruvinà!” ( Signorina oggi prezzi molto convenienti, mi voglio rovinare!) e la gente che è lì a scavare tra le “pezze” di qualche bancarella o a trattare sul prezzo, non può far altro che sorridere e continuare a spendere con il buonumore. Il mercatino di Poggioreale, situato a un chilometro dal carcere di Poggioreale, aperto dal venerdì alla domenica, vi stupirà per la sua varietà di scarpe di qualsiasi tipo. Il mercatino di Antignano nella zona del Vomero allestisce le sue bancarelle di abiti, scarpe e accessori per la casa tutte le mattine dalle 7:00 alle 13:30; di egual tipo è il mercatino di Posillipo che apre i battenti solo il giovedì dalle 7:00 alle 13:00. Nella brulicante e variopinta Pignasecca si trova il mercato della Pignasecca che offre prodotti di vario genere, dai vestiti agli alimenti, fino agli accessori per la casa. Gli amanti dell’Antiquariato invece non possono lasciarsi sfuggire il Mercatino dell’Antiquariato nella Villa Comunale, ogni terzo sabato e domenica de mese, che desta molto interesse per il valore degli oggetti d’epoca esposti.

Se vi interessano i mercati, Napoli è il posto giusto:

Porta Nolana

Tutti i giorni dalle 8 alle 14. Piazza Porta Nolana.

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Il mercato di Porta Nolana è il più famoso mercato di pesce a Napoli. Qui, in una situazione colorata e divertente, troverete ogni tipo di prodotto ittico insieme ad alimentari vari. Durante le festività di Natale, non perdetevi le trattative per l’acquisto del capitone, la tradizionale anguilla del cenone della vigilia.Mercato-

Mercatino dell’antiquariato

Ogni terzo e quarto week-end del mese. Villa Comunale.

Un mercatino delle pulci specializzato sull’antiquariato, che anno dopo anno sta conquistando sempre più prestigio e visitatori. Qui troverete una grande varietà degli oggetti esposti, dalla cartolina d’epoca fino all’armadio fine ‘800.

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Tutti i giovedì dalle 7 alle 13. viale della Rimembranza.

In questo mercato, frequentato dalla gente “bene” di Napoli, troverete vestiti firmati, scarpe, tessuti ed accessori. Attenzione ai prezzi, non sono sempre economici.

 

Presepe Napoletano

 

Napoli vanta una lunga ed importante storia nell’arte del presepe. Questa tradizione, che ha mantenuto inalterati fino ad oggi i caratteri tipici, ha assunto un ruolo di primo piano in città, tanto che ogni anno attira numerosi turisti. Via San Gregorio Armeno, conosciuta come la “Via dei presepi”, è nota in tutto il mondo per le innumerevoli botteghe che realizzano e vendono presepi. PresepeIn questa strada, dove sembra che il Natale non finisca mai, tutto l’anno i maestri artigiani sono all’opera per realizzare i tipici presepi in sughero. Ma è soprattutto nei giorni di Natale, che la via viene presa d’assalto dai napoletani e, soprattutto, dai turisti. Qui si può trovare davvero tutto il necessario per il presepe: dalle casette in sughero di varie dimensioni, ai mulini a vento e alle cascate azionate dall’energia elettrica, dai pastori in terracotta dipinti a mano a quelli con abiti cuciti su misura. Non possono ovviamente mancare le classiche statuine dei Re Magi e della Sacra Famiglia, in tutte le dimensioni, materiali e prezzi, oltre a quelle più moderne dei fruttivendoli, pescivendoli e pizzaioli. Accanto a queste vere e proprie opere d’arte, frutto del lavoro di famiglie artigiane che si tramandano quest’arte da generazione a generazione, si trovano oggetti stravaganti, ironici e a volte anche irriverenti: la statuetta del politico o del VIP del momento è oramai divenuta uno dei classici sulle bancarelle di via San Gregorio Armeno. Tanto che alcuni artigiani si sono specializzati nella realizzazione di queste atipici pastori. Come non dimenticare Maradona con il suo pallone negli anni d’oro del Napoli o Di Pietro quando era ancora giudice con la schiera di politici condannati durante Tangentopoli. In questo clima colorato e divertente si rivive una Napoli viva e realistica che ancora esiste. Ricordate che se volete acquistare una statuetta in genere si parte dai 35-45 euro per modelli semplici, fino ad arrivare alle migliaia di euro per quelli che riproducono i pastori classici del Settecento.

 

Credenze popolari

 

Napoli è famosa per essere la città delle leggende, dei misteri, ma soprattutto delle superstizioni e dei numeri. La superstizione, che ha origini antichissime, tanto che lo stesso Cicerone la citava nelle sue opere, è la credenza, irrazionale, che particolari atteggiamenti e comportamenti possano avere delle ripercussioni, prevalentemente di carattere negativo, su eventi futuri. Questa poi si trasforma in malocchio quando si basa sull’attribuzione di un potere malefico alle persone. Ma come proteggersi dal malocchio? Oltre agli scongiuri, i napoletani credono nel potere degli amuleti, tra i quali il ferro di cavallo, il gobbetto, il numero 13, ma soprattutto il corno e le corna. Il corno, in particolare, è l’amuleto più diffuso e venduto a Napoli. Ritenuto auspicio di fertilità già nel neolitico, il corno per assolvere il suo scopo deve rispettare dei particolari caratteri: deve essere regalato, deve avere una forma a punta e sinusoidale, deve essere fatto a mano, deve essere duro, e deve essere di color rosso. In città la superstizione è legata anche al gioco del Lotto ed alla lettura della Smorfia. Questo gioco, originariamente conosciuto come “gioco del seminario”, si diffuse nel 1576, quando il patrizio genovese Benedetto Gentile decise di associare ai 120 candidati alla carica di membro del collegio della Repubblica 120 numeri imbussolati in un’urna chiamata “seminario”. A quel punto non mancavo le scommesse sui 5 nomi estratti, che avrebbero fatto parte del Collegio. Oggi i napoletani per avere i numeri giusti si affidano alla smorfia ( da Morfeo), libro che associa ad ogni evento o sogno un numero. Il personaggio più nominato e temuto dai napoletani è “ò munaciell”, lo spiritello dispettoso e stravagante, ma a volte benevole, di un bambino. La leggenda ebbe origine nel 1445, sotto il regno Aragonese, quando una giovane nobile si innamorò di un garzone. Questo amore impossibile finì in tragedia: il giovane amante fu assassinato e l’innamorata rinchiusa in un convento. Da questa relazione nacque comunque un figlio, tenuto per anni nascosto dalle suore a causa della sua deformità. “Munaciell”, chiamato così per gli abiti monacali che indossava, fu sempre temuto per i suoi poteri magici e soprannaturali. Di pari fama, ma antagonista principale del “munaciell”, è “bella mbrian”, lo spirito benigno della casa. Avere questa presenza nelle case significa infatti benessere, salute, prosperità. Rappresentata come una bella donna molto ben vestita, la “bella mbrian” viene invocata soprattutto nelle situazioni difficili. Ma ricordate di lasciarle sempre una sedia libera dove riposarsi, e di non parlare mai di eventuali traslochi, altrimenti potrebbe arrabbiarsi.

 

Sicurezza a Napoli: consigli fondamentali

Gli episodi di cronaca nera che abbondano nei telegiornali nazionali raramente riguardano i turisti e interessano parti della città molto lontane dai luoghi da visitare. Sono invece più frequenti, (anche se molto meno di quello che si pensa )scippi, truffe e imbrogli vari, che si possono evitare seguendo questi semplici consigli. I ladri napoletani “fiutano” le prede più semplici. Sanno riconoscere al volo un turista sprovveduto da uno che invece può creare problemi. Il primo consiglio, quindi, è questo: usate il buonsenso. Se avete un Rolex o un orologio di valore, non esponetelo come un trofeo. Lasciatelo a casa o nella cassaforte dell’hotel. Non andate in giro con la macchina fotografica penzolante al collo, in attesa che passi qualcuno sul motorino e ve la porti via. Per le donne: la borsetta va tenuta chiusa, stretta e sempre sotto controllo: non tanto per gli scippi, che sono diventati molto rari, ma quanto per i borseggiatori che operano nei luoghi affollati e negli autobus frequentati dai turisti. Non portare portafogli e soldi nella tasca posteriore dei pantaloni, ma davanti o nella tasca interna della giacca o del giubbino. I napoletani sono sempre molto gentili, ma se qualcuno si offre di farvi una foto o accompagnarvi da qualche parte, respingetelo con un NO fermo e allontanatevi. Può capitare che alle fermate dell’autobus qualcuno vi racconti una storia strappalacrime di medicine, malattie e soldi che vi verranno restituiti presto: salutatelo e basta. I ladruncoli che rubano negli autobus e nelle metro affollate sono degli insospettabili signori ben vestiti, quindi tenete d’occhio loro.

Uno spazio a parte meritano alcuni tecniche storiche che usano i truffatori napoletani per guadagnarsi la giornata: sono il gioco delle campane o delle tre carte e il cosiddetto “Pacco”. Nelle zone di arrivo dei turisti, soprattutto di fronte al porto e nei pressi della Stazione Centrale, ci sono gruppetti di persone che fanno finta di giocare alle tre carte su tavolini improvvisati. Attenzione, sono tutti “compari”, quasi sempre di una stessa famiglia. Uno di loro farà finta di aver vinto molti soldi per incuriosirvi e farvi avvicinare al tavolo, dove con molto insistenza vi chiederanno di puntare dei soldi che puntualmente perdente. Il Pacco: nel bene e, soprattutto nel male, è il segno della creatività napoletana. Nella zona del porto, a Piazza Garibaldi ma anche semplicemente mentre state passeggiando per strada, qualcuno vi chiederà di comprare per una cifra ridicola l’ultimo modello di telecamera, portatile, telefonino o qualsiasi altro oggetto elettronico di valore. Quello che ha in mano il truffatore è vero: quello che vi ritroverete nel pacco è un mattone, al massimo una brutta copia fatta in legno e dipinta con maestria.

CAPRI

Una delle mete turistiche più rinomate ed ambite dal turismo mondiale. L’isola di Capri è la perla del golfo di Napoli. La vegetazione lussureggiante, i colori straordinari del mare, le grotte meravigliose, l’hanno resa celebre nel mondo. Capri ha incantato nei secoli scrittori, poeti, musicisti, pittori. Tanti i registi che l’hanno scelta come sfondo per i loro film e i personaggi famosi che hanno affollato i tavolini della celebre piazzetta. Uno dei primi estimatori dell’isola fu l’imperatore romano Tiberio, che qui trascorse gli ultimi anni della sua vita. Ma la definitiva vocazione dell’isola fu scoperta alla metà dell’800, quando visitatori da tutto il mondo la scelsero come residenza, formando quella colonia cosmopolita che ha creato il mito di Capri e della Grotta Azzurra…

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Situata a 17 miglia marine a sud di Napoli, questa meravigliosa isola si estende su un’area di circa 10 km quadrati, dei quali 4 appartenenti al comune di Capri e 6 al comune di Anacapri. Per il magnifico clima, il mare cristallino e le bellezze naturali, Capri ha sempre attirato rinomati intellettuali, artisti e scrittori, tutti rapiti dalla sua magica bellezza. Tra questi Charles Dickens, che la descrive con queste poche, ma significative, parole: “In nessun luogo al mondo, vi sono tante occasioni di deliziosa quiete, come in questa piccola isola”. Questo mix di storia, natura, mondanità, cultura, eventi hanno dato vita al Mito di Capri, rendendo la città una delle mete preferite dal turismo internazionale. Per gli amanti del mare e delle immersioni l’isola offre vere e proprie perle. La costa frastagliata è, infatti, caratterizzata da numerose grotte, utilizzate in epoca romana come ninfei delle sontuose ville, e cale che si alternano a ripide scogliere. La grotta più famosa è senza dubbio la Grotta Azzurra, in cui i magici effetti luminosi furono descritti da moltissimi scrittori e poeti. Caratteristici di Capri sono anche i celebri Faraglioni, tre piccoli isolotti rocciosi a poca distanza dalla riva, che creano uno spettacolare effetto scenografico e paesaggistico. IMG_9896L’isola di Capri si trova nella parte meridionale del Golfo di Napoli ed è occupata da due altopiani, separati nel mezzo da una fertile pianura. L’isola si popolò a partire dal VIII a.c., quando greci e fenici scelsero questa terra come dimora. Ma il primo, vero estimatore di Capri fu l’Imperatore Tiberio, successore di Augusto sul trono di Roma.

Intorno al 30 d.c., Tiberio fece costruire nell’isola 12 sontuose ville, tra le quali la celebre Villa Jovis, dando a ciascuna di esse il nome di una divinità.Dalla caduta dell’Impero Romano (476 d.c.) fino a tutto l’Alto Medioevo (1000), Capri rimase sotto il controllo di Napoli, senza tuttavia venir influenzata dai cambiamenti politici che si verificavano nella città dominatrice, causati dall’alternarsi di varie dinastie, tra Angioini e Aragonesi. Nel frattempo Capri doveva risolvere ben altri problemi che continuarono per diversi secoli: presa di mira dalle continue scorrerie dei pirati e dimenticata da Napoli, la popolazione dovette spostarsi dalla costa rifugiandosi nelle alture che sorgevano all’interno dell’isola. Questo provocò una sorta di tracollo dell’economia isolana, basata soprattutto sulla pesca, ma anche la nascita dei due insediamenti urbani di Capri e Anacapri (1200).

Tra il 1200 e il 1500 l’isola fu assoggettata ai normanni e poi agli svevi, passando in mani spagnole e per ultimo, fino al crollo di Napoleone, in quelle dei francesi. È proprio a partire dal 1800 che si assiste al risveglio culturale dell’isola, e questo grazie ad un animato e crescente interesse da parte di artisti ed intellettuali europei. Attratti dallo splendido clima, dalla posizione e dalle meraviglie naturalistiche, inglesi, americani e tedeschi divennero i protagonisti di un’invasione pacifica dell’isola, la quale di conseguenza cominciò ad attrezzarsi per accogliere i turisti .Ai primi del 1900 l’isola accolse alcuni rifugiati politici, tra i quali lo scrittore russo Maxim Gorki e Lenin, seguiti negli anni Cinquanta dal celebre poeta cileno Pablo Neruda, che per alcuni anni visse in esilio nell’isola.

Capri: Arco Naturale Questo ardito Arco è la parte superstite di una grande grotta che si addentrava nella montagna. I flutti del mare ne ampliarono l’apertura e asportarono i detriti. Dopo il sollevamento dell’Isola in età paleolitica, la grotta fu sottratta all’azione erosiva delle onde ed il vento e la pioggia ne trasformarono la superficie.

 

Villa Jovis Delle dodici ville imperiali di Capri menzionate da Tacito negli Annali, Villa Jovis è la più grande. Tiberio diresse da qui le sorti dell’Impero dal 27 al 37 d.C.villa-jovis-and-santa-maria-del-soccorso

 

 

 

 

 

 

Giardini di Augusto I Giardini di Augusto, a pochi passi dalla Piazzetta, sorgono in prossimità di Via Krupp, ideata dall’industriale dell’acciaio tedesco A.F. Krupp, che a tale scopo acquistò il “Fondo Certosa”, dove in parte sorgono i giardini.augusto capri

 

Punta Cannone Sulla posizione strategica di questo pianoro, i francesi piazzarono nel 1808, un cannone per la difesa del settore sud dell’Isola. Nel ‘900 e durante il soggiorno della folta colonia di artisti tedeschi che vi sostavano per dipingere.

 

Giro dell’ Isola – Grotte Il giro in barca intorno all’Isola inizia da Marina Grande. Dirigendosi verso occidente, si costeggiano la spiaggia di Marina Grande e i Bagni di Tiberio. Il tratto di costa successivo è costituito dall’alta falesia calcarea con fenditure e grotte sormontate da una ricca vegetazione autoctona

 

Anacapri: Villa San Michele Costruita dal medico e scrittore svedese Axel Munthe sui ruderi di una villa romana, Villa San Michele é meta di un gran flusso di visitatori, mai cessato dal 1929.

 

Anacapri: Casa Rossa Nel museo della Casa Rossa sono custodite le statue di epoca romana raffiguranti divinità marine rinvenute nella Grotta Azzurra. Inoltre espone immagini di vita vissuta e quotidianità a Capri tra l’Ottocento e il Novecento attraverso le tele di famosi maestri quali Barret, De Montalant..

 

Anacapri: Monte Solaro con seggiovia Il protagonista assoluto è il panorama a 360° che offre la vista splendida del Golfo di Napoli con allo sfondo il Vesuvio,il Golfo di Salerno, passando per la piana di Anacapri, la penisola sorrentina,l’isola di Ischia, Capri con i Faraglioni e ammirando il colore stupendo del mare.

 

 

Anacapri: Grotta Azzurra La Grotta Azzurra, caverna naturale sprofondata in mare dall’epoca preistorica, è oggi una delle maggiori attrattive turistiche di Capri, per l’ammaliante effetto creato dai giochi della luce solare filtrata da sotto l’acqua e riflessa sulle pareti rocciose.IMG_9889

 

 

 

 

 

 

 

 

Anacapri: Fortini Un recente progetto di restauro dei fortini ed il recupero dei sentieri, ha valorizzato una parte dell’isola sotto il profilo storico e paesaggistico. Potete visitare i Fortini scendendo a piedi per Via Pagliaro (lungo la strada per la Grotta Azzurra).

 

La Costiera Amalfitana

Da Positano a Vietri sul Mare 36 chilometri di paradiso. Quattordici località ognuna con le sue tradizioni e le sue peculiarità per le quali vale la pena visitarle almeno una volta nella vita. Immerse in uno scenario incantevole condividono un mare cristallino dai colori intensi, una natura selvaggia, le chiese dalle cupole maiolicate e le case aggrappate all’impervia roccia. La costiera, dal 1997 Patrimonio mondiale dell’Unesco, prende il nome da Amalfi per la sua posizione centrale e per il ruolo storico che ha ricoperto. Nel IX secolo ha segnato le sorti del mediterraneo insieme alle altre repubbliche marinare. Il Duomo, con il chiostro del Paradiso e la Basilica del Crocifisso e la pregiata carta d’Amalfi tra le attrazioni del posto. Da Positano con le sue stradine, le botteghe di abbigliamento e le spiagge bandiera blu, passando per il fiordo di Furore, alla grotta dello smeraldo di Conca dei Marini, dalla piazzetta sul mare di Atrani alle scale di Raito, senza parlare di Ravello e delle altre perle della costiera è un susseguirsi di emozioni, un viaggio tutto da scoprire.

 

Sorrento

« Poche città ponno vantare la sua veramente incantevole, romantica, deliziosa, e quanto mai amenissima situazione, quale non può esprimersi con poche parole; anche pel ridente e leggiadrissimo promontorio del suo nome celebre, come per la purissima e saluberrima aria, onde fu appellata naturae miraculo e altamente rinomata. »

(Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LXVII, p. 233)sorrento1-1

 

Sorrento (Surriento in napoletano) è un comune italiano di 16.592 abitanti

Meta turistica per eccellenza, da sempre per le sue bellezze naturali ed artistiche e le sue tradizioni, Sorrento è il maggiore centro per numero di servizi offerti ed anche il più conosciuto e nominato di tutta la Penisola Sorrentina. È Sede Arcivescovile.

La fondazione è tradizionalmente e leggendariamente attribuita ai greci, ma Sorrento ebbe come primi abitanti stanziali i popoli italici, dagli Etruschi e poi, dal 420 a.C., vi fu importante l’influsso degli Osci. In età romana è ricordata per aver partecipato all’insurrezione degli Italici (90 a.C.); vi fu quindi dedotta da Silla una colonia, a cui seguì più tardi uno stanziamento di veterani di Ottaviano. Fu poi municipio della tribù Menenia. Fu sede vescovile almeno dal 420. Durante la crisi del dominio bizantino in Italia, Sorrento acquistò autonomia come ducato, prima sotto la supremazia dei duchi di Napoli, poi con arconti e duchi propri, sempre in lotta con Amalfi, Salerno ed i Saraceni. La storia di Sorrento si confonde con quella delle altre città campane; prese parte alle leghe anti musulmane; combatté i Longobardi di Benevento; conobbe lotte familiari tra i nobili locali. Obbligato nel sec. IX da Guaimario ad accettare come proprio duca il fratello, Guido, il Ducato di Sorrento riprese la propria autonomia dopo la morte di quest’ultimo per poi perderla definitivamente nel 1137, assorbito nel nuovo regno dei Normanni. Sorrento seguì da allora le sorti del regno, non senza ribellioni e conflitti, specie all’inizio dell’età aragonese. Nel 1558 fu presa e saccheggiata dai Turchi; nell’inverno del 1648 la città sostenne valorosamente l’assedio di Giovanni Grillo, generale del duca di Guisa.

l centro storico mostra ancora il tracciato ortogonale delle strade di origine romana, mentre verso monte è circondato dalle mura cinquecentesche. Vi si trovano il Duomo, riedificato nel XV secolo, con facciata neogotica, e la Chiesa di San Francesco d’Assisi, con un notevole chiostrino trecentesco, con portico arabeggiante ad archi che s’intrecciano su pilastri ortogonali. Nel museo Correale di Terranova sono esposte collezioni di reperti greci e romani e di porcellane di Capodimonte, con una sezione di pittura del XVII-XIX secolo; dal parco si gode inoltre una magnifica vista sul golfo. Presso la Punta del Capo, 3 km a ovest, si trovano resti romani ritenuti della villa di Pollio Felice (I secolo d.C.). Un’altra villa marittima è la “Villa di Agrippa Postumo”, sotto l’attuale “Hotel Syrene”. La villa fu fatta costruire dallo sfortunato nipote di Augusto.

La Penisola, area di antica tradizione casearia, offre itinerari alla ricerca di antichi sapori e storici vini, attraverso prodotti e produttori, espressione del territorio. Si passa dal limoncello di Sorrento all’olio alimentare a denominazione di origine protetta Penisola Sorrentina, dalla pasta di Gragnano ai latticini di Agerola, sostando in veri templi del gusto e girovagando per cantine e frantoi. Si parte da Vico Equense, vero paradiso gastronomico, dove piccoli “artigiani del gusto” realizzano dei grandi prodotti, come la salsiccia e il salame fatto di carne suina e scorza di arancia, ed i magnifici prodotti caseari, dai burrini, caciottine ripiene di un delicato purè di burro, ai caprignetti, piccole palline ottenute da una crema di formaggio caprino (cacio-ricotta) che, dopo essere state cosparse di erbe aromatiche, vengono conservate sott’olio. Il più pregiato di tutti è il rinomato Provolone del Monaco DOP, formaggio stagionato a pasta filata nella caratteristica foggia a melone leggermente allungato o a pera, senza testina. I prodotti caseari della zona sono ancora prodotti in modo artigianale e svariate sono le botteghe gastronomiche e i produttori presso cui si possono assaggiare e acquistare i prodotti tipici, ma anche osservare il ciclo di produzione. Da notare sono le trecce alle olive e le altre specialità dei Monti Lattari.IMG_9726

La reggia di Caserta

La reggia di Caserta, o Palazzo Reale di Caserta, è una dimora storica appartenuta alla casa reale dei Borbone di Napoli, proclamata Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

Situata nel comune di Caserta, è circondata da un vasto parco nel quale si individuano due settori: il giardino all’italiana, in cui sono presenti diverse fontane e la famosa Grande Cascata, e il giardino all’inglese, caratterizzato da fitti boschi.

In termini di volume, la reggia di Caserta è la più grande residenza reale del mondo con oltre 2 milioni di m³ e copre una superficie di 47.000 m².caserta

 

Nel 2013 è stato il decimo sito statale italiano più visitato, con 439.813 visitatori e un introito lordo totale di 1.759.918,97 Euro

Il Palazzo reale di Caserta fu voluto dal re di Napoli Carlo di Borbone, il quale, colpito dalla bellezza del paesaggio casertano e desideroso di dare una degna sede di rappresentanza al governo della capitale Napoli e al suo reame, volle che venisse costruita una reggia tale da poter reggere il confronto con quella di Versailles. Si diede inizialmente per scontato che sarebbe stata costruita a Napoli, ma Carlo di Borbone, cosciente della considerevole vulnerabilità della capitale a eventuali attacchi (specie da mare), pensò di costruirla verso l’entroterra, nell’area casertana: un luogo più sicuro e tuttavia non troppo distante da Napoli.

 

Dopo il rifiuto di Nicola Salvi, afflitto da gravi problemi di salute, il sovrano si rivolse all’architetto Luigi Vanvitelli, a quel tempo impegnato nei lavori di restauro della basilica di Loreto per conto dello Stato Pontificio. Carlo di Borbone ottenne dal Papa di poter incaricare l’artista e nel frattempo acquistò l’area necessaria dal duca Michelangelo Gaetani, pagandola 489.343 ducati, una somma che seppur enorme fu certamente oggetto di un forte sconto: Gaetani, infatti, aveva già subìto la confisca di una parte del patrimonio per i suoi trascorsi antiborbonici.

Il re chiese che il progetto comprendesse, oltre al palazzo, il parco e la sistemazione dell’area urbana circostante, con l’approvvigionamento da un nuovo acquedotto (Acquedotto Carolino) che attraversasse l’annesso complesso di San Leucio. La nuova reggia doveva essere simbolo del nuovo stato borbonico e manifestare potenza e grandiosità, ma anche essere efficiente e razionale.

Il progetto si inseriva nel più ampio piano politico di re Carlo di Borbone, che probabilmente voleva anche spostare alcune strutture amministrative dello Stato nella nuova Reggia, collegandola alla capitale Napoli con un vialone monumentale di oltre 20 km. Questo piano fu però realizzato solo in parte; anche lo stesso palazzo reale non fu completato della cupola e delle torri angolari previste inizialmente.

Vanvitelli giunse a Caserta nel 1751 e iniziò subito la progettazione del palazzo commissionatogli, con l’obbligo di farne uno dei più belli d’Europa. Il 22 novembre di quell’anno l’architetto sottopose al re di Napoli il progetto definitivo per l’approvazione. Due mesi dopo, il 20 gennaio 1752, genetliaco del re, nel corso di una solenne cerimonia alla presenza della famiglia reale con squadroni di cavalleggeri e di dragoni che segnavano il perimetro dell’edificio, fu posta la prima pietra. Tale momento viene ricordato dall’affresco di Gennaro Maldarelli che campeggia nella volta della Sala del Trono.

L’opera faraonica che il re di Napoli gli aveva richiesto spinse Vanvitelli a circondarsi di validi collaboratori: Marcello Fronton lo affiancò nei lavori del palazzo, Francesco Collecini in quelli del parco e dell’acquedotto, mentre Martin Biancour, di Parigi, venne nominato capo-giardiniere. L’anno dopo, quando i lavori della reggia erano già a buon punto, venne iniziata la costruzione del parco. I lavori durarono complessivamente diversi anni e alcuni dettagli rimasero incompiuti. Nel 1759, infatti, Carlo di Borbone di Napoli era salito al trono di Spagna (con il nome di Carlo III) e aveva lasciato Napoli per Madrid.

I sovrani che gli succedettero, Gioacchino Murat, che all’abbellimento della reggia diede un certo contributo, Ferdinando IV (divenuto poi dopo il congresso di Vienna Ferdinando I delle Due Sicilie), Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, col quale ebbe termine in Italia la dinastia dei Borbone, non condivisero lo stesso entusiasmo di Carlo di Borbone per la realizzazione della Reggia. Inoltre, mentre ancora nel XVIII secolo non era difficile reperire manodopera economica grazie ai cosiddetti barbareschi catturati dalle navi napoletane nelle operazioni di repressione della pirateria praticata dalle popolazioni rivierasche del Nordafrica, tale fonte di manodopera si azzerò nel secolo successivo con il controllo francese dell’Algeria.

 

Infine, il 1º marzo 1773 morì Vanvitelli al quale successe il figlio Carlo: questi, anch’egli valido architetto, era però meno estroso e caparbio del padre, al punto che trovò notevoli difficoltà a compiere l’opera secondo il progetto paterno.

« Una delle creazioni planimetriche più armoniche, più logiche, più perfette dell’architettura di tutti i tempi. »

(Gino Chierici, La Reggia di Caserta, Roma, Libreria dello Stato, 1930)

 

La reggia, definita l’ultima grande realizzazione del Barocco italiano, fu terminata nel 1845 (sebbene fosse già abitata nel 1780), risultando un grandioso complesso di 1200 stanze e 1742 finestre, per una spesa complessiva di 8.711.000 ducati. Nel lato meridionale, il palazzo è lungo 249 metri, alto 37,83, decorato con dodici colonne. La facciata principale presenta un avancorpo centrale sormontato da un frontone; ai lati del prospetto, dove il corpo di fabbrica longitudinale si interseca con quello trasversale, si innestano altri due avancorpi. La facciata sul giardino è uguale alla precedente, ma presenta finestre inquadrate da lesene scanalate.

Il palazzo ricopre un’area di circa 47.000 m²;[dispone di 1026 fumaroli e 34 scale. Oltre alla costruzione perimetrale rettangolare, il palazzo ha, all’interno del rettangolo, due corpi di fabbricato che s’intersecano a croce e formano quattro vasti cortili interni di oltre 3.800 m² ciascuno.

La Sala del Trono

Oltre la soglia dell’entrata principale alla reggia si apre un vasto vestibolo ottagonale del diametro di 15,22 metri, adorno di venti colonne doriche. A destra e a sinistra si inseriscono i passaggi che portano ai cortili interni, mentre frontalmente un triplice porticato immette al centro topografico della reggia.casert2

In fondo, un terzo vestibolo dà adito al parco. Su un lato del vestibolo ottagonale si apre il magnifico scalone reale a doppia rampa, un autentico capolavoro di architettura tardo barocca, largo 18,50 metri alto 14,50 metri e dotato di 117 gradini, immortalato in numerose pellicole cinematografiche. Ai margini del primo pianerottolo della scalinata si trovano due leoni in marmo di Pietro Solari e Paolo Persico, mentre il soffitto, caratterizzato da una doppia volta ellittica, fu affrescato da Girolamo Starace-Franchis con Le quattro Stagioni e La reggia di Apollo; sulla parete centrale è addossata una statua di Carlo di Borbone, opera di Tommaso Solari, affiancata da La verità e Il merito, realizzate rispettivamente da Andrea Violani e Gaetano Salomone.

La doppia rampa si conclude in un vestibolo posto al centro dell’intera costruzione. Di fronte si trova l’accesso alla grande Cappella Palatina, ispirata a quella della Reggia di Versailles; questo spazio, definito da un’elegante teoria di colonne binate che sostengono una volta a botte, è stato danneggiato durante la seconda guerra mondiale, quando andarono perduti gli organi e tutti gli arredi sacri, e quindi restaurato. Sul retro della cappella, ancora inglobato all’interno del palazzo, è posto il piccolo e raffinato Teatro di Corte, caratterizzato da una pianta a ferro di cavallo; fu inaugurato nel 1769 alla presenza di Ferdinando I delle Due Sicilie.

 

Invece, alla sinistra del vestibolo si accede agli appartamenti veri e propri. La prima sala è quella degli Alabardieri, con dipinti di Domenico Mondo (1785), alla quale segue quella delle guardie del corpo, arredata in stile Impero e impreziosita da dodici bassorilievi di Gaetano Salomone, Paolo Persico e Tommaso Bucciano. La successiva sala, intitolata ad Alessandro il Grande e detta del “baciamano”, è affrescata da Mariano Rossi, che vi rappresentò il matrimonio tra Alessandro e Rossane (1787). Si trova al centro della facciata principale e funge da disimpegno tra l’Appartamento Vecchio e l’Appartamento Nuovo.

Scalone monumentale

L’Appartamento Vecchio, posto sulla sinistra, fu il primo ad essere abitato da Ferdinando IV e dalla consorte Maria Carolina ed è composto da una serie di stanze con pareti rivestite in seta della fabbrica di San Leucio. Le prime quattro stanze, di conversazione, sono dedicate alle quattro stagioni ed affrescate da artisti quali Antonio Dominici e Fedele Fischetti. Segue lo studio di Ferdinando II, con dipinti a tempera di Filippo Hackert che rappresentano vedute di Capri, Persano, Ischia, la Vacchieria di San Leucio, Cava dei Tirreni e il giardino inglese della reggia stessa. Dallo studio si accede, mediante un disimpegno, alla camera da letto di Ferdinando II, i cui mobili però furono distrutti e rifatti in stile Impero dopo la morte del sovrano a causa di una malattia contagiosa. Oltre la camera è la sala dei ricevimenti, che, mediante una serie di anticamere, è collegata direttamente alla Biblioteca Palatina e quindi alla cosiddetta Sala Ellittica, che ospita un fulgido esempio di presepe napoletano.

 

L’Appartamento Nuovo, posto sulla destra della sala di Alessandro il Grande, fu costruito tra il 1806 ed il 1845. Vi si accede tramite la Sala di Marte, progettata da Antonio de Simone in stile neoclassico e affrescata da Antonio Galliano. Proseguendo oltre l’adiacente Sala di Astrea, con rilievi e stucchi dorati di Valerio Villareale e Domenico Masucci, si giunge quindi all’imponente Sala del Trono, che rappresenta l’ambiente più ricco e suggestivo degli appartamenti reali. Questo era il luogo dove il re riceveva ambasciatori e delegazioni ufficiali, in cui si amministrava la giustizia del sovrano e si tenevano i fastosi balli di corte. Una sala lunga 36 metri e larga 13,50, ricchissima di dorature e pitture, che fu terminata nel 1845 su progetto dell’architetto Gaetano Genovese. Intorno alle pareti corre una serie di medaglioni dorati con l’effigie di tutti i sovrani di Napoli, da Ruggero d’Altavilla a Ferdinando II di Borbone (tranne Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat), poi un’altra serie con gli stemmi di tutte le province del regno, mentre nella volta domina l’affresco di Gennaro Maldarelli (1844) che ricorda la cerimonia della posa della prima pietra. Le successive stanze rappresentano il cuore dell’Appartamento Nuovo e furono ultimate dopo il 1816. Tra queste si ricorda la camera di Gioacchino Murat, in stile Impero, con mobili in mogano e sedie con le iniziali dello stesso Murat.

parco reale di Caserta

parco reale di Caserta si estende per 3 chilometri di lunghezza, con sviluppo Sud-Nord, su 120 ettari di superficie. In corrispondenza del centro della facciata posteriore del palazzo si dipartono due lunghi viali paralleli fra i quali si interpongono una serie di suggestive fontane che, partendo dal limitare settentrionale del Giardino all’italiana, collegano a questo il Giardino all’inglese:

 

la Fontana Margherita;

la Vasca e Fontana dei Delfini;

la Vasca e Fontana di Eolo;

la Vasca e Fontana di Cerere;

Cascatelle e Fontana di Venere e Adone;

La fontana di Diana e Atteone, sovrastata dalla Grande Cascata.

 

Le vasche sono popolate da numerosi pesci, specialmente carpe e carassidi, e vi vegetano piante acquatiche delle specie Myriophyllum spicatum e Potamogeton crispus.

La Reggia al cinema

Il regista cinematografico George Lucas ha girato diverse scene dei film La minaccia fantasma e L’attacco dei cloni, ovvero il primo e il secondo episodio della serie Star Wars, all’interno della Reggia di Caserta (i cui interni sono stati riproposti come la reggia del pianeta Naboo). Inoltre, nella Reggia sono state ambientate alcune parti dei film Donne e briganti, Ferdinando I, re di Napoli, Il Pap’occhio, Sing Sing, Li chiamarono… briganti!, Ferdinando e Carolina, Mission Impossible 3 e Io speriamo che me la cavo; alcune scene della seconda serie televisiva di Elisa di Rivombrosa sono ambientate nella Reggia, anche se in realtà sono state girate all’interno di una località romana.reggia di Caserta, percorsi dii luce

Va segnalata anche la pellicola I tre aquilotti del 1942, per la regia di Mario Mattoli, che vede un giovanissimo Alberto Sordi impersonante la parte di un giovanissimo allievo ufficiale dell’Accademia della Regia Aeronautica, all’epoca dislocata presso la Reggia di Caserta. Tra gli attori ricordiamo anche Leonardo Cortese, Galeazzo Benti e Riccardo Fellini, fratello del più famoso Federico; proprio a Riccardo viene riservata una fugace apparizione in divisa da accademista.

Gli interni del palazzo sono anche presenti nelle fiction RAI Giovanni Paolo II, dove ricreano gli interni dei Palazzi Vaticani, e Luisa Sanfelice.

Dal 17 al 20 giugno 2008 la Reggia è stata utilizzata per alcune riprese della troupe cinematografica del film Angeli e Demoni, ispirato all’omonimo romanzo di Dan Brown, autore anche del best seller Il codice da Vinci.

CUCINA

La cucina napoletana, risalente al periodo greco-romano, è nata dall’unione di una cucina aristocratica, caratterizzata da piatti ricchi ed elaborati (timballi o sartù di riso), e da una popolare, legata agli ingredienti della terra: cereali, legumi, verdure. Ma è la pizza forse il prodotto gastronomico napoletano più celebre nel mondo. Le sue radici sono antichissime, sicuramente risalenti almeno all’epoca romana. La genialità dei napoletani è stata quella di ricoprire la superficie della pizza con i condimenti prima della cottura, in particolar modo con il pomodoro. Se andate a Napoli non potete andar via senza prima aver assaggiato la tipica pizza Margherita, nata grazie al pizzaiolo Raffaele Esposito, che le conferì, in onore della omonima regina, le caratteristiche colorazioni della bandiera italiana. Nel centro storico alcune pizzerie vendono ancora oggi la pizza a libretto o a portafoglio. La cucina napoletana ha antichissime radici storiche che risalgono al periodo greco-romano e si è arricchita nei secoli con l’influsso delle differenti culture che si sono susseguite durante le varie dominazioni della città e del territorio circostante. Importantissimo è stato l’apporto della fantasia e creatività dei napoletani nella varietà di piatti e ricette oggi presenti nella cultura culinaria partenopea. In quanto capitale del regno, la cucina di Napoli ha acquisito anche gran parte delle tradizioni culinarie dell’intera Campania, raggiungendo un giusto equilibrio tra piatti di terra (pasta, verdure, latticini) e piatti di mare (pesce, crostacei, molluschi). A seguito delle varie dominazioni, principalmente quella francese e quella spagnola, si è delineata la separazione tra una cucina aristocratica ed una popolare. La prima, caratterizzata da piatti elaborati e di ispirazione internazionale, sostanziosi e preparati con ingredienti ricchi, come i timballi o il sartù di riso, mentre la seconda legata ad ingredienti della terra: cereali, legumi, verdure, come la popolarissima pasta e fagioli. A seguito delle rielaborazioni avvenute durante i secoli, e della contaminazione con la cultura culinaria più nobile, la cucina napoletana possiede ora una gamma vastissima di pietanze, tra le quali spesso anche quelle preparate con gli ingredienti più semplici risultano estremamente raffinate. Nonostante le contaminazioni avvenute durante i secoli, compreso quello appena trascorso, la cucina napoletana conserva tutt’oggi un repertorio di piatti, ingredienti e preparazioni che ne caratterizzano una identità culturale inconfondibile.

Primi piatti

Il ragù di Eduardo

La necessità di un’accurata preparazione del ragù è evidente dai seguenti versi di Eduardo, che definisce spregevolmente carne c’ ‘a pummarola (carne col pomodoro) la ricetta di una poco accorta sposa:

« ‘O rraù ca me piace a me m’ ‘o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te,

ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso

Sì, va buono: comme vuò tu. Mò ce avéssem’ appiccecà? Tu che dice? Chest’è rraù? E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… M’ ‘a faje dicere ‘na parola?… Chesta è carne c’ ‘a pummarola »

(Eduardo, ‘O rraù.)

 

La varietà dei primi piatti nella cucina napoletana è molto vasta, e comprende sia piatti molto semplici, come pasta al pomodoro e basilico o il semplicissimo aglio e Olio (aglio e olio) fino a preparazioni elaborate, tra le quali il ragù che può richiedere, nella versione più tradizionale, cinque o sei ore di preparazione.

I primi piatti si rifanno a più tradizioni complementari che spesso si mescolano e influenzano a vicenda: quella di una cucina poverissima, basata principalmente su ingredienti della terra, una cucina popolare tradizionale, ricca di frutti di mare e pesce, alimenti dal costo contenuto, vista la pescosità del mare di Napoli, e, infine, una cucina legata alla parte più agiata della città, costituita da carne di ogni genere, uova e latticini, in preparazioni talvolta elaborate.

Primi piatti poveri

Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino sono una delle più semplici ricette napoletane.

Tra gli alimenti più poveri ci sono le freselle, ciambelle biscottate di pane duro, dalla facile conservazione, che, bagnate, sono la base della caponata, condite con pomodoro fresco, aglio, olio, origano e basilico, e, quando disponibili, anche acciughe, olive ed altri ingredienti Altro piatto tipico sono gli spaghetti aglio e uoglio (aglio e olio) spesso conditi con peperoncino.

 

La cucina più povera abbina spesso la pasta con i legumi. Popolarissime sono: pasta e fagioli (pasta e fasule), conditi con le cotiche, pasta e ceci, pasta e lenticchie, e pasta e piselli. Ormai è rarissimo l’uso delle cicerchie. In maniera analoga ai legumi sono preparate pasta e patate (pasta e patane), pasta e cavolfiore, pasta e zucca. Il metodo di cottura della cucina più popolare consiste nel far cuocere prima i condimenti (ad esempio, soffriggere l’aglio nell’olio, quindi aggiungere i fagioli lessati, oppure soffriggere la cipolla ed il sedano ed aggiungere le patate tagliate a cubetti), quindi allungare con l’acqua, portare ad ebollizione, salare, ed aggiungere la pasta cruda. La pasta, cuocendo insieme ai condimenti, conserverà l’amido, che invece viene perso se la pasta viene cotta a parte e poi scolata. Questo procedimento rende il sugo della pasta più cremoso (“azzeccato”), ed è contrapposto ad una tradizione più “nobile” che preferisce preparare questi piatti in maniera più brodosa, aggiungendo alla fine la pasta cotta a parte. Per un primo piatto povero ma più nutriente, la pasta può essere semplicemente condita con uovo alla stracciatella e formaggio, la cosiddetta pasta caso e ova.

Gli spaghetti, conditi con sugo di pomodoro, olive di Gaeta e capperi prendono il nome di spaghetti alla puttanesca. Fantasiosa è anche la ricetta ideata per le tavole più povere, in assenza di costosi frutti di mare: gli spaghetti conditi con un sugo di pomodorini, o anche in bianco, con aglio, olio e prezzemolo vengono definiti spaghetti alle vongole fujute, dove le vongole sono presenti solo nella fantasia dei commensali.phoca_thumb_l_piatto-reginella 2 Lo scarpariello è un altro sugo semplice con cui si condiscono i maccheroni la sua base è di pomodoro e formaggio.

La frittata di maccheroni si può preparare anche con avanzi di pasta, sia in bianco che conditi col sugo di pomodoro. Si mescola la pasta cotta al dente con uovo battuto e formaggio. Può essere arricchita con svariati ingredienti. Alcune moderne riedizioni la vogliono farcita con ingredienti quali prosciutto cotto, mozzarella o provola fresca. Tradizionalmente cotta in padella, c’è chi usa oggi cuocerla al forno per renderla meno grassa. Se ben preparata risulta compatta, e può essere anche tagliata a fette per essere consumata durante gite fuori porta o in spiaggia.

Della frittata di maccheroni esiste anche una versione più piccola, chiamata appunto frittatina, prodotto tipico da rosticceria, preparata con besciamella, carne macinata, piselli e mozzarella e poi fritta in pastella.

Primi piatti più ricchi

La cucina aristocratica usa la pasta per preparazioni elaborate, come timballi, poco utilizzati ormai nella cucina di ogni giorno. Il sartù di riso è un timballo a base di riso ripieno di fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, fiordilatte o provola, piselli, funghi, e condito con ragù, o, nella versione “in bianco” con besciamella.

Tra i piatti “ricchi”, ma comunque di uso comune, vi è la pasta condita con diversi sughi, come:

La bolognese, così chiamata perché vagamente ispirata al ragù emiliano, è preparata con un trito di carota, sedano e cipolla, carne macinata e pomodoro; La genovese, che non ha niente a che fare con Genova, è preparata con un sugo di carne a base di abbondante cipolla rosolata ed altri aromi;

Con il ragù sono tradizionalmente conditi gli ziti, lunghi maccheroni cavi, che vengono spezzati a mano prima della cottura. Il ragù viene anche usato, insieme al fiordilatte, per condire gli gnocchi alla sorrentina, che sono poi tradizionalmente ripassati a forno in un pignatiello, tipico pentolino monoporzione di terracotta.

Primi piatti di pesce

Gli spaghetti alle vongole sono il primo piatto di mare più popolare.

Spaghetti, linguine e paccheri sono abbinati benissimo a frutti di mare e pesce. Di qui i piatti tipici da pranzi importanti (matrimoni, in particolare). I più tipici sono:

Gli spaghetti alle vongole o ai frutti di mare (con vongole, cozze, fasolari, taratufi)

I paccheri con la zuppa di pesce, con scorfani, cuocci, tracine ed altre specie ittiche

La pasta con i calamari (popolarmente calamarata) cotti con una spruzzata di vino bianco

Ma esistono moltissime altre varianti, ad esempio gli spaghetti con il sugo in bianco del merluzzo. La cucina povera a base di legumi si può abbinare ai frutti di mare, così da avere, ad esempio, pasta e fagioli con le cozze, o varianti più moderne come zucchine e vongole o cozze, che però finiscono per perdere ogni connotazione tradizionale.

Piatti di riso

Oltre al già citato sartù di riso, nella cucina più povera, viene preparato tipicamente il riso con la verza, che può essere insaporito da scorzette di formaggio parmigiano, che fondono durante la cottura, o con cotiche di maiale o salsiccia. A base di pesce, invece è il risotto alla pescatora che si prepara con molluschi di vario tipo (vongole, lupini, polpi, seppie, calamari), gamberi, e con un brodo ottenuto da gusci e dalle scorze dei gamberi. Sono diffusi anche a Napoli gli arancini, detti in napoletano palle ‘e riso, più tipici della tradizione siciliana.Tipica durante le stagioni calde, l’insalata di riso è condita con salumi, formaggi, verdure oppure tonno, uova e mayonese, talvolta condita anche solo con sotto aceti di campo.

La pizza

« La pizza napoletana va consumata immediatamente, appena sfornata, negli stessi locali di produzione. L’eventuale asporto del prodotto verso abitazioni o locali differenti dalla pizzeria ne determina la perdita del marchio »Eq_it-na_pizza-margherita_sep2005_sml

(Art. 6 della disciplinare per la definizione di standard internazionali per l’ottenimento del marchio “Pizza Napoletana STG”)

La pizza Margherita, realizzata in onore della regina Margherita di Savoia nel 1889 dal pizzaiolo Raffaele Esposito.

La pizza è forse il prodotto della cucina italiana più celebre nel mondo. Le sue radici sono antichissime, sicuramente risalenti almeno all’epoca romana, quando erano diffuse diverse focacce di grano, citate in alcune opere di Virgilio. Il nome, infatti, probabilmente deriva dal latino pinsa, participio passato del verbo pinsere, che significa schiacciare. La pizza vera e propria, ricoperta di salsa di pomodoro, risale a poco più di due secoli or sono, e fu presto popolarissima sia presso i napoletani più poveri e che presso i nobili, compreso i re Borbone. Il successo della pizza conquistò anche i sovrani piemontesi, tanto è vero che proprio alla regina Margherita di Savoia nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito dedicò la “pizza Margherita” che rappresentava il nuovo vessillo tricolore con il bianco della mozzarella, il rosso del pomodoro ed il verde del basilico. Tuttavia, quella che oggi è chiamata pizza Margherita in realtà era già preparata prima della dedica alla regina Savoia. Francesco De Bouchard già nel 1866 ci riporta la descrizione dei principali tipi di pizza, ossia quelli che oggi prendono nome di marinara, margherita e calzone:

« Le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’olio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di mozzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, ec. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone. »

La cottura della vera pizza necessita il forno a legna che riesce a raggiungere alte temperature tra i 430 e i 485 °C. Per questo motivo, sia la pizza fatta in casa che quella preparata nei locali che utilizzano forni elettrici non riescono a pareggiare l’inconfondibile ed unico sapore della vera pizza napoletana.

Un modo tradizionale di consumare la pizza è di acquistarla e mangiarla per strada. Nel centro storico alcune pizzerie vendono ancora la pizza a libretto o a portafoglio, più piccola della pizza che si mangia a tavola, piegata in quattro insieme ad un foglio di carta per alimenti, ed ancora dal costo molto contenuto. Questa pizza è stata resa celebre da Bill Clinton che, a Napoli per il meeting del G7, del 1994 gustò la pizza in questo modo presso una nota pizzeria in via dei Tribunali.

Con un impasto simile a quello della pizza ma più leggero si producono anche pastacresciute, tipiche delle friggitorie. Nelle pizzerie-friggitorie spesso si vendono anche le pizze fritte, ossia calzoni ripieni ma fritti in olio invece che cotti al forno.

Secondi piatti di mare

Fra le ricette di pesce, primeggiano i polpi alla lucìana, cosiddetti dal popolare borgo di Santa Lucia nel quale nacquero, cotti con peperoncino piccante e l’immancabile pomodoro. Il polpo si prepara anche semplicemente lesso, all’insalata, condito con olio, limone, prezzemolo, ed olive verdi. In una maniera più ricca, viene preparata l’insalata di mare dove oltre al polpo si usano seppie, calamari e gamberi.

Il pesce di media taglia viene spesso cucinato all’acqua pazza, ossia con pomodorino e prezzemolo; quelli di taglia più grande anche semplicemente grigliati, accompagnati, nelle occasioni più importanti, da gamberoni e mazzancolle.

Le cozze sono preparate in vari modi tra cui semplicemente all’impepata, rapidamente lessate e pepate, e condite con qualche goccia di succo di limone, che ogni commensale spremerà sui singoli mitili. Vongole ed altri frutti di mare sono gustati spesso sauté, saltati in padella con aglio ed olio e con prezzemolo tritato a crudo, spesso serviti su crostini, oppure sono preparati al gratin, gratinati a forno con pangrattato.

Anche il pesce più economico, principalmente le alici, viene spesso usato per gustose ricette. Tra queste:

Le alici dorate e fritte, spinate e passate in farina ed uovo prima di essere fritte.

Le alici marinate, sia in succo di limone che aceto.

Le alici arreganate, spinate e cotte rapidamente in tortiera con aglio, olio, origano e condite con succo di limone o aceto.

I cicenielli, piccolissimi pesci, sono preparati lessi o fritti in una leggera pastella, così come è d’uso fare con le alghe di mare. La frittura di paranza è di solito fatta con merluzzetti, triglie, fricassuari (piccole sogliolette), ma possono esserci anche altre varietà di pesce di piccolo taglio, come alici o mazzoni. La frittura va mangiata caldissima (frijenno magnanno, si suole dire in napoletano). I piccoli gamberetti di nassa, i più freschi venduti ancora vivi e saltellanti, sono fritti rapidamente, e senza essere prima infarinati, come invece avviene per la paranza.

Secondi piatti di carne

I secondi di carne non sono troppo vari nella cucina napoletana. Capretto e agnello si gustano cucinati con patate e piselli al forno, specialmente in occasione di Pasqua; il coniglio ha la sua migliore preparazione all’ischitana e il pollo viene rosolato alla cacciatora col pomodoro; le salsicce o le cervellatine sono tradizionalmente soffritte in padella e accompagnate da contorni a base di verdure, specialmente i friarielli, oppure patatine fritte. Le tracchie (spuntature) di maiale sono tipicamente consumate come secondo piatto dopo che sono state cotte al ragù, che è stato usato per condire la pasta. Le tracchie si accompagnano o sono alternative alle braciole, nome napoletano degli involtini, che sono fatte con fettine sottili di vitello avvolte con un ripieno di aglio, prezzemolo, uvetta, pinoli ed altri aromi, e richiuse tradizionalmente con il filo da cucito, e oggi con gli stuzzicadenti. Un modo tipico di cucinare le fettine di carne di vitello è alla pizzaiola, ossia con pomodoro, aglio ed origano. Altri piatti di carne sono stati già citati nella sezione sugli ingredienti.

Piatti di verdure

Sono tradizionali minestre di verdure e legumi, come la minestra di scarola e fagioli, preparata con i fagioli cannellini o spollichini[58], i fagioli alla maruzzara, con pomodoro, aglio, sedano, origano e peperoncino, o la natalizia minestra maritata. Ma talvolta i piatti a base di verdure trasformano ingredienti semplici in piatti molto ricchi ed elaborati.

La parmigiana di melanzane, preparata con fette di melanzane fritte e disposte a strati con salsa di pomodoro, fiordilatte e basilico, e cotte al forno.

Il gattò di patate, pasticcio di patate macinate mescolate con salumi e formaggi, cotto a forno.

I peperoni ripieni, ricetta che nobilita i peperoni accostandoli ad ingredienti semplici, ma gustosi: olive, capperi, pane grattugiato.

Le melanzane a barchetta, tagliate a metà, scavate al centro, e condite con diversi tipi di ripieno.

Fritture

Oltre alla già citata frittura di pesce, molte verdure si cucinano dorate e fritte (carciofi, zucchine, cavolfiore). Nelle fritture più ricche, si aggiunge anche fegato, ricotta e, una volta, si aggiungevano anche le cervella. La mozzarella si può preparare dorata e fritta (con farina e uovo) o in carrozza, come la prima, ma fritta tra due fette di pane ammorbidite nel latte.

 

Tra le fritture napoletane vi sono anche i crocchè di patate ed i sciurilli, acquistabili anche per strada nelle tipiche friggitorie, insieme a scagliozzi, pastacresciute e melanzane fritte.

Le frittate, non solo di maccheroni, fanno parte della tradizione napoletana. La più celebre è la famosa frittata di cipolle che ha per base le cipolle, ben dorate.

Contorni

I contorni non sono piatti secondari nella cucina napoletana, e sono per lo più a base di verdure. Tra questi:

Gli zucchini alla scapece, fritti e conditi con aceto e menta fresca.

Le melanzane a funghetti, in due versioni: fritte a listarelle e condite con pomodorini, oppure soffritte a dadini.

Le melanzane a scarpone, oggi chiamate spesso a barchetta, vengono tagliate di lungo, fritte in poco olio e condite con sugo di pomodoro alla puttanesca.

Le mulignane a ‘ppullastiello, tagliate a fette dopo una prima cottura vengono farcite con mozzarella e poi indorate e fritte.

I peperoni in padella, conditi con olive di Gaeta e capperi.

i peperoni imbottiti, ricoperti di pangrattato e passati in forno.

I peperoni a gratè, derivanti dal francese au graten, sono una versione più leggera di quella in padella, cotti al forno vengono spellati tagliati e conditi con olio, aglio, prezzemolo, olive,capperi e ricoperti di pangrattato.

I peperoncini verdi fritti, non piccanti, che sono poi conditi con salsa di pomodorini.

I friarielli, soffritti con aglio, olio e peperoncino, spesso accompagnano le salsicce (da cui sasicce e friariell’) e cervellatine, per le quali si servono come contorno anche patatine fritte tagliate a cubetti.

Le scarole o il cavolo cappuccia alla monachina, soffritti in padella e conditi con olive nere di Gaeta, capperi, pinoli, uva passa ed acciughe sotto sale.

Rustici

Tra i piatti rustici più diffusi, vi è la pizza di scarole, preparata con scarole soffritte e condite con aglio, pinoli, uvetta, olive di Gaeta e capperi, e ricoperta di una pasta semplice di farina, acqua e lievito. Il casatiello, o tòrtano è il rustico tipico del periodo di Pasqua, consumato anche il giorno di pasquetta durante le gite fuori porta. Oggi i due nomi si usano spesso come sinonimi, ed indicano un rustico ricco di un’imbottitura di formaggi ed insaccati. Nelle versioni originali tòrtano e casatiello erano più semplici, quest’ultimo si distingueva dal primo perché caratterizzato dalla presenza di uova nell’impasto, mentre il primo era ripieno di cicoli:

« Nella sua prima semplicità popolare [il casatiello] non è altro che un pane di forma circolare, come un grosso ciambellone, in cui si conficcano delle uova, anche uno solo, secondo la dimensione del pane, e queste uova, con tutto il guscio, sono fermate al loro posto da due strisce di pasta in croce. La pasta è la solita pasta del pane, ma intriso con lardo e strutto. Cotto al forno, le uova vi divengono sode. »

Anche il babà ha la sua versione rustica. La pasta del babà è infatti neutra, e nella versione da pasticceria acquista il gusto dolce dal bagno di acqua, zucchero e rum. Nella versione rustica, invece, all’impasto vengono aggiunti formaggio e salumi.

In rosticceria sono oggi molto diffusi e apprezzati i panini napoletani, che in realtà non sono panini veri e propri, bensì rustici imbottiti di salumi e formaggio.

Dolci

La tradizione culinaria napoletana annovera una grande varietà di dolci. Tra i dolci principali, sono da ricordare i seguenti:

La sfogliatella, frolla o riccia, ideata nel Settecento nel monastero di Santa Rosa situato a Conca dei Marini, nei pressi di Amalfi, il cui ripieno contiene una crema di ricotta, semolino, cannella, vaniglia e cedro e scorzette di arancia candite. Tra le varianti che si trovano oggi vi è la Santa Rosa, più grande e completata da crema ed amarene, la frolla perché fatta appunto con pasta frolla, e le code d’aragosta, ripiene di una pasta bignè e farcite con vari tipi di crema. Da ricordare inoltre la secolare battaglia tra i sostenitori della riccia e della frolla che da tempi ormai immemori si contendono il titolo di autentica sfogliatella.

Il babà, variante napoletana di un dolce che ha probabilmente origini polacche.baba

Le zeppole di San Giuseppe, fritte o al forno, sono ciambelle ricoperte di crema e di amarene.

La pastiera, del periodo di Pasqua, è un dolce tipicamente realizzato a casa, più che in pasticceria. Tra gli ingredienti vi è il grano, che a Napoli viene venduto già lessato e pronto per l’uso. L’uso di questo ingrediente potrebbe essere legato ai culti della fecondità di epoca greco-romana.

Gli struffoli natalizi, dolce tipico fatto da molte palline piccole e fritte, condite con miele. Questo dolce ha probabili origini greche, come riportato nell’introduzione storica.

La delizia al limone, creazione degli anni settanta, ma entrata di diritto nella tradizione dolciaria campana. A base di limoni della costiera sorrentina e limoncello.54522359a1742f2bf56cbfdf

La torta caprese, a base di mandorle e cioccolato. Con la delizia al limone ed il babà è tra i dolci preferiti per i pranzi e le cene che celebrano matrimoni ed altri eventi importanti.

Famosi sono anche gelati, tra cui le coviglie e gli spumoni di preparazione più tradizionale.

I piatti delle feste

I piatti legati a periodi festivi meritano un capitolo a parte per varietà e ricchezza.

Piatti natalizi

Gli struffoli, sono tipici di Natale, ed hanno probabili origini greche.

La cena della vigilia si fa tipicamente con spaghetti alle vongole, seguiti dal capitone fritto e dal baccalà fritto, accompagnati dall’insalata di rinforzo che è preparata con cavolfiore lesso, sottaceti, peperoni tondi sottaceto dolci o piccanti (le pupaccelle), ulive e acciughe sotto sale.

I dolci natalizi sono:

I roccocò, biscotti duri a forma di ciambella e a base di mandorle.

I mustacciuoli, biscotti di forma romboidale ricoperti di cioccolata. I mostaccioli napoletani sono anche riportati da Bartolomeo Scappi, cuoco personale di Pio V, nel suo pranzo alli XVIII di ottobre.

I raffiuoli, dolci di pan di Spagna ricoperti di una glassa bianca di zucchero

I susamielli, dolci a base di mandorle a forma di “S”.

Le sapienze, variante dei susamielli, che venivano preparate dalle suore clarisse nel convento di Santa Maria della Sapienza a Sorrento.

Gli struffoli, di cui si è già parlato.

La “pasta reale” nella sua versione napoletana, non ancora riconosciuta come facente parte della pasticceria partenopea. Si tratta di dolcetti composti di mandorle tritate finissime, zucchero in peso pari a quello delle mandorle ed albume d’uovo per legare. Nella versione tradizionale il dolcetto viene ricoperto di naspro (zucchero disciolto sul fuoco in poca acqua, del quale poi si cospargono i dolcetti) ma è ormai difficilissimo trovare pasticcerie che lo preparino con tale rivestimento, per via dell’estrema dolcezza del sapore che può risultare stucchevole.

La cena della vigilia si completa con le ciociole, ossia frutta secca (noci, nocciole e mandorle), fichi secchi e le castagne del prete, cotte a forno.

Tipici del pranzo di Natale sono la minestra maritata oppure i tagliolini in brodo di gallina.

Piatti pasquali

La diffusione di pastiera e casatiello risale almeno al Seicento. Lo testimonia la seguente citazione tratta dalla favola la gatta Cenerentola di Giambattista Basile (1566–1632).

« E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato. »

La pastiera è il dolce tipico di Pasqua.

Il piatto principale di Pasqua è il casatiello, anche consumato il giorno di pasquetta durante le gite fuori porta, accompagnato dalla fellata, banchetto di affettati misti (principalmente salame e capocollo), ricotta salata e uova sode, oppure da agnello o capretto al forno con patate e piselli. Il dolce tipico di Pasqua è la pastiera, dolce realizzato tradizionalmente in casa, del quale esistono molte varianti[62], con leggere differenze in ciascuna famiglia. Una descrizione del pranzo pasquale dell’800 non si discosta molto dall’usanza odierna:

« Non descriverò il pranzo Pasquale: aprite la Cucina del duca di Buonvicino, e troverete più di quel ch’io potrei dirvi. Ma i cibi di prammatica sono la minestra di Pasqua, li spezzatello[63] con uova e piselli, l’agnello al forno, l’insalata incappucciata, la soppressata colle uova sode, il tortano, il casatiello, e per corona a suggello del pranzo la pastiera. »

Caffè

La moka ha ormai rimpiazzato la caffettiera napoletana in gran parte delle famiglie napoletane.

« Sul becco io ci metto questo “coppitello” di carta… il fumo denso del primo caffè che scorre, che è poi il più carico non si disperde. Come pure … prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre quattro minuti, per lo meno … nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata … in modo che, nel momento della colata, l’acqua in pieno calore già si aromatizza per conto suo »

(Eduardo nel film Questi fantasmi)

Al termine di un pranzo o di una cena non può mancare una tazzulella ‘e cafè, che talvolta viene servito al tavolo del ristorante, ma più spesso si va a prendere al bar. Tra i caffè più celebri di Napoli vi è sicuramente lo storico caffè Gambrinus, in piazza Trieste e Trento.

Gran parte dei Napoletani ritiene che il caffè partenopeo sia unico per aroma e densità. Molte leggende metropolitane cercano di avvalorare quest’affermazione in base a vari motivi, che vanno dall’acqua del Serino, al tipo di miscela, alla calibrazione della macchina, o, più semplicemente, all’abilità dei baristi napoletani. Nessuna di queste ipotesi ha in realtà mai ricevuto una verifica scientifica.

Nelle case la caffettiera napoletana, detta anche cuccumella, pur ancora in vendita, è ormai stata largamente rimpiazzata dalla moka.

Liquori

Il limo, agrume ormai raro, tradizionalmente usato per la preparazione del liquore agli agrumi.

I pranzi e le cene più abbondanti terminano con caffè e liquore. All’ormai diffusissimo limoncello era una volta preferito il liquore ai quattro frutti, ossia limone, arancia, mandarino e limo, un agrume locale simile al bergamotto, ormai molto difficile da reperire in commercio. Il nocillo, diffuso in molte regioni d’Italia, è tra gli amari tradizionalmente più apprezzati.

Gastronomia da asporto napoletana

A Napoli da tempo immemore è diffuso l’uso di acquistare e consumare cibi tipici per strada. Questa funzione era anticamente assolta dai thermopolia di epoca romana, rinvenuti negli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano e in numerosi altri siti archeologici della zona. Tipici sono alcuni prodotti da friggitoria che si possono ancora oggi acquistare, soprattutto nelle vie del centro storico di Napoli, tra i quali vanno citate le pastacresciute, gli scagliozzi, i sciurilli, le frittatine di maccheroni alla besciamella ed i panini fritti, oltre alle melanzane e zucchine fritte e ai crocchè di patate imbottiti di mozzarella dei quali esiste una versione più piccola e priva di mozzarella detti panzarotti. La missione del pasto veloce, antesignano dei moderni fast food, è presente nel nome vaco ‘e pressa (vado di fretta), nome di una storica rosticceria sita in piazza Dante.

La pizza a libretto e la pizza fritta si trovano ancora presso le pizzerie di via dei Tribunali, port’Alba e piazza Cavour. Alla Pignasecca sono ancora attive alcune botteghe di carnacuttari che vendono vari tipi di trippa, ‘O pere e ‘o musso o la storica zuppa ‘e carnacotta. Da Mergellina a via Caracciolo sono ancora numerosi i venditori di taralli ‘nzogna e pepe (sugna e pepe), mentre rarissima è ormai la presenza de ‘o broro ‘e purpo (il brodo di polpo), una volta declamato dai venditori ambulanti.

 

Fino a non molti anni fa erano diffuse bancarelle che vendevano ‘o spassatiempo (il “passatempo”), ossia noccioline, semi di zucca e ceci tostati, lupini in salamoia, il cui nome deriva dal tempo necessario per sgusciare questi tipi di semi, frutta secca e legumi.

Fino agli ultimi decenni del Novecento un venditore di panini farciti con la ricotta offriva una colazione al sacco a chi si imbarcava per le isole al porto di Pozzuoli.

D’estate venditori ambulanti offrono ancora oggi refrigerio con una semplice granita, definita ‘a rattata (la grattata), ossia, del semplice ghiaccio grattugiato a partire da un singolo grosso blocco con un apposito strumento simile ad una pialla, che viene condito con dello sciroppo dolce. I gusti più tipici sono latte di mandorla, amarena, menta.

 

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Provenza e Costa Azzurra


Sei    Provenza e Costa Azzurra viaggio in un sogno di colori, sapori e profumi….  la mia ispirazione

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Viaggiare è come sognare:
la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.

Edgar Allan Poe

 

La Provenza

La Provenza una regione storica della Francia situata nella parte meridionale del paese, fra Rodano, Delfinato, al confine con l’Italia e Mediterraneo. Attualmente costituisce la regione Provence-Alpes-Côte d’Azur, con capoluogo Marsiglia. Il territorio provenzale può essere suddiviso in tre zone principali. La prima è costituita da zone pianeggianti (Crau, Camargue), la seconda è la fascia litoranea nota come Costa Azzurra, che si estende dalla foce del Rodano al confine con l’Italia, la terza è la zona interna prealpina e alpina.

principali sono il Rodano, il Var, la Durance e l’Argens. Per quanto riguarda l’economia, il turismo ha un’importanza fondamentale lungo la costa, mentre nell’interno si pratica l’agricoltura; presente anche l’industria, specialmente nella zona di Marsiglia che è anche un porto molto attivo.

I primi insediamenti nella regione risalgono al Neolitico; ci furono poi insediamenti greci, seguiti nel II sec. a. C. da quelli romani (il nome Provenza deriva infatti dalla denominazione romana di Provincia Narbonensis). La regione fu poi occupata da visigoti, burgundi e ostrogoti. Nel 536 la regione passò definitivamente sotto il controllo dei franchi. Nell’835 divenne un ducato, poi inglobato nel regno di Borgogna (X sec.); passò in seguito ai conti di Arles e successivamente ai conti di Barcellona. Nella prima metà del XIII secolo fu teatro della repressione degli albigesi, con la crociata promossa da Innocenzo III. Dopo una serie di legami con l’Italia, culminati con il trasferimento della sede papale ad Avignone, alla fine del 1400 la Provenza entrò a far parte definitivamente della Francia, raggiungendo i suoi confini attuali con l’annessione di Nizza (nel 1860). La regione provenzale è ricca di resti dell’epoca romana e di edifici risalenti al primo cristianesimo, oltre a bei palazzi di epoca più recente.

Nell’antica versione provenzale della Genesi si sostiene che, prima di creare Adamo, il Creatore si rese conto che gli erano avanzate parecchie cose: grandi distese di azzurro paradisiaco, tutti i tipi di rocce, terreno coltivabile già pieno dei semi di una flora opulenta e tutta una serie di sapori e profumi non ancora utilizzati, dal più evanescente al più forte. -Beh-, Egli pensò, -perché non creare un magnifico compendio del mio mondo, il mio paradiso speciale?-. Così nacque la Provenza. Questo paradiso comprende in sé le Prealpi dai picchi innevati e le colline pedemontane, che ad est declinano fino al mare mentre ad ovest arrivano quasi al Rodano. Negli altipiani selvaggi della zona centrale della Provenza si trova la fenditura più profonda di tutto il territorio europeo: il Grand Canyon du Verdon (Gole del Verdon). L’entroterra costiero è un susseguirsi di ripide catene di boscose colline dove il caldo profumo dei pini, degli eucalipti e delle erbe selvatiche intorpidisce i sensi. La zona rivierasca è composta da una serie sempre mutevole di baie d’aspetto quasi geometrico, che cedono a volte il passo a caotici agglomerati di rilucenti scogli affiorati e a insenature strette e profonde simili a fiordi norvegesi in miniatura: i calanque. Nella Camargue, il litorale stesso diventa un’astrazione mentre terra e mare si confondono in orizzonti infiniti. Se si esclude il delta del Rodano, ogni angolo di questa regione si inquadra in una cornice di colline, o montagne, o strane rocce che erompono all’improvviso. Tutti questi elementi sarebbero però insignificanti senza quella particolare luce mediterranea, al meglio in primavera ed autunno, morbida e splendente al tempo stesso, teatrale.

Per centinaia di anni, la Provenza rappresentò un bersaglio primario per gli invasori stranieri: i Greci crearono alcuni insediamenti sulla costa e lungo il Rodano, comprese Massalia e Nikea, cioè Marsiglia e Nizza, e i Romani più avanti aprirono una via di comunicazione costiera verso le loro città sul Rodano. La Provenza dovette difendere la propria indipendenza combattendo anche contro la Francia, il Sacro Romano Impero, la Borgogna, la Savoia e i Papi, mentre le faide intestine tra feudi rivali rendevano ancora più insicura la vita di tutti i giorni. Ciononostante, il tempo sembra non aver particolarmente intaccato la Provenza, in cui si trovano i migliori monumenti romani di tutta la Francia, oltre a tracce corpose dei primi colonizzatori a Glanum e i contorni ancora visibili di alcuni insediamenti indigeni liguri. Assai più romantici sono però i numerosi villages perché sopravvissuti e i quartieri delle vecchie città, le vieilles villes, con i loro angusti labirinti di strade medievali, passaggi e scalette tortuose che conducono inevitabilmente ad uno château fort e che non sono molto cambiate nel corso dei secoli. Molte di esse non sono mai state restaurate e in parecchie non c’è neppure un bar o un ristorante, ma a volte solo un negozio di alimentari e forse un distributore di benzina. Altre, tra cui tutte quelle che si trovano lungo la costa o nelle vicinanze, sono state tirate a lucido fino a farle diventare esempi eleganti e costosi dell’idea di pittoresco. La Costa Azzurra dev’essere il tratto costiero più costruito, sovraffollato, celebrato e costoso del mondo intero. Ci sono solo due industrie in quanto tali, il turismo e l’edilizia, più il terziario ad esse collegato, fatto di agenti immobiliari, posteggiatori di yacht e parcheggiatori di Rolls-Royce. Nell’Esterel, nella penisola di Saint Tropez, nelle isole di fronte a Cannes e Hyères e nel Massif des Maures la grande bellezza delle colline e dell’orizzonte, il profumo della vegetazione, le mimose in fiore e la strana sintesi di sostanze inquinanti mediterranee che rendono l’acqua così traslucida, obnubilano i sensi.IMG_5086 Questi erano un tempo i motivi di vanto di tutta la costa quando Cannes e Villefranche, Le Lavandou e St-Tropez erano minuscoli villaggi di pescatori. Gli aristocratici e i reali stranieri che nel Settecento avevano fatto di Nizza la stazione balneare invernale più alla moda in Europa, nell’Ottocento cominciarono ad insediarsi ad est e a ovest. Negli anni Cinquanta da queste parti ci fu l’avvento di un turismo di massa ancorché selettivo, gli anni Sessanta portarono branchi di attricette e di hippy, mentre negli anni Settanta il governo francese cominciò a rendersi conto del fatto che la loro principale risorsa turistica rischiava di diventare un vero orrore.

Nei decenni a cavallo del secolo, gli artisti, affascinati dalla luce e dal modo di vivere relativamente tranquillo, diedero addio ai tetri inverni nordici. Tra i grandi che dipinsero e scolpirono in quest’area troviamo Matisse, Renoir, Signac, Mirò, Chagall, Modigliani e Picasso che arrivavano d’estate e sconvolgevano i locali mettendosi a nuotare in mare. Molte delle loro opere fanno parte delle collezioni permanenti di splendidi musei da St-Tropez a Mentone, che già da soli valgono una visita alla Costa Azzurra. Nel 1879 nasceva, ad Aix, Cézanne, e gran parte delle sue tele si ispirano proprio ai paesaggi che circondavano la sua città natale, anche se poche delle sue opere sono rimaste in Provenza. Ad Arles e St-Rémy e nei dintorni delle due cittadine si può ripercorrere il triste passaggio di Van Gogh, ma anche in questo caso restano ben poche opere originali.

Cibo e vino sono altre due ragioni che possono allettarvi a visitare la Provenza, l’unica regione francese in cui frutta e verdura, pesce e frutti di mare sono sullo stesso piano della carne. Gli alimenti che crescono in Provenza, cioè olive e aglio, asparagi e zucchini, pesche bianche, uva moscata, meloni e fragole, porcini e spugnole, mandorle e castagne, basilico e timo, per nominarne solo alcuni, sono parte integrante dell’ambiente caldo e sensuale. Anche i vini, dai rosé secchi e leggeri delle Côtes de Provence fino ai rossi pastosi e delicati dei villages delle Côtes du Rhône e di Châteauneuf-du-Pape, sposano l’intensità della luce solare e ad essa devono il loro colore brillante.

Dove andare: Non è facile esplorare alcune parti dell’entroterra della Provenza, a meno che non si vada a piedi o con la propria automobile. Proprio per questa ragione, sono aree poco edificate e ancora vergini, dove le tradizioni sono ancora forti e le possibilità di soggiorno decisamente scarse. Il Grand Canyon du Verdon e il Parc de Mercantour nelle zone montagnose del nord-est sono però le due mete più spettacolari di tutta la regione.

Tra le città, Nizza, la Regina della Riviera, ceduta alla Francia solo nel secolo scorso, unisce in sé tutto il meglio e il peggio della Provenza contemporanea ed è forse la cittadina più accattivante di tutte. Marsiglia, sinonimo di vizio e di criminalità, di solito evitata dai turisti, è una maestosa metropoli dove prospera la creatività artistica e dove, contrariamente alla sua cattiva reputazione, la permanenza potrà essere assolutamente rilassata, gratificante e divertente. Le escrescenze patinate della costa, Cannes e Montecarlo, rappresentano un divertimento di tipo un po’ contorto. Aix-en-Provence, la piccola Parigi di Provenza, è deliziosa, raffinata e rispettabile. Avignone porta impressa la storia della Provenza medievale e ospita un eccellente festival di arte contemporanea. Se volete vedere resti romani, i posti da visitare sono Orange, Vaison-la-Romaine, Carpentras, Arles e Nîmes. Tra Grasse e Sisteron si può ripercorrere parte del viaggio di Napoleone nel 1815 dall’Elba a Parigi.

Si possono seguire i sentieri della transumanza che attraversano le montagne, imbattendosi in greggi di pecore accompagnate da capre, asini e pastori. Si può osservare la fauna selvatica, fenicotteri, tori e cavalli bianchi, negli strani bassopiani della Camargue, oppure camosci, mufloni e marmotte nel Parc de Mercantour. Se siete appassionati di arte moderna dovete assolutamente andare a St-Paul-de-Vence,Saint Tropez e Haut-de-Cagnes, oppure a Nizza per Matisse e Chagall, a Biot per Léger, ad Antibes e Vallauris per Picasso e infine a Mentone e Villefranche per Cocteau.

Quando andare In piena estate sulla costa il caldo e l’umidità sono a volte opprimenti e folla, gas di scappamento e costi potrebbero sopraffarvi. Per il nuoto, i mesi migliori vanno da giugno a metà ottobre, mentre maggio è un po’ freschino, ma solo secondo i parametri estivi. Per abbronzarsi, lo si può fare da febbraio fino a ottobre. Febbraio è il mese migliore per la Costa Azzurra: musei, alberghi e ristoranti sono quasi tutti aperti, le mimose sono in fiore e il contrasto con zone più fredde è assolutamente delizioso. Il mese peggiore è novembre, quando non c’è quasi niente di aperto e il clima divento freddo e umido. Lo stesso vale per l’entroterra della Provenza. Ricordate che le Prealpi sono di solito innevate dalla fine di novembre all’inizio di aprile. Le passeggiate autunnali vi ricompenseranno con mirtilli e lamponi, genziane viola e foglie rosse che diventano color oro. La primavera porta con sé una tale profusione di fiori selvatici che quasi non si osa camminare.

L’unico inconveniente del fuori-stagione è il mistral (maestrale), il vento del Nord freddo e violento; può durare settimane intere, distruggendo qualunque immagine ci si sia creati nella fantasia sui miti climi mediterranei.

Saint-Paul de Vence

Questo piccolo e romantico villaggio medievale, interamente pedonale, sorge alle spalle di Cagne-sur-Mer, abbarbicato sulla montagna per sfuggire agli attacchi saraceni. Fra le sue stradine, scalinate, fontane e piazzette, troverete angoli di pura poesia, a patto di evitare gli orari di punta di cui gli autobus riversano orde di turisti a caccia di souvenir. È il luogo dove vivono artigiani e pittori, da sempre meta privilegiata di artisti e intellettuali. Merita una fermata per sentire il rumore delle cicale mentre percorrete la romantica passeggiata lungo le mura, da cui si gode una magnifica vista sulla vallata e fino al mare.

  • Almeno una delle 60 gallerie d’arte e botteghe artigiane che qui hanno dimora.IMG_5003
  • Giovani e anziani che giocano alla petanque sotto gli alberi frondosi nella piazza all’ingresso del villaggio.
  • Fondation Maeght: conserva un’eccezionale raccolta di opere di grandi artisti come Chagall, Giacometti, Mirò, Matisse esposte a rotazione oltre a mostre temporanee sempre di grande livello. Bellissimo il labirinto di Mirò, un sentiero che si snoda nel lussureggiante giardino del museo dove sono collocate le sculture dell’artista spagnolo.

Aime e Margherite Maeght erano dei mercanti d’arte di Cannes e avevano come clienti e amici niente meno che pittori come Chagall, Matisse e Mirò ed è stata proprio la loro collezione privata che nel 1964 ha dato vita a questo museo che riceve ben 250.000 visitatori l’anno. Durante l’estate si può visitare dalle 10 alle 19 e ne vale davvero la pena!!! Ci sono bellissimi quadri di Chagall come La Vie, capolavori di Braque e Legere e sculture di artisti come Giacometti e Mirò…insomma, da non perdere.

Quello che vi aspetta a St. Paul non è da meno: ad accogliervi la terra gialla dell’antico campo da bocce, la Pétanque, nella quale giocarono i più famosi artisti che passarono di qui, concedendosi poi ristoro nell’adiacente Cafe de la Place. Qui si può mangiare un piatto del giorno ad 11 euro in compagnia di quadri di Picasso, Mirò, Matisse: la leggenda narra che da quando i primi artisti bohémien e squattrinati ebbero l’abitudine di pagare con le proprie opere, invece che con il denaro, si diffuse anche tra i successori la medesima usanza, facendo così diventare la modesta locanda una vera e propria galleria d’arte ricca di storia. In tanti anni e tanti viaggi non avevo mai visitato un borgo così particolare. Non c’è negozio infatti, o ristorante che non siano tutti di livello più che raffinato, non i soliti negozi di souvenir per turisti ma innumerevoli gallerie d’arte, enoteche, coloratissimi negozi di stoffe e erbe provenzali e locali molto curati tutti con terrazze vista valle.

Non c’è da meravigliarsi se in questo posto hanno soggiornato artisti del calibro dei già citati Picasso, Chagall, Bonnard e Modigliani (che lo scoprirono) ma anche star del cinema come Catherine Deneuve, Sophia Loren e Greta Garbo….

Ma St Paul de Vence è soprattutto un borgo ricco di storia e cultura con la sua Chiesa gotica del XII secolo dove è contenuto un dipinto “Caterina d’Alessandria” attribuito al Tintoretto e il Museo di Storia di St Paul dove si può conoscere meglio le vicende storiche di questo luogo.

Continuando ad inoltrarci per i vicoli acciottolati arriviamo ad una piccola piazza con una grande fontana ed un negozio di dolci e liquori molto invitanti e colorati e poi, proseguendo leggermente in discesa, arriviamo alla Porta sud del borgo oltre la quale si trova il cimitero dove riposano in pace Marc Chagall e i coniugi Maeght. Quaggiù è possibile godere di una vista spettacolare su tutta al vallata e di un grande momento di pace….

Storia di Saint Paul de Vence

Il villaggio da il benvenuto già fuori delle mura dove dall’alto della sua collina, si presenta con tutta la sua bellezza e particolarità. Interamente circondato da mura fortificate, Saint Paul de Vence presenta un unico accesso perfettamente mantenuto e munito ancora oggi del suo cannone. Il celebre cannone Lacan (chiamato così dal nome del Capitano che difese Saint Paul dall’attacco dei nemici) fu utilizzato in varie battaglie e sembra che sia riuscito a proteggere questo magnifico borgo dai continui attacchi provenienti sia dall’entroterra che dal mare. Non si hanno notizie certe sulle origini di questo centro storico, probabilmente sul luogo si trovava un insediamento ligure divenuto poi romano e conosciuto con il nome di San Paolo solo dopo il XII° secolo. Dell’antico castello, rimane solo l’alta torre (il Donjon) oggi sede del Municipio.

La Fontana (monumento storico) è stata costruita nel 1.850 e serve come punto d’incontro del villaggio, come lo era anni fa per attori, artisti e personaggi famosi di tutto il mondo.

 

 

Le Gole del Verdon

Un impressionante canyon dove scorre un incantevole fiume dalle acque smeraldo.

Il fiume Verdon nasce nei pressi del colle d’Allos, sulle Alpi Marittime, e si getta nel fiume Durance, nei pressi di Vinon-sur-Verdon, dopo aver percorso circa 175 chilometri. Due sono i tratti più caratteristici di questo fiume: il primo, tra Castellane e il ponte del Galetas, in corrispondenza del lago artificiale di Sainte-Croix, il secondo, corrisponde appunto al canyon dove il fiume si incanala, le famose Gorges du Verdon appunto.

A rendere questo fiume speciale è il colore delle acque verdissime, per effetto del fluoro e delle micro-alghe. Mentre nel tratto del fiume che corrisponde al lago di Sainte-Croix, un bacino artificiale, presenta una colorazione turchese dovuta al fondo argilloso.

Dall’Italia per raggiungere la zona e percorrere un itinerario lungo il Verdon, occorre raggiungere Moustiers-Sainte-Marie che può essere considerato il punto di partenza.

Moustiers-Sainte-Marie è un villaggio arroccato tra due maestose rupi, attraversate da un ruscello di montagna. Da qui si può scendere verso il lago di Sainte-Croix, a Sainte-Croix du Verdon, circumnavigando il lago fino a Bauduen. Il tratto più spettacolare del percorso delle Gorges du Verdon è situato tra Castellane e Moustiers-Sainte Marie, quando il Verdon si tuffa nelle acque del lago di Sante-Croix. Castellane è una cittadina vivace di origine medievale. E’ piacevole passeggiare nei vicoli del suo centro storico.

Le gole del fiume Verdon spaccano la montagna per 25 chilometri creando il canyon più impressionante d’Europa, grazie alle sue pareti a strapiombo sul fiume, alte fino a 1500 metri. Un famoso speleologo nel 1905 percorse per primo le gole e definì questo tratto: il più americano di tutti i canyon del vecchio mondo.

Gli itinerari più interessanti si concentrano intorno al canyon, le falesie verticali arrivano a un’altezza di 700 metri a strapiombo sul fiume. Da non perdere sono i punti panoramici: Le pas de la Baou e il belvedere Trescaire. Il percorso da fare in auto segue una strada che si apre a fianco della falesia fino a costeggiare l’intero letto del fiume. La strada è spettacolare, nonostante resti distante dal fiume. In alternativa si può costeggiare la riva destra del fiume sulla strada D 952 e seguire il percorso Route de Cretes (20 km circa), per ammirare i punti più panoramici del Gran Canyon.

Per gli amanti dell’escursionismo il sentiero GR4 è ideale per camminate di grande interesse paesaggistico e naturalistico. Anche noto come le sentier Blanc-Martel è un bellissimo trekking di almeno sette ore, che scende al fondo delle Gorges du Verdon.

Moustiers-Sainte-Marie

Moustiers-Sainte-Marie le cui radici affondano nella stretta relazione esistente tra l’uomo e il suo ambiente. Il paese circondato da colline a terrazzo piantate di ulivi si situa alle porte delle Gole del Verdon.IMG_5049

Alcuni monaci venuti dall’isola di Lérins, verso il 433, trovano rifugio in cavità scavate nel tufo e fondano un monastero. Fieramente ubicata sul bordo del precipizio, la chiesa Notre-Dame de Beauvoir, o d’Entremont possiede un porticato romanico, dominato da un piccolo campanile della stessa epoca; la porta lignea risale al Rinascimento.IMG_5052

All’interno, le due prime campate della navata sono di stile romanico, le altre due di stile gotico come l’abside. Era considerato un tempo un « un sanctuaire à répit » (santuario del rito della doppia morte). Secondo le credenze popolari di alcune province, il « répit » è in un bambino nato morto, un ritorno temporaneo alla vita per consentirgli di avere il tempo di ricevere il battesimo prima di morire definitivamente.

Avendo ricevuto il battesimo, il bambino potrà così andare in Paradiso invece di errare nel Limbo dove sarà privato della visione di Dio. Ma il rito della doppia morte è possibile solo in alcuni santuari, la maggior parte delle volte consacrati alla Vergine (Notre Dame de Pitié) le cui intercessioni sono necessarie per ottenere un miracolo.

Un cammino acciottolato, con gradini di piccola pedata e grande larghezza, delimitato da oratori conduce al santuario. Come per rinforzare l’aspetto sorprendente del posto, una catena con al suo centro una stella è sospesa tra le due cime. La leggenda ne attribuisce l’origine ad un cavaliere di Blacas che, nel XII secolo, prigioniero durante le crociate, aveva fatto voto di appendere una catena vicino alla cappella, se sarebbe riuscito a sopravvivere.

 

Dal grazioso disordine dei tetti colorati alla moda provenzale si distacca un alto campanile romanico, arricchito da tre piani di finestre geminate, d’ispirazione lombarda; la chiesa in stile romanico possiede un coro gotico con abside piatta.

Le risorse locali e soprattutto la triade — acqua, legno, argilla fine — hanno permesso abbastanza rapidamente l’istaurarsi di una tradizione di vasai. Nel 1929 viene inagurato il museo storico della maiolica. Attualmente il Museo della Maiolica annovera cinque sale dove sono esposti i migliori pezzi del XVII secolo e contemporanei. La sala delle « terres vernissées » (terre verniciate) vi presenta del vasellame storico ed un assortimento di pezzi in terracotta come le tegole vernicite, canalizzazioni, ecc.

Al giorno d’oggi molti maestri della maiolica propongono pezzi di qualità dai motivi originali. L’attività della maiolica e della terracotta contribuisce al dinamismo economico regionale allo stesso modo dei prodotti locali come il miele, la lavanda e l’olio di oliva.

Curiosità architettoniche e naturali Moustiers-Sainte-Marie

  • Cammino degli oratori e cappella Notre-Dame de Beauvoir Moustiers-Sainte-Marie;
  • Grotta di Sainte-Madeleine Moustiers-Sainte-Marie;
  • Borgo antico e chiesa parrocchiale Moustiers-Sainte-Marie;
  • Il sentiero del patrimonio (aquedotto, fortificazioni, cappella Sainte-Anne) Moustiers-Sainte-Marie;

Con i suoi atelier e laboratori, Moustiers è uno dei principali centri francesi per la produzione della ceramica. Il prestigioso Musée de La Faïence, creato nel 1929 dalla locale Accademia, è stato allestito in una cripta scavata dai monaci di Lérins e racconta la storia della maiolica provenzale esponendo una ricca collezione di stampi, manufatti e utensili d’epoca. Sinonimo di ceramica, faïence è la traduzione francese del nome Faenza: il procedimento faentino di lavorazione delle maioliche consisteva nell’applicare i colori prima della cottura direttamente su una superficie coperta di vernice bianca opaca. Questa tecnica artistica venne introdotta a Moustiers Sainte Marie da Pierre I Clérissy nel 1679. Successivamente tre editti reali emanati nel 1689, 1699 e 1709 imposero alla nobiltà di donare il vasellame d’oro e d’argento alle casse del regno favorendo così anche la diffusione di queste nuove opere d’arte. Nel Settecento Moustiers vide fiorire fornaci, atelier e grandi talenti come i Clérissy, gli Olérys e i Laugiers che nel 1738 introdussero la policromia basandosi sulle tecniche spagnole del gran fuoco sino ai fratelli Ferrat che si ispirarono ai decori delle manifatture di Stasburgo. Le ceramiche iniziarono ad essere esportate a Parigi, a San Pietroburgo e nel Québec anche se poi nel 1840 la moda della porcellana inglese compromise la produzione locale tanto che nel 1874 l’ultima fornace del paese fu costretta a chiudere i battenti. A partire dal 1927, grazie alla riapertura di un laboratorio, l’arte della ceramica è tornata ad essere una delle principali attività artistiche di Moustiers.

Nei numerosi atelier del centro storico del borgo si possono osservare le tecniche di lavorazione della ceramica oltre che acquistare le riproduzioni delle opere create dagli antichi maestri ceramisti. Proseguendo la passeggiata, dopo aver attraversato un piccolo ponte in pietra su cui si affacciano dimore e costruzioni con splendide facciate fiorite, si raggiunge una piazzetta dove si trova la chiesa parrocchiale, monumento storico dal 1913, che mostra orgogliosa il suo campanile romanico considerato uno fra i più belli di tutta la Provenza. Questa bella torre in tufo quadrata si innalza per 22 metri suddivisi in quattro piani con due aperture. Nel 1336, in occasione degli interventi di ampliamento della chiesa, non venne però rispettato il vecchio asse della navata: non se n’è mai saputa con certezza la motivazione anche se fra le più accreditate ci sarebbe la scelta di posizionare il coro in direzione di Gerusalemme o di ricordare la posizione della testa di Cristo sulla croce. L’attuale altare è un sarcofago in marmo bianco del IV secolo che rappresenta il passaggio del Mar Rosso.

Dopo la visita alla chiesa parrocchiale ci si può arrampicare su un sentiero che parte da Rue de la Bourgade e che conduce alla cappella di Notre Dame de Beauvoir: la deliziosa chiesetta trecentesca, abbarbicata a uno dei due versanti della montagna, si raggiunge tramite un ripido percorso di 262 scalini (un tempo erano 365) che si percorre in circa mezz’ora venendo adeguatamente ricompensati dalla meravigliosa vista offerta quando la si raggiunge. Il panorama, che spazia sino al Lac de Sainte Croix, permette anche di ammirare da vicino la stella del cavaliere. I sette santuari che fiancheggiavano il percorso sulla collina nel 1860 hanno lasciato il posto alle 14 stazioni della Via Crucis successivamente decorate con maioliche di Simone Garnier. Costruita alla fine del XII secolo sui resti di un tempio mariano del V secolo, la cappella è un perfetto connubio di stili romano e gotico. Come altri edifici dell’arco alpino, il santuario di Notre Dame (dal 1921 monumento storico) è conosciuto per le sue “suscitations”: nel XVII secolo, i bambini nati morti riprendevano vita con il battesimo qui ricevuto salendo in cielo. Nella gola sottostante l’edificio religioso è tesa una catena di ferro lunga 227 metri al centro della quale è stata appesa una stella dorata a cinque punte del peso di 400 chili. Nonostante sia stata rinnovata nel 1957, la leggenda vuole che a farla issare per la prima volta fra le due pareti di roccia sia stato nel XII secolo il cavaliere Balcas a ringraziamento della Vergine per essere stato liberato dalla prigionia durante la Settima Crociata di San Luigi. Ancora oggi, la stella svetta sulle teste degli abitanti scintillando al sole del tramonto.Per tornare in paese si può ripercorrere lo stesso sentiero oppure addentrarsi in un altro percorso che riporta nel cuore di Moustiers Sainte Marie passando attraverso i boschi (troverete le indicazioni dal sagrato della chiesa). E se vi capita di visitare il borgo l’8 Settembre non perdetevi la caratteristica celebrazione liturgica in onore della natività che si conclude con una simpatica colazione in piazza per tutti.

Informazioni al sito http://www.moustiers.eu

Valensole

Chi vive l’emozione di fermarsi, in piedi, di fronte a un campo di lavanda provenzale, sa che cosa provava l’uomo di fronte all’infinito, come lo dipingevano gli artisti romantici: fischi di vento, cielo e mare. Mare ondeggiante in ogni direzione si guardi, fatto di acqua nei quadri del romanticismo, fatto di lavanda nelle piane del sud della Francia. E’ un’emozione ben nota agli abitanti di Valensole e del rispettivo altipiano, che anche i turisti potranno conoscere avventurandosi verso la “Route de la Lavande” nella stagione della fioritura.

Valensole è un antico borgo di 2.500 abitanti circa, incastonato tra la piana omonima e la Valle di Notre-Dame, che nel tempo ha saputo custodire gelosamente il fascino dei villaggi tradizionali dell’Alta Provenza. Sull’etimologia esistono diverse teorie: qualcuno sostiene che il nome del borgo sia un diminutivo di Valence, la città della regione del Rodano-Alpi; secondo altri, forse più poetici, deriverebbe dal latino “vallis” e “solis”. “Valle del sole” sarebbe dunque il significato di Valensole, e indipendentemente dalla correttezza dell’interpretazione, bisogna ammettere che la definizione è quanto mai adatta: il sole si rovescia generoso su un territorio di quasi 13 mila ettari, illuminando il borgo a 590 m s.l.m. e producendo sulla lavanda un caleidoscopio di viola diversi di cui non si sospettava l’esistenza. Dalla primavera all’autunno, camminando per le viuzze strette di Valensole, ci si può sporgere dai balconi panoramici verso la piana della lavanda, e cogliere un tripudio di colori sempre vario e incantevole: in marzo i mandorli si agghindano di fiori bianchi, in contrasto delicato e fresco con il viola dominante; in luglio le toppe di lavanda si affiancano a qualche appezzamento dorato di grano, in un patchwork eccentrico che toglie il fiato; in novembre, infine, mentre la lavanda si spegne con una nota nostalgica di grigio argenteo, gli ocra caldi dell’autunno prendono il sopravvento. Il clima ideale per questo spettacolo della natura non poteva che essere di tipo mediterraneo. A Valensole e nell’altipiano, infatti, le estati sono calde e secche, le primavere miti e gli inverni freddi ma non rigidissimi: luglio e agosto sono i mesi più caldi, con una temperatura media massima di 29°C e minima di 19°C, mentre in dicembre e gennaio si va da una minima media di 3°C a una massima di 13°C. Se le temperature favoriscono la crescita della lavanda, la scarsità delle piogge rende la zona ancora più invitante per i turisti: qui non piove quasi mai, anche se il cielo può giocare lo scherzo di far comparire un nuvolone carico d’acqua all’improvviso, e scatenare un temporale inaspettato. In poco tempo, comunque, il sole torna ad inondare il viola delle pianure provenzali. Ma il panorama fiorito e la lavorazione industriale della lavanda non sono le uniche risorse di Valensole, che custodisce alcuni gioielli storico-artistici meritevoli d’attenzione. Chi visita il cuore del borgo, ad esempio, non potrà non notare l’imponenza del Castello de Bars, costruito nel 1627, o l’eleganza delle tipiche abitazioni del XVIII secolo. Del 1734 è la bella fontana della Piazza Thiers, con la base circolare e un pilastro centrale da cui zampillano i getti d’acqua, dichiarata monumento storico. Da vedere anche la chiesa parrocchiale di Saint-Denis, antico priorato dell’abbazia di Cluny fondato da Saint Maieul, che domina il villaggio. La navata, ricostruita tra il 1789 e il 1790, è incastonata tra una facciata occidentale in stile romanico e un coro del XIV secolo. Un tempo esisteva certamente un piccolo chiostro, di cui rimangono poche tracce, mentre si conservano tutt’ora le strutture delle fonti battesimali, anch’esse dichiarate monumento storico. A raccontare la storia e la personalità di Valensole, a parte gli edifici del borgo, c’è una ricca rassegna di eventi e manifestazioni che si svolgono durante l’anno. L’occasione più spettacolare e significativa è certamente la celebre Festa della Lavanda, che si svolge la terza settimana di luglio e ha l’intento di far conoscere ai visitatori gli innumerevoli usi e le tradizioni legate alla pianta caratteristica della Provenza. Mentre le signore del posto passeggiano per le vie della cittadella vestite come le lavandaie di un tempo, i turisti possono visitare le coltivazioni e le distillerie, assistere agli spettacoli a tema o acquistare al mercatino i prodotti a base di lavanda, dalle prelibatezze gastronomiche agli olii essenziali, dagli oggetti in ceramica ai semplici sacchetti profumati. Questa è la festa più famosa, che attrae visitatori da tutta la Francia e dall’estero, ma l’agenda di Valensole è affollata anche negli altri periodi dell’anno. Tra gli eventi da non perdere citiamo la Fete de la Saint-Eloi in giugno, una giornata dedicata ai cavalli e ai mestieri legati a loro, e l’Espace du Livre di agosto, un evento culturale che vede riuniti scrittori locali e internazionali per la presentazione delle loro opere al pubblico. Per raggiungere Valensole dall’Italia ci si può servire di vari mezzi: chi desidera viaggiare in aereo potrà atterrare all’Aeroportt International de Marseille-Provence, collegato a tutte le principali città europee e a circa un’ora e 30 min di auto dalla meta finale. Chi preferisce il treno potrà arrivare a Valensole in 20 minuti dalla stazione SNCF di Manosque; in 1 ora e 20 minuti dalla stazione TGV di Aix en Provence. Infine, chi viaggia in auto, dovrà imboccare l’autostrada A51 e uscire a Manosque, seguendo poi le indicazioni sino a Valensole.

Roussillon

Roussillon, villaggio del dipartimento della Vaucluse, nella Francia meridionale, è un piccolo borgo di circa 1300 abitanti. Siamo nella regione Provence-Alpes-Côte d’Azur, nel cuore del Parco naturale regionale del Luberon, dichiarato parte della rete mondiale di riserve della biosfera dall’UNESCO. Roussillon è famoso per essere il villaggio dell’ocra, visto che nei suoi dintorni si trovano alcune delle più famose cave di minerali terrosi (ematite e limonite) dalle quali si ricavano le terre coloranti naturali. Il villaggio nacque durante il periodo di dominazione gallo-romana e nel X secolo venne costruito un piccolo castello a difesa del borgo, ma è soltanto in epoca relativamente più recente, a partire dal XVIII secolo, che s’iniziarono a sfruttare con maggiore intensità le ingenti risorse di ocra di cui il territorio disponeva. Nacquero così delle vere e proprie fabbriche che davano lavoro a gran parte degli abitanti di Roussillon e contribuirono alla crescita economica del paese. L’attività estrattiva è continuata fino alla metà del XX secolo, sostituita oggi dal turismo come vera fonte di guadagno delle persone che vi abitano. Non è un caso, visto che Roussillon fa parte a pieno titolo dell’associazione dei più bei villaggi di Francia (“les plus beaux villages de France”). Già ad una prima vista, il borgo si presenta come una tavolozza di colori di un pittore con le tante tonalità dell’ocra che caratterizzano gli edifici. I vicoli si insinuano tra le case rossastre, rosate e con le mille sfumature che i raggi del sole modificano con il passare delle ore durante la giornata. Passeggiando per le sue strade, dove si susseguono le botteghe e alcuni scorci indimenticabili, si possono scoprire i tanti luoghi simbolo del villaggio: le Beffroi (il campanile) che fungeva da antica porta del Castrum forificato, le tante piazzette (Place du Pasquier, Place de l’Abbé-Avon adiacente alla Porte Heureuse, poi ancora Place Pignotte, Place de la Forge, Place de la Mairie circondata da deliziose case del XVIII secolo e infine Place de la Poste, dove si trova l’ufficio turistico), la chiesa di St.Michel situata proprio in prossimità del bordo della falesia e la table d’orientation, a tutti gli effetti il punto culminante del villaggio da dove si può godere la spettacolare vista panoramica che spazia dal Luberon ai Monti della Vaucluse. Roussillon è strettamente legata all’ambiente circostante: i turisti amano percorrere a piedi il Sentiero delle Ocre, IMG_5134dove un tripudio di colori abbraccia i visitatori che camminano tra le falesie variopinte – si va dal giallo al violetto, passando per tutte le tonalità – in mezzo alla vegetazione della cosiddetta Chaussée des Géants (Passeggiata dei Giganti)IMG_5114. Esistono due percorsi segnalati: uno più breve (di mezz’ora) e l’altro da circa un’ora che consentono di ammirare il paesaggio e vedere da vicino come si presenti l’ocra nel suo stato originario. Per sua stessa natura, la polvere dell’ocra “sporca” i vestiti, per cui suggeriamo di non indossare abiti bianchi e soprattutto di scegliere un vestiario che sia poi facilmente lavabile. L’accesso al sentiero è a pagamento e per chi volesse approfondire il tema dell’ocra esiste la possibilità di visitare l’interessante “Conservatoire des Ocres et de la couleur“, realizzato all’interno di un’antica fabbrica, l’Usine Mathieu, dove si lavorava l’ocra nei secoli scorsi. Il Conservatorio delle Ocre si trova a sud-est del paese, sulla strada D104 per Apt

Gordes

Gordes è un bellissimo borgo antico,IMG_5193 che rimane arroccato sul bordo meridionale dell’alto Plateau de Vaucluse. La pietra dei suoi edifici costruiti in stretto contatto, che sembrano sovrapporsi alle rocce e tra di loro in una disordinata armonia, sono fatti di una pietra color beige che si illumina di arancione con il sole della mattina. La vista da sud è uno dei panorami più suberbi della Provenza, con Gordes che rimane circondato dai campi, boschi e piccoli villaggi arroccati sulla Montagne du Luberoncon e con il castello del dodicesimo secolo che svetta imponente su tutta la città e la vallata. Gordes si può visitare in qualsiasi stagione.

 

Il suo fascino muta con il variare dei colori della vegetazione e del cielo. In estate può essere un ottimo spunto per trascorrere una serata al fresco della collina e sfuggire alle temperature torride della pianura provenzale, mentre in inverno se la nebbia attanaglia le vallate, Gordes emerge luminoso con le sue case di pietra dorate dai raggi del debole sole. La primavera è un altro ottimo periodo, quando la Provenza si ricopre di fiori e la calda luce valorizza l’impatto visivo del borgo medioevale di Gordes. Il nome “Gordes” deriva dalla parola celtica “Vordense”. Vordense è poi evoluta nel tempo nel nome attuale di Gordes. La vista da nord del castello mostra sia le parti antiche che le ristrutturazioni di epoca rinascimentale. Era il 1031 quando un castello fu costruito sulla montagna e usando la parola latina “castrum” nacque “Castrum Gordone”. Nel 1148 si aggiunse nei dintorni l’Abbazia di Sénanque, e la città assunse sempre più importanza, ma poi furono i lavori del rinascimento che modellarono il castello di Gordes nel 1525, trasformandolo nella grande attrazione turistica che è oggi.

Tutti gli edifici in Gordes sono fatti di pietra e fanno di terracotta su’ tetti. Per preservare la struttura antica le recinzioni non sono ammesse, e si deve fare uso solamente di muri in pietra. Per la gioia dei fotografi l’energia elettrica e tutti i cavi telefonici sono stati messi in condotte sotterrane. In più tutte le strade sono lastricate di pietre, dando un tocco in più al sublime paesaggio storico. Uno dei punti panoramici più belli di Gordes si trova lungo il percorso che dalla autostrada A7 conduce al borgo medioevale. Per arrivare a Gordes l’uscita della A7 (tratto Marsiglia-Avignone) consigliata è Cavaillon, che si raggiunge oltrepassando il fiume Durance. Da qui si gue il percordo della D2 che conduce a Robion, all’incrocio con la N100 a Coustellet, ma poi si presegue ancora sulla D2 fino alla periferia di Gordes. Ad un certo punto la D2 piega verso destra, e alla rotonda invece di proseguire a Gordes, si svolta a sinistra, dove si possono trovare molti punti panoramici per contemplare un vista fantastica sul centro di Gordes. Una volta alla settimana,più precisamente il martedì mattina, a Gordes è giorno di mercato. Questo è un ottimo momento per visitare la città e vedere i prodotti tipici della Provenza. In una giornata di mercato oltre che godervi i vicoli, gli scorci imprevisti e suggestivi del borgo, affronterete le bancarelle dei mercanti provenzali dove vi verrà offerto cibo, vestiti, strumenti musicali , artigianato della Provenza, decorazioni, e molto di più. Salendo le stradine tortuose arriverete al castello. Del nucleo primitivo del Castrum Gordone rimangono solamente due torri, coronate da piombatoi, ben visibili lungo la facciata nord. Al primo piano del castello troviamo una superba sala lunga ben 23 metri e dal soffitto in legno. Qui è posizionato un magnifico camino, che fu scolpito nel 1541 in bello stile con delle nicchie che dovevano ospitare delle statue. Il castello ospita anche im museo Vasarely, aperto negli anni ’70. Cinque stanze furono messe a disposizione di Victor Vasarély per il suo “Museo Didattico” (Musée didactique) come riconoscimento per avere contribuito ai costi di restauro. Il pittore ungherese (nato nel 908) è uno dei più importanti artisti del Costruttivismo. Da visitare nei dintorni di Gordes. Le attrazioni turistiche principali della zona sono il Village des Bories e l’abbazia di Sénanque, quest’ultima copertina di quasi tutte le guide della Provenza, per le sue coltivazioni di lavanda (vedi foto). Gordes si trova infatti in una regione del Vaucluse con molti edifici interessanti in pietra a secco Bories, in un certo senso degli equivalenti dei nostri trulli pugliesi. Ce ne sono nelle campagne, nelle immediate vicinanze del villaggio, tra cui un gruppo famoso chiamato i tre soldati . Appena accanto a Gordes, ad occidente, si trova il Village de Bories, un antico borgo con tutti edifici in pietra a secco: un incredibile collezione di case, muri, fienili e una varietà di altre strutture , tra cui un negozio del periodo della fabbricazione della seta. Il Village des Bories rimane aperto dalle 09:00-17:30, e costa circa 5 euro per adulto. Ancora vicino a Gordes, si trova Fontaine-de-Vaucluse. Il principale punto di interesse è la sorgente della Sorgue che si trova ai piedi di una rupe alta 240 metri, e stupisce per la sua imponente portata. A nord, ancora in Valchiusa (Vaucluse), ma non più sullo stesso gruppo di colline, si trova il celebre Mont Ventoux, soprannominato il “Gigante della Provenza” a causa della sua dimensione imponente, un prestigiosa località legata al ciclismo su strada che spesso viene visitato dal Tour de France.

 

Les Baux-de-ProvenceIMG_5243

La Provenza si mostra in tutta la sua bellezza nel paesaggio magico delle Alpilles, una catena montuosa con orientamento ovest-est dove si trovano incredibili formazioni rocciose che si possono ammirare lungo la strada che proviene da St. Remy in direzione di Arles. Pareti di roccia verticali si alternano a zone ricche di foreste, rendendo affascinante il paesaggio curva dopo curva. La massima suggestione si raggiunge però a Les Baux, dove i resti di un antica fortezza si fondano con il colore chiaro delle rocce in un connubio che vi riporta indietro nel tempo, al tempo del medioevo quando i signori di Baux dominavo su questo angolo di Provenza.IMG_5248

Il nome di “Baux”, ha dato il nome ad una roccia, la bauxite, scoperta per la prima volta proprio nelle Alpilles, e il nome proviene dal villaggio di Baux-de-Provence. Si tratta di una roccia molto importante dal punto di vista economico, per la sua ricchezza in alluminio. Per arrivare a Les Baux si utilizza la A8 che dal confine italiano conduce verso Aix-en-Provence e Marsiglia, per poi immettersi sulla Autostrada A7. Arrivati a Salon de Provence si può decidere se proseguire sulla A7fino a Cavaillon e da qui proseguire per St. Remy e Les Baux, oppure piegare sulla A54 in direzione di Arles-Nimes e uscire in direzione di Mouries e affrontare le Alpilles dal versante sud fino ai magici paesaggi di Les Baux. Appena dentro l’ingresso del borgo si trovano strette strade ciottolate, bar con terrazza, negozi di souvenir e turisti. Les Baux è un sito turistico molto popolare, vedrete spole di autobus raggiungere il parcheggio durante il giorno, ed è quindi consigliabile visitare il villaggio ed il castello al mattino presto, arrivando già alle 9 di mattino o prima, per gustarsi la magica solitudine delle strade medioevali. Il periodo migliore per visitare il sito è la primavera e l’estate, ma sono anche i momenti di maggiore affollamento. In inverno è più difficile imbattersi nei tour organizzati e le Alpilles hanno un fascino speciale nelle giornate di nebbia in pianura. Le prime tracce della presenza umana sul pianoro di Les Baux-de-Provence dal punto di vista archeologico è attestata dal periodo neolitico, circa 6000 anni avanti Cristo. La presenza di un castello è invece attestata da documenti dallaseconsa metà del 10° secolo. Il primo noto membro della famiglia di Les Baux, Pons Le Jeune, è citato in un testo della fine del 9° secolo. La famiglia resse le vicende del sito, con anche fasi cruente, fino all’ultima superstite, la principessa Alix, è che morì al castello nel 1426. La storia è stata lunga e movimentata durante questo periodo: conflitti (guerre in Les Baux), rivolte, assedi, le guerre di religione, nonostante ciò durante il 16 ° secolo Les Baux divenne un sito prospero, che vide un grande sviluppo architettonico con la costruzione di nuovi appartamenti nel castello e molti palazzi privati. Purtroppo, ci sono poche tracce rimaste di opere d’arte (pittura e arti decorative) risalenti a questo periodo aureo. Il castello fu infine distrutto nel 1632, durante il periodo del Cardinale Richelieu, a causa di problemi provocati da ribelli che vi avevano preso rifugio. Questa distruzione volontaria spiega molto la condizione un po’ fatiscente degli edifici di oggi. Il Castello (Château des Baux) si trova a nord-est del pianoro nel punto più alto (241m) e comprende molti edifici di epoche diverse in diversi stati di conservazione, mostrando i cambiamenti che i signori e gli abitanti di Les Baux hanno applicato attraverso i secoli: tra questi si nota l’estensione del castello stesso e le varie modifiche della Sainte Chapelle – Catherine e la “Ruelle castrale”. Il fascino intenso che il castello emana è dovuto al fatto che il gruppo di edifici è impostato sulla roccia, sfruttando le sue naturali cavità e pareti. Esso include bastioni, le torri, un mastio, una cappella e varie abitazioni. Appartenente al castello medievale, la cappella di Santa Caterina è in parte scavata nella roccia e in parte costruita in pietra. Il coro è di fronte ad est e l’ingresso volge ad ovest. La sua struttura è semplice: rettangolare e composta da una navata con due baie, una sola delle quali ha conservato la sua copertura.

Tracce di archi sulla pareti interne mostrano le modifiche architettoniche successive del complesso. Le parti più antiche potrebbero invece risalire all’11° secolo. La Ruelle Castrale è una corsia che separa il castello dalla Maison du Four e conduce dalla scalinata di pietra alla Cappella di Santa Caterina. Il punto di partenza per il tour di Castello è la Tour de Brau che oggi ospita il museo di storia di Les Baux che ha una mostra di modelli di Castello nel 13 ° secolo e durante il Rinascimento. Il palazzo di Tour de Brau, che apparteneva ad una famiglia dello stesso nome nel corso del 15° e 16° secolo, è stato probabilmente costruito all’inizio del 12 ° secolo. Si tratta di una delle più interessanti residenze del vecchio e nobile paese di Les Baux. Il villaggio: Grand – Rue è la strada principale del villaggio, fiancheggiata da una parte e per quasi tutta la lunghezza da grandi case di una volta appartenenti ai più ricchi borghesi e alle nobili famiglie. L’Hotel de la Manville, oggi il municipio, è senza dubbio la più grande di queste residenze e uno delle meglio conservate. Fu costruita nel 1571 da un architetto di Vivarais per Claude de Manville, che proveniva da una famiglia protestante di Tolosa. Claude I de Manville è stato un capitano della flotta Reale e uno dei cavalieri del Santo Sepolcro. Al primo piano ora nella Camera di Consiglio del Municipio troviamo un monumentale camino (1572) sormontato da un fregio decorato e resti di colonne doriche. La chiesa di Saint-Vincent è uno dei più antichi monumenti del borgo e si trova a “Place Saint Vincent”. Questo monumento ha una pianta quadrata e orientata est-ovest. Tutte le chiese della Valle del Baux sono costruite nello stesso modo, in perfetta conformità con il simbolismo cristiano, che pone la facciata verso il tramonto, da dove viene il buio e l’altare in direzione della luce, che simboleggia Cristo. La chiesa all’interno possiede tre navate. Quella di sinistra, la chiesa primitiva e la parte più antica, risale al 10° secolo. La sua volta semicircolare è decorata con festoni triangolari caratteristici del periodo carolingio. Questa navata ha tre cappelle intagliatenella roccia. La navata principale in stile romanico risale al 12 ° secolo. Nel 1550 una galleria venne aggiunta sopra l’entrata. Sopra l’altare maggiore vi è un bel dipinto raffigurante la sentenza di condanna di Saint Vincent che fu fatto martire. La navata di destra, in stile gotico nel lato nord dell’edificio è composta da 3 cappelle, una delle quali ospita il cenotafio della famiglia Manville, che possiede una fiammeggiante volta gotica. Sulla facciata sud si trova una torretta circolare sormontata da una cupola decorata con la “lanterna dei morti” dove veniva posta una fiamma accesa ad annunciare la morte di un abitante del villaggio. La porte Eyguières, permetteva agli abitanti del villaggio di recuperare l’acqua della pianura del Vallon de la Fontaine, dove si trova una sorgente e una lavanderia. Gli abitanti locali la chiamano semplicemente la porta lou Porteau. Lo stemma della casa di Grimaldi, anche se danneggiato durante la Rivoluzione, è ancora visibile sopra la postierla. Fondata come marchesato nel 1643, Les Baux e le sue torri appartenevano alla famiglia Grimaldi fino al 1790. Anche se la Rivoluzione francese ha abolito i privilegi, il principe Alberto di Monaco conserva il titolo onorario di Marchese di Les Baux.

 

Saint-Remy-de-Provence: Tra Nostradamus e Van Gogh

Sono meno di diecimila gli abitanti che godono della bellezza delicata di Saint-Remy-de-Provence, villaggio di fondazione romana immerso nella campagna della Francia meridionale, nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Chiamato in Occitano Provenzale “Sant Romieg de Provença”, il borgo è abbracciato dalle Alpilles, le prealpi impreziosite dal fogliame argenteo degli ulivi. Tra gli estimatori di questi luoghi senza tempo, dove la vegetazione che vibra al vento pare sussurrare, ci fu il celebre Vincent Van Gogh che per un anno, dal 1889 al 1890, fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Saint Paul de Mausole e dipinse ben 150 quadri ispirato dal panorama di Saint-Rémy-de-Provence. Alcuni dei suoi capolavori più noti, come “La notte stellata” IMG_5292o un famoso “Autoritratto” vennero realizzati proprio durante la sua permanenza in città.IMG_5288

Delle 150 tele, che si diffusero immediatamente in varie parti d’Europa e del mondo, Saint-Remy conserva altrettante copie realizzate con maestria, esposte tutto l’anno al Museo Estrine. Si tratta di un palazzo dall’architettura raffinata ed elegante, piacevole da percorrere in ogni scalinata o corridoio, ma è specialmente un omaggio e un monumento al genio del grande pittore. Un altro personaggio legato alla cittadina di Saint-Remy-de-Provence è nientemeno che Nostradamus, che dopo esser venuto alla luce nel piccolo borgo provenzale si trasferì ben presto altrove. Ancora oggi la casa natale reca una targa in suo onore, ma non è consentita la visita all’interno. La principale attrattiva del paese, situata poco al di fuori del cuore cittadino, sono le rovine dell’antica Glanum. Glanum fu un insediamento celto-ligure che tra il II e il I sec a.C. visse sotto il dominio greco, per poi romanizzarsi nelle mani dell’imperatore Augusto. Fu Augusto a trasformare la piccola Glanum in un centro importante, dotato di foro, basilica e curia. Si narra che nel periodo di suo massimo splendore, in età romana, l’insediamento potesse competere in bellezza e imponenza con le città più ammirate del tempo, come Marsiglia, Arles e Orange: secondo gli studiosi, infatti, i resti che oggi possiamo osservare sarebbero solo una minima parte dell’antica maestosa città. Si sono conservati sino ai nostri giorni i templi dedicati alla Fonte Sacra, i resti della basilica, del foro, della curia e di altri templi. Nella parte residenziale, poi, rimangono le terme e la villa di Cybele, oltre ai resti di altre case appartenute a personaggi sicuramente ricchi e potenti.

Ma i primi monumenti di Glanum ad essere scoperti dagli archeologi, per lungo tempo considerati gli unici rimasti, sono il massiccio Mausoleo del 30 a.c. e l’Arco Trionfale, in corrispondenza dell’ingresso in città. Tutti i giorni è possibile visitare il sito, in orari diversi a seconda della stagione, pagando un biglietto che vale decisamente la pena di acquistare. Ma chi osserva gli antichi scavi non deve pensare che i ritrovamenti si limitino a ciò che vede: molti oggetti, infatti, sono stati prelevati da tempo e trasferiti all’Hotel de Sade. Il museo raccoglie una collezione straordinaria di statue, capitelli, frammenti di colonne e di fregi, suppellettili e oggetti della vita quotidiana del tempo. Non mancano poi a Saint-Rémy-de-Provence le occasioni per fare festa e divertirsi. Protagonista immancabile delle manifestazioni è il vino, a cui è dedicato in particolare il Festival d’Estate di Saint-Rémy: la festa si svolge in luglio, è completamente gratuita e dalla mattina alla sera offre la possibilità di visitare le cantine ed assaggiare i prodotti più pregiati di oltre 30 produttori locali.

Le feste popolari legate alla tradizione sono invece la sagra del bestiame, alla fine di settembre, e il festival della transumanza durante il fine settimana di Pentecoste. Raggiungere il borgo fuori dal tempo non è difficile, e le possibilità per arrivare sono varie. Trovandosi proprio nel centro della Provenza, circondato da Marsiglia, Avignone e Arles disposte a triangolo intorno ad esso, Saint-Remy è facilmente raggiungibile con molte strade locali. Il modo più veloce è prendere l’autostrada A7, uscire a Cavaillon e proseguire verso Saint-Remy servendosi delle indicazioni. Chi preferisce arrivare in aereo potrà atterrare all’Aeroporto di Marsiglia, a circa 74 km. Una volta atterrati si verrà accolti dallo splendido clima della Provenza, caratterizzato da temperature miti, brezza fresca e una luce magica. In inverno non si scende mai sino a temperature molto rigide, infatti in gennaio i valori medi vanno da 1°C di minima a 7°C di massima. In luglio invece, il mese più caldo, si va da 16°C di minima media a 29°C di massima media. Luglio è anche il mese meno piovoso, con una media di soli 5 giorni di pioggia al mese, mentre il periodo più colpito dalle precipitazioni è quello che va da ottobre a gennaio, con una media di 10-12 giorni di maltempo al mese.

LA BASILICA DI SAINT- MAXIMIN

Strettamente correlata al Convento Reale Domenicano e alla Sainte Baume, il luogo conserverebbe il teschio di Maria Maddalena e sarcofagi del IV secolo d.C. Il racconto della nostra visita.

Spesso si tende a dimenticare che i luoghi in cui ci rechiamo in visita per uno specifico motivo, sono in realtà anche ricchi di storia millenaria e di vestigia importantissime. E’ il caso di Saint Maximin, che ufficialmente ha una sua storia ben documentata a partire dall’XI secolo, ma bisogna spostarsi nella preistoria per poterne dare una adeguata collocazione. Più recente, almeno della vastità della Storia,è l’epoca gallo-romana, di cui conserva notevoli tracce. Conserva anche importanti edifici di diverse epoche,tra cui i resti di mura del XIII secolo, quand’era fortificata, le arcate del quartiere ebraico medievale, l’Hotel de Ville(il municipio), l’Hotel Dieu (del 1681, era un ospedale detto di Saint Jacques, che disponeva di personale medico e sanitario per la cura di malati e orfani; accanto vi si trovava la cappella dei Penitents bleus,che fungeva da necropoli). La città deve comunque la sua ‘fama’, innegabilmente, alle vicende legate a Maria Maddalena. Spesso lo si trova riportato come Saint Maximin-La Sainte Baume, incorporando sia la località in cui sorge la basilica con i resti della Santa di Magdala e il convento reale domenicano, sia la grotta dove leggenda narra visse gli ultimi trent’anni della propria vita. A circa trecento m di altitudine, Saint Maximin è una piana residuata dal bacino di un antico lago disseccato, circondata dal massiccio della Sainte Baume, dal Monte Aurélien e dalla Montagna della Sainte Victoire.

Qualche rapido ‘ripasso’ per inquadrare gli eventi. Secondo alcune leggende, ma anche nel breviario della diocesi di Aix en Provence, dopo la morte di Gesù,si perpetrò presto una persecuzione da parte degli Ebrei. Parecchi apostoli, assieme a Marta, Maria Maddalena, Lazzaro, Maria Salomè, Maria di Giacomo,vennero arrestati e imbarcati su una nave priva di vele e di remi che -guidata dalla Provvidenza -raggiunse le rive della Provenza (Marsiglia?).Volendo ipotizzare una situazione di disagio sociale,politico, o religioso sul tipo cui assistiamo oggi nel mondo, non ci sarebbe niente di così sconvolgente che una ‘carretta del mare’ (o una nave ‘di linea’ che solcava anche allora il Mediterraneo) abbia in verità potuto solcare i mari e, respinta o non ospitata in altre terre, abbia poi trovato accoglienza sulle coste provenzali.

Ciascuno dei personaggi avrebbe preso strade diversificate, diffondendosi a predicare la Buona Notizia di Gesù Cristo. Dopo l’Evangelizzazione di questi territori, Maria di Magdala (Maddalena) si ritirò in eremitaggio nella grotta della Sainte Baume, dove visse trent’anni in solitudine e penitenza. Avvertita dal Cielo della sua morte imminente, avrebbe ridisceso il lungo cammino ( o, secondo una leggenda, trasportata dagli angeli) per incontrare Saint Maximin, che era divenuto il primo vescovo di Aix, dal quale volle ricevere la Comunione. Il luogo del presunto incontro è ricordato come Santo Pilone (eretto nel 1483).La località sorgeva in origine nei pressi di un ‘castrum’chiamato ‘Redonas’o ‘Rodani’, sviluppato intorno alla pianura così come numerose proprietà agricole che in epoca Romana prendevano il nome di ‘Villa Lata’.

Maddalena sarebbe quindi morta tra le braccia di San Massimino (Saint Maximin) e sepolta nel punto dove oggi sorge la basilica a lui intitolata.

Non esiste documentazione attestante quanto avvenne in realtà. Abbiamo ‘solo’ quattro meravigliosi sarcofagi nella cripta della basilica:uno appartiene a San Massimino, uno a San Sidonio, uno alle sante Marcella e Susanna. E uno…a Maria Maddalena. Una ricostruzione ideale è che questi resti fossero stati venerati fin da allora e -giunti al VIII secolo (716) – per il pericolo delle profanazioni delle incursioni saracene, nascosti sotto terra,dove appunto si trovano ancora oggi, nella parte sotterranea dell’edificio. Sarebbero stati ritrovati nel 1279 da Carlo Ii d’Angiò, a quel tempo conte di Provenza e nipote del re di Francia Luigi il Santo,che nel 1254 era tornato dalla Crociata. In quel tempo, la ‘caccia’alle reliquie era fenomeno attestato e diffusissimo. Abbiamo potuto constatare come tanti luoghi si fregino di conservare un determinato ‘reperto’attribuito a un Santo, quando non alla Santa Croce, alla Madonna,a Gesù in persona (si pensi al Sacro Caliz di Valencia, ad esempio o al Sacro Catino di Genova) e via discorrendo. Possedere una di queste Reliquie significava enorme prestigio per tutte le Istituzioni Civili o Religiose che vi gravitavano attorno, con un grande coinvolgimento di fedeli e pellegrini. Allora ma anche oggi.

Vediamo invece come si è giunti a costruire questa grandiosa basilica, il più grande edificio gotico della Francia meridionale e monumento Nazionale dal 1840.

Scavi condotti tra il 1993-’94 hanno messo in evidenza un precedente edificio, paleocristiano, del V secolo, al quale era stato aggiunto un battistero, forse nel secolo seguente, che comunicavano tramite tre porte. Torna il legame con l’acqua, e la presenza del battistero attesta come il luogo fosse già consacrato al culto da tempi antichi. Il livello cui si trovava è pressappoco lo stesso di quello della cripta attuale dov’è custodita la tomba di Maddalena. Qui si trovava presumibilmente dunque anche la chiesa primitiva,sulla quale venne innalzata una chiesa. Le reliquie vennero inglobate in essa e se ne persero le tracce. Fino a che Carlo II d’Angiò venne a conoscenza della storia di Maria Maddalena e fece cercare le reliquie, facendo scavare nel punto in cui si trova la cripta oggi e le trovò. Sembra che il re -su indicazione di padre Gavoty- sia stato accompagnato in un campo vicino a Villalata, vi abbia trovato una pianta di finocchio tuta verdeggiante (queste erano indicazioni che Maddalena,in un presunto sogno, avrebbe dato a lui affinché venissero ritrovate le sue spoglie). Aiutato dai contadini, si mise a scavare scoprendo la cripta e portando in luce i sarcofagi. Carlo ordinò di far aprire quello di San Sidonio (c’è il motivo e più avanti lo scopriremo):un soave profumo si sprigionò dalla tomba,come se fosse stato aperto un magazzino di erbe aromatiche,controllò l’interno e fece fermare la procedura:per lui quelli erano i resti di Maria Maddalena. Tutto venne richiuso e fu riaperto nove giorni più tardi,alla presenza di un gran numero di persone,prelati,gentiluomini,archivisti di Arles e Aix en Provence.Tutti si meravigliarono del profumo che lo scheletro emanava:la lingua era rimasta incorrotta,seccata ma aderente ancora al palato; mancava l’osso mascellare inferiore e,pare,fossero rimasti anche dei capelli. In tale occasione viene fatto un inventario. Fu subito un evento che si ripercosse a livello civile e religioso e l’ elevazione delle reliquie avvenne nel maggio 1280. In previsione di una grande affluenza di pellegrini, pensò di dar loro degna venerazione facendo costruire una chiesa più grande, negli anni compresi tra il 1295 e il 1296, con annesso convento dei Domenicani,che non viveva di elemosine ma ricevendo dal conte stesso una sovvenzione. I lavori proseguirono fino al 1301, poi si interruppero per riprendere nel 1305.I successori di Carlo II d’Angiò, ma anche pontefici e re, pare si dessero molto da fare per portare a compimento l’opera, che non vedrà la fine che nel corso del XVI secolo. Ma la facciata, come si può notare dalla foto, è grezza, perché non fu mai terminata.

 

Bellissima la navata centrale, terminante con un’abside molto caratteristica:ha infatti sette lati. In origine il numero totale delle vetrate della chiesa era di 66, oggi ne sono rimaste 44 e, per di più, hanno perso tutto il loro valore. I vetri originali istoriati e colorati, infatti, decorati da Didier de la Porte nel 1521,sono stati distrutti durante le guerre di religione (fine XVI sec.).Oggi sono vetri incolori.

La basilica ha tre navate e straordinarie misure. La navata centrale è lunga 72.60 m e alta 29 m sotto la volta; quelle laterali 64,20 m di lunghezza, 16,60 m di altezza e 6,90 di larghezza. Ciascuna cappella è alta 10,25 m; la larghezza complessiva delle tre navate con le cappelle è di 37,20 m, mentre tra i pilastri la navata centrale è lunga 13,20 m; profondità cappelle:5,10 m. La basilica è strutturata in modo che la navata centrale conti nove campate; le laterali otto, ognuna corrispondente ad una cappella.

Il convento reale domenicano

I lavori della basilica procedettero sempre insieme a quelli del Convento Reale Domenicano,per volere di Carlo II e dei suoi successori. Questo convento doveva essere molto importante per tutti loro ed è oggetto di non pochi misteri, a nostro avviso:su richiesta di Carlo II d’Angiò, il papa Bonifacio VIII autenticò le reliquie di Santa Maria Maddalena con una Bolla dell’ 8 degli idi di aprile 1295 indirizzata al re e mandò via i monaci che lì vi erano installati fino a quel momento (probabilmente legati alla chiesa precedente):erano i monaci dell’abbazia di Saint-Victor di Marsiglia era stata fondata da Jean Cassien nel 415 d.C. (unitamente aveva fondato un Priorato della Sainte Baume, ai piedi del Pic des Beguines, in cui accoglievano sia gli anacoreti che i cenobiti, cioè monaci che vivevano in comunità). Questi monaci seguivano la Regola benedettina e a quanto sembra di capire non crearono problemi nel momento in cui venne loro ordinato di lasciare il convento, forse per evitare diatribe sconvenienti per la cittadina: Carlo II d’Angiò era pronto infatti ad usare anche la forza per ottenere il loro allontanamento, dicono le cronache! Non è strano, questo fatto? Perché voleva a ogni costo i Domenicani? Forse i monaci di Saint Victor sapevano una versione della ‘storia’ delle reliquie diversa da quella che si voleva propagandare?

Ufficialmente, Carlo II d’Angiò era in debito di gratitudine con i domenicani perché avevano avuto un ruolo importante nella sua liberazione quand’era prigioniero a Barcellona.Per questo li avrebbe voluti nel ‘suo’convento reale, di cui lui era praticamente il leader. Lui infatti sceglieva il Priore, sulla base di tre nomi che gli venivano presentati, e possiamo immaginare come quei tre nomi fossero già -presumibilmente- ‘pilotati’….Il Convento reale, di fatto, godeva di protezione speciale della Santa Sede, ed era esentato (con tutte le sue dipendenze) dalla giurisdizione dell’abate di Saint-Victor e di quella di ogni ordinario:in pratica doveva obbedire solo al proprio Priore, che però, venendo nominato dal re, era in sostanza una figura emissario del re stesso ed è ovvio non potesse decidere difformemente dalle volontà del re. Questi, infatti, decise il nome del primo priore che doveva installarsi (Guglielmo di Tonneins), decise il numero di frati predicatori che dovevano risiedere nel convento(20 monaci) di Saint Maximin e quelli da insediare alla Sainte Baume (4 monaci) e non solo: il papa stabilì che questo priore dovesse prendersi cura delle anime e del territorio senza essere sottoposto ad alcuna giurisdizione diocesana e senza obbligo di rendere alcun conto;ordinò (con apposita Bolla) che il re potesse visitare il convento quando lo desiderava e che, addirittura, il Priorato era in possesso del re Carlo II, rappresentato dal vescovo di Sisteron, Pietro di Lamanon. Ma c’era qualcos’altro che apparteneva al re, insieme al priorato e al convento, agli edifici, le pertinenze, i terreni, etc.: le reliquie della benedetta Magdalena e dei santi di Provenza. Chi avrebbe contravvenuto a queste disposizioni papali sarebbe stato scomunicato.

La Bolla venne letta il 20 giugno 1295, nella primitiva chiesa di Saint Maximin davanti all’altare di San Michele, alla presenza di molti testimoni. Ingenti somme venivano regolarmente versate ai domenicani per la prosecuzione dei lavori del convento e della basilica, per il loro mantenimento e sostentamento. Nonostante tutto, si dimostrarono a più riprese insufficienti, costringendo l’arresto dei lavori per periodi di tempo più o meno lunghi. Naturalmente si pensò alla costruzione di ambienti idonei ad alloggiare visitatori di spicco (soprattutto monarchi), che volevano venerare le reliquie della santa Maddalena e gli altri Santi provenzali. Attualmente, in quell’antico Ostello reale, risiede il Palazzo di Città o Municipio(dal 1796) ,che affaccia sulla stessa piazza della basilica.

Il convento era dotato di tutti i locali propri di un monastero, che facevano corona attorno al chiostro, che risale al 1434-’80 circa. Il re Renato ampliò a 48 il numero di frati (anzichè 24) e fondò un Collegio Teologico, filosofico, canonico per giovani religiosi del convento, con motivazione di ‘incrementare la gloria e l’onore di santa Maddalena’ definita dal re ‘secretariam et solam apostolam J.Christi’ (1476). Un bel riconoscimento per la figura di Maddalena, che l’agiografia ufficiale ci ha sempre mostrato come una peccatrice redenta…!

Questa situazione privilegiata del convento reale di Saint Maximin restò invariata per secoli;ad essa ricorsero sempre i frati quando v’era necessità di far valere i loro diritti acquisiti.

I Frati Predicatori animarono l’esistenza del convento e molti di essi presero parte attiva alla costruzione. Alcuni dei più bei lavori sono tutt’oggi apprezzabili all’interno,come lo stupendo pulpito ligneo scolpito, opera di padre converso Luigi Godet (finito nel 1756) su cui è rappresentata tutta la storia di Maria Maddalena convertita, abbigliata secondo i costumi del tempo del re Luigi XV. Altro manufatto conosciuti in tutto il mondo per la sua magnificenza,è l’organo(1773) eseguito da fra Giovanni Spirito Isnard, domenicano del convento di Tarascona, che era uno dei più abili organari dell’epoca. Sculture eseguite dai frati si trovano nel coro, che conta ben 94 stalli lignei; tra di esse, quelle del frate converso Vincenzo Funel. Diremo anche che non mancano gli artisti italiani che hanno partecipato, con diverse loro opere, all’arricchimento della basilica stessa.

Le vicende subite dal convento nel proseguo del tempo sono molto variegate:venne anche distrutto dalla popolazione -in parte- perché serviva materiale per ricostruire le mura cittadine, distrutte dalle incursioni del 1357;una perdita che pare costò al convento 8.000 fiorini! Nel 1590 una Congiura fece assediare il convento di Saint Maximin che venne risparmiato, insieme alla chiesa di Santa Maddalena, per intercessione del priore;ancor oggi si vedono i segni delle cannonate che tentarono di aprirsi un varco nella basilica. Con la Rivoluzione francese, i domenicani vennero scacciati (alcuni andarono all’estero,altri rinunziarono alla vita comune,rimanendo sul territorio) e il grande refettorio dei monaci venne adibito a sala per spettacoli! Nel 1793 (nel periodo del Terrore ) le celle dei monaci furono adibite a prigioni per i rei sospettati di avversione al regime e il piccolo refettorio divenne un ‘club’ rivoluzionario locale. Nel 1796 gli edifici monastici furono venduti, e una parte di essi venne occupata da abitazioni private; molta parte andò verso l’abbandono e le profanazioni. Le cronache descrivono una situazione desolante. Come alla Sainte Baume, anche qui arrivò in ‘soccorso’ padre Henri Lacordaire, il quale definì questo luogo ‘il Terzo Sepolcro della Cristianità’ dopo Gerusalemme e Roma (nella sua opera ‘La Vita di Santa Maria Maddalena’).Egli ricomprò nel 1859 tutti i locali del convento, riportandovi anche i domenicani, i quali restarono qui fino al 1957, quando decisero di trasferire la Scuola di studi teologici a Tolosa e decisero di vendere il convento(2).Questa Scuola era divenuta un centro importante di cultura intellettuale,artistica e poetica, riuniva il Centro di formazione e studi della Provincia di Tolosa.Su decisione del Maestro dell’Ordine dei frati Predicatori si decise di trasferire il tutto in detta città.

Un altro pozzo, attualmente esterno agli edifici conventuali, si trova nei pressi dell’Ufficio del Turismo,che oggi è l’unica via di accesso per visitare il chiostro; è protetto da una grata e appare molto profondo. Un tempo faceva parte dell’Antico Collegio e si doveva trovare attiguo al refettorio(come da pianta generale):

Maria Maddalena a Saint Maximin

Potremmo sinteticamente ‘riassumere’ in tre punti essenziali la presenza di Maddalena nella basilica (reliquie, sculture, dipinti), tuttavia mancheremmo di obbiettività in quanto la sua figura troneggia ovunque. E’ lei la protagonista assoluta di questa chiesa. Entrando nell’edificio, dopo che la bocca rimane per un buon lasso di tempo aperta per lo stupore suscitato dalla maestosità,dalla bellezza e dalla linee austere e slanciate che i costruttori hanno saputo imprimerle, si vedrà immediatamente l’abside, in fondo alla navata centrale, caratteristico perché formato da sette lati aperti da una doppia fila di vetrate. Qui si trova l’altare maggiore in marmo prezioso, con medaglioni d’oro;è sormontato da un’ urna in porfido rosso eseguita dallo scultore italiano (romano) Silvio Calce, che contiene le reliquie di S.Maria Maddalena. Più precisamente, dovremmo dire ‘conteneva’ perché andarono disperse nel 1793. L’urna fu donata dall’arcivescovo di Avignone a Santa Maria Maddalena per riporvi le sue reliquie,e fu benedetta da papa Urbano VIII nel 1634. Furono deposte in loco alla presenza del re Luigi XIV e della corte il 5 febbraio 1660.

L’urna è sormontata da una stata bronzea di Maddalena eseguita da Alessandro Algardi.In precedenza,le reliquie della Maddalena venivano esposte al pubblico durante le sue feste, in particolare il 22 luglio, sua ricorrenza, sicuramente dentro un altro reliquiario.

Molte le raffigurazioni di Maria Maddalena nell’abside, sia nei dipinti che negli stucchi, in diversi momenti della sua vita terrena: in tre diverse tele di Boisson, la vediamo -centralmente- alla Sainte Baume, a sinistra al Santo Sepolcro (vuoto perché Gesù è Risorto);a destra penitente. Vi sono inoltre altre raffigurazioni della Santa: a sud del presbiterio un bel bassorilievo in cui è ritratta mentre assume la Comunione da San Massimino (a destra) del Lietaud, e a nord Maddalena in estasi (Rapimento di Maria Maddalena),di autore ignoto.Il marmo proviene da Roma. Sovrasta l’altare con l’urna, una scintillante Gloria in gesso dorato dove, tra un coro di angeli, emerge la SS.Trinità sotto forma di colomba bianca (dempre del Lietaud, nativo de La Ciotat, località costiera non distante,che fu allievo del Bernini e discepolo di P.Puget).

Molto bello è anche l’altare ligneo detto della Passione,di Antonio Ronzen (scuola veneziana), situato nell’abside della navata nord. Opera del XVI secolo, raffigura diciotto medaglioni scandenti le scene della Passione di Cristo, che ‘convergono’ verso la scena che domina la parte centrale, la Crocifissione, in cui ai piedi della croce,in un abbraccio doloroso e passionale, c’è Maria Maddalena. Figure angeliche raccolgono il sangue di Cristo in tre calici:uno da quello che zampilla dal costato,due da quello sgorgante dai polsi. La scena in cui si svolge la narrazione evangelica, non è riferita a quella consueta del Golgota, ma si vede una cittadina costiera (notare le vele che solcano l’acqua), probabile allusione all’Apostolato provenzale di Maria Maddalena. La figura a destra, per chi guarda, racchiude un piccolo mistero. Per tempo fu ritenuto un priore del convento di Saint Maximin, padre Damiani, mentre si è appurato che si tratta del donatore di questo altare, il signore di Semblançay, Giacomo di Beaume.

Rappresentazione (di fr. Gudet) di Maria Maddalena nella cappella omonima:l’immancabile Calice nella sua mano destra. Il dipinto si trova su un armadio detto delle reliquie. Si trova di fronte alla cripta.Gli armadi sono due e hanno avuto sempre la funzione di conservare preziosi reliquiari, tanto che un inventario eseguito dopo il saccheggio del 1793, durante la Rivoluzione, cita un peso di 800 chili di reliquiari! Attraverso la cappella successiva,procedendo lungo la navata laterale sinistra, si poteva accedere anticamente direttamente al convento;oggi vi sono delle fotografie della vita comunitaria dei Domenicani quando si trovavano nel convento reale.

La cripta ipogea è il monumento più antico della Provenza, secondo una tradizione, noto come oratorio di Saint Maximin, primo vescovo di Aix en Provence e compagno di esilio e di apostolato di Maria Maddalena.Secondo gli storici, questo era un monumento funerario di epoca gallo-romana.La tradizione situa davanti a questa cripta la dipartita della Santa Maddalena, dopo aver ricevuto la Comunione dal San Massimino. Sarebbe poi stata interrata,insieme a lui alla sua morte, proprio qui. Su un pieghevole distribuito nella basilica, abbiamo trovato un accenno al fatto che la basilica sorga su un sito religioso merovingio, di cui non sappiamo però altro.

Scendendo la prima rampa di scale d’accesso,sulla destra si nota una statua di Maddalena sul masso della penitenza, con accanto il Calice. La croce ha una corda incrociata a formare una X, nel punto di intersezione.

Ricorderemo come questo luogo,così come la grotta della Sainte Baume,è meta obbligata di ogni Compagnons, cioè i Compagni di Dovere, attivi in Francia come Gilda di Mestiere itinerante, che si rifà alla leggenda di Hiram e usa simboli massonici, come abbiamo visto parlando delle vetrate della Sainte Baume. Maddalena è la loro santa protettrice, e il loro ‘tour’ iniziatico ha come penultima tappa la basilica in cui ci troviamo (per poi terminarlo alla Sainte Baume). Secondo la loro simbolica, Maria Maddalena simbolizza la progressione lenta che, durante tutta una vita seminata di successi e di fallimenti, permetterà all’iniziato di scoprire poco a poco il senso della sua esistenza.E’ qui che lasciano firme e sigilli del loro passaggio, e a loro sembra essere attribuito il ricorrente graffito di un ‘ferro di cavallo’, che abbiamo rilevato infatti copiosamente, sulla parete destra della balaustra, dove c’è la statua di Maddalena vista sopra.Tali simboli -che dovrebbero rivestire un intento simbolico preciso per i Compagnons de Devoir- sono purtroppo mischiati a segni non ben decifrabili e afinalistici lasciati molto probabilmente dai solit’ buontemponi’ nel corso del tempo.

Nonostante ci si renda conto che la leggenda ha il suo fascino,e che non ne vorremmo restare vittime,ci arrendiamo:trovarsi in questo ambiente è altamente suggestivo. Sopra di noi la basilica superiore, edificio imponente e vastissimo; la cripta è così intima, piuttosto ristretta, antichissima e ‘sacra’, perché fin da tempi remoti luogo scelto per sepolture, e poi non dimentichiamo che qui c’era la presenza dell’acqua e del battistero paleocristiano. Maddalena è come una goccia in un Culto primigenio.

La volta fu ricostruita, non è originale, ma risale al tempo della costruzione della chiesa superiore. All’interno della cripta si trovano 4 sarcofagi datati al IV secolo, di magnifica fattura e riccamente istoriati, destinati a personaggi illustri. A sinistra sono allineati quello di Saint Maximin, e quello di Santa Susanna e Marcella (sepolte insieme);a destra quello di San Sidonio. Di fronte, centralmente, c’è quello di Santa Maria Maddalena, che funge anche da altare, su cui è posto un reliquiario dorato contenente il suo teschio. Tutti i reperti sono protetti da vetri chiusi.

Nel reliquiario(opera di Revoil del XIX secolo) che racchiude il teschio, è inserito un cilindro di cristallo, chiuso da entrambi i lati da sigilli d’argento dorato, contenente il brandello di carne (o tessuto osseo) della fronte della Maddalena, quello che, secondo il Vangelo, Gesù avrebbe toccato il mattino della Resurrezione, pronunciando le parole ‘Noli me tangere’. Nel febbraio 1789 una ricognizione sui resti avrebbe fatto staccare queste reliquie, oggi visibili in questo cilindro. Sono state datate queste componenti organiche?A che epoca risalgono?Domande che per ora non hanno risposta;non abbiamo trovato nemmeno una menzione in loco. Speriamo di ricevere ulteriori nozioni in merito da chi ha potuto approfondire il mistero. Unico elemento utile è che i reperti ossei depongono per un’età della donna di circa 50 anni al momento della morte,e che era di origine mediterranea. Secondo il Vangelo di Filippo,apocrifo,Maddalena sarebbe morta a circa 60 anni d’età,nel 63 d.C. circa.

Il sarcofago attribuito a Maria Maddalena è stato datato al IV secolo e il marmo di cui è costituito è stato analizzato nel 1953 in un’indagine condotta dal prof.Astre,della Facoltà di Scienze di Tolosa ed è risultato un materiale rarissimo proveniente dalla cave imperiali di marmo del mar di Marmara,vicino a Costantinopoli.Non è quindi in alabastro, come si credette per secoli ma ugualmente di enorme pregio e finezza. Questo marmo veniva trasportato a Roma (o ad Arles per la Provenza) e lavorato per essere impiegato nella statuaria nobile o illustre. A chi dunque fu originariamente destinato questo manufatto?

All’interno della vetrata che protegge le sante reliquie di Maddalena,sulle pareti laterali si vedono quattro lastre lisce, che recano incise delle figure e delle scritte in latino. Si suppone che siano del V-VI secolo e sono state identificate come altrettante figure citate nell’ Antico Testamento:il sacrificio di Abramo, Daniele nella fossa dei leoni, la casta Susanna(o un’orante?) e, dal Nuovo Testamento, la Vergine Maria Bambina.

Interrogativi irrisolti

Ricorderemo infine, per completare il quadro,poichè a noi piace ‘capire’ quanto abbiamo di fronte, ciò che abbiamo già avuto modo di accennare nella sezione dedicata alla Sainte Baume. La basilica di Saint Maximin è meta di pellegrinaggio da secoli e lo è tuttora, per la presenza delle reliquie di Maria Maddalena o di Magdala. Un’altra abbazia, però, quella di Vezelay, in Borgogna, dichiara di averle in custodia.Da dove arrivavano? I fatti risalirebbero all’XI secolo (1049), quando l’abate Geoffrey de Roussillon, dichiarò di esserne entrato in possesso, convincendo il papa Leone IX a porre il monastero sotto la protezione della Santa Maddalena. Da allora, sarebbe iniziato un culto intensissimo verso l’abbazia borgognona, stuoli di fedeli e pellegrini vi si recavano per venerare le reliquie della Santa. Storicamente nulla è accertabile, anzi pare che gli studiosi concordino nell’affermare che fosse stata un’ iniziativa dell’abate per incrementare il prestigio delle propria abbazia. Comunque, in questa prospettiva, Vezelay sarebbe stata il punto di partenza del culto maddaleniano in Francia. E Saint Maximin, allora?

Il ritrovamento delle supposte reliquie da parte di Carlo II d’Angiò risale al 1279, oltre duecento anni dopo l’avvio del culto a Vezelay. O la storia leggendaria ha delle ‘falle’ non colmate, oppure i conti non tornano.

Ammettendo che anche a Saint Maximin si sia sviluppato un culto parallelo a Vezelay, dove si trovavano le reliquie della santa o quelle venerate come tali?
Si è detto: ‘nascoste’ fin dall’VIII secolo (per proteggerle dai saraceni) nel punto in cui si trovano ancor oggi (cripta) e però genericamente ‘dimenticate’. Com’è possibile?
Qualcuno doveva saperlo, forse proprio quei monaci benedettini che già erano insediati a Saint Maximin, molto prima che Carlo II d’Angiò scoprisse i presunti resti della donna di Magdala e desse avvio al suo culto incessante. Cosa sapevano i monaci al riguardo?
Chi aveva parlato a Carlo II delle presunte reliquie a Saint Maximin? E perché lui sapeva che si trovavano nel sarcofago di San Sidonio? Qualcuno lo aveva informato.
Perché il conte di Provenza angioino Carlo II (che era anche re di Gerusalemme e di Sicilia,duca di Puglia e principe di Capua come si legge nel suo stemma personale) volle allontanare a ogni costo i benedettini, mettendo al loro posto i domenicani? Anche con la forza, se necessario?
I monaci precedenti conoscevano bene il luogo e presumibilmente le sue vicende:avrebbero potuto ‘mandare all’aria’ i suoi piani di trasformazione della Provenza in una meta privilegiata per il pellegrinaggio a Maddalena? Perché?
Sapevano non essere quelli di Maddalena oppure non desideravano affatto che venisse reso noto un culto che avrebbe potuto scompaginare la tranquilla vita monastica che avevano scelto di fare?
Già, ma il culto di chi? Sembra che vi fosse un’iscrizione che citava roi Eudes,e si suppose fosse Eudes d’Aquitania ma egli regnò in Francia nel 710…Non poteva essere, la data era troppo tarda!(e qualche secolo dopo, quando la scienza cominciò a contestare l’appartenenza delle reliquie di Maria Maddalena, l’iscrizione scomparve).Di nuovo venne apposto il coperchio al sarcofago,vennero messi i sigilli.Il 6 maggio 1280 Carlo II d’Angiò fece riaprire di nuovo la tomba per prelevare le ossa di Maddalena e riporle in differenti reliquari e si ebbe una sorpresa:venne trovata un’altra iscrizione dentro il sepolcro, non molto leggibile che diceva:”Qui riposa il corpo di Maddalena (Ici repose le corps de Madeleine).
Da dove spuntava quella seconda iscrizione? Per colmo della peculiarità, un testimone(Bernard Gui) disse trovarsi all’interno di un globo rivestito da cera molto vecchia.
Gli studiosi hanno convenuto che questo monumento funebre apparteneva ad una ricca famiglia cristiana gallo-romana o merovingia.
Adesso non ci si dica che qualche lettore possa avere la classica ‘idea lampante’ in testa e che colleghi Merovingi con la saga del Graal inteso come Sang real,cioè la fantomatica stirpe originata da Gesù e Maddalena (tesi sostenuta da alcuni libri di straordinario successo ma priva di fondamento,almeno secondo la storiografia ufficiale).Fantomatica non tanto:i Merovingi sono certamente una dinastia reale che ha regnato in Francia.E’ fantomatico il fatto che sia potuta originare dai nostri due divini personaggi. Sento già che qualcuno sussurra che Maddalena potrebbe aver partorito in Provenza,e lei e la sua discendenza sepolta appunto a Saint Maximin,un segreto che se fosse autentico avrebbe certamente indotto a tanta venerazione, nonché alla massima segretezza. Se fosse, però. Ma manca qualsiasi certezza.

Carlo II d’Angiò aveva altre mete. Tutto si sarebbe svolto esattamente come era successo secoli prima a Vezelay: portare certi luoghi ad un elevato livello di importanza religiosa e civile con una mossa ‘politica’ degna di re o di persona potente che dir si voglia. Fossero o non fossero le reliquie di Maria di Magdala, l’operazione doveva svilupparsi come da progetto. L’affluenza dei pellegrini fu, come entrambe le città di erano prefisse, fin dal principio immane.

Secondo altre fonti, l’abate di Vezelay,nel 1049, sarebbe venuto a Saint Maximin per prendere le reliquie di Maddalena e trasferirne il culto là ma i suoi resti sarebbero stati messi, nel frattempo, nel sarcofago di un altro Santo, Sidoine (o Sidonio),che ancora oggi si trova nella cripta della basilica di Saint Maximin. Quando l’abate di Vezelay nel 1049 venne per prelevarle, volendone trasferire il culto in quella Abbazia, portò via quelle di San Sidonio e non quelle di Maddalena, che sarebbero ancora qui a Saint Maximin, indisturbate. Dunque in questo caso i sarcofagi comunque erano noti, si sapeva della loro esistenza, non potevano essere interrati! Quindi Carlo II d’Angiò che necessità aveva di farli scavare? Forse nel frattempo (dal 1049 al 1279 per capirci…) erano stati sotterrati nuovamente? Per timore che l’abate di Vezelay magari tornasse, resosi conto(ardua impresa!) dello ‘scambio’ e della presa per il naso, e reclamasse le reliquie ‘autentiche’? Prossimamente ci piacerebbe recarci anche all’abbazia di Vezelay, per renderci conto di come è vissuta la vicenda (e cosa si dice) in merito alle venerate reliquie di Santa Maria Maddalena. Un dato è certo e documentabile:in Provenza esiste un vero culto per Maria Maddalena;sulle guide turistiche si danno per scontate cose che in Italia stentano ad essere chiarite o sottolineate,come il fatto che Gesù avesse anche delle donne tra i suoi Discepoli alcune delle quali lo seguirono fino alla sua morte in croce. Tra di loro Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Maria Salomè. Che evangelizzarono esattamente come i loro compagni maschi, gli Apostoli. A ciò deve aggiungersi un’altra leggenda, che vorrebbe Maria Maddalena sbarcare non a Marsiglia ma a Saintes Marie de Ratis, cioè Saintes Maries de la Mer, ma questa è un’altra storia, che racconteremo a parte, perché dobbiamo spostarci in Camargue!

Ci pare che esista una gran commistione di interrogativi e poche certezze. Ma come diciamo spesso in casi come questi, in cui la ‘reliquia’ è uno degli aspetti fondamentali per una religione, il parametro con cui si può osare di trovare una giustificazione è l’atto di fede, spontaneo, incessante. Esso non vuole compromessi:è volontà di seguire un proprio bisogno di credenza, nè può venire troppo a lungo manipolato. Forse Vezelay o Saint Maximin hanno solo fatto riaffiorare un culto ancestrale che esisteva dalla notte dei tempi. Andava solo rivestito di una matrice cristiana cattolica. Forse, è solo un’ipotesi.

 

 

Cannes

Cannes sembra essere fatta di sfarzo: è nei sontuosi alberghi che si ergono sul lungo mare, negli eleganti suppellettili dei caffè all’aperto, è nelle vetrine di negozi lussureggianti, nella scintillante mondanità che popola i locali notturni. A Cannes, perfino le palme hanno un’aria aristocratica quando sventolano mosse dalla brezza.

C’è veramente poco di provenzale in questa città che conta 75.000 abitanti e si distende imponente sul Mediterraneo. Più che altro sembra di essere in via Montenapoleone a Milano, l’unica differenza è che se svolti l’angolo, invece di via Manzoni, c’è lo splendore del mare. Il mito di Cannes risale al 1834 quando Lord Brougham, colpito dalle bellezze del luogo, comincia a promuoverla come luogo di vacanza. Da quel momento, il piccolo villaggio di pescatori, di cui oggi non rimane più traccia, diventa una città e contemporaneamente un esclusivo luogo d’incontro per artisti, capitalisti, politici, aristocratici. A Cannes si ha l’impressione di essere capitati nel bel mezzo di un grandioso appuntamento mondano: è questo il fascino che da più di cento anni questa città continua a esercitare. Non c’è un periodo ideale per essere qui in riviera, la vita non si ferma mai, nemmeno in inverno. In ogni caso la città offre il meglio di sé in estate, quando il porto è pieno di yacht, tutti i locali sono aperti e le vie sono affollate da una moltitudine di visitatori. Indicata sia per un breve soggiorno, sia per una vacanza più lunga, Cannes gode di un clima particolarmente temperato, pertanto è meglio mettere in valigia indumenti leggeri. Calzoncini e t-shirt, però, non saranno sufficienti: per sentirvi a vostro agio in questo ambiente così esclusivo è necessario avere in valigia almeno qualche abito elegante da indossare nelle ricche serate cittadine. Non abbiate paura di dimenticare qualcosa, nei negozi di Cannes si può trovare di tutto, anzi forse l’unica cosa che vi sarà veramente utile è una valigia vuota dove mettere tutti gli acquisti, ovviamente se avete un budget sufficiente. In città c’è più da fare che da vedere. Si può passeggiare sul Boulevard della Croisette, un lungo viale che costeggia la baia sempre colmo di gente, caffè all’aperto e negozi d’artigianato; arrostirsi al sole su spiagge dotate dei migliori confort; oppure prendere il traghetto che porta all’isola di Sainte Margherite, dove spiagge meno frequentate e un bosco di eucalipti vi permetteranno di allontanarvi per qualche ora dalla frenesia che caratterizza Cannes. Ma l’attività che distingue questo luogo di vacanza è spendere soldi. Potete scegliere fra una sterminata gamma di prestigiose boutique dove acquistare i più esclusivi articoli di lusso, oppure tentare la fortuna nei numerosi casinò, come il casinò Croisette o Le Carlton Casinò entrambi sul boulevard principale. A Cannes è essenziale conservare un po’ di energie e risorse da spendere durante le sfavillanti serate che animano la città. Bar, club e discoteche come L’Atelier (Pointe Coisette) dotato di una affascinate terrazza, o Le Baoli (Port Pierre Canto) frequentato da VIP e modelle, o ancora L’Amiral (Hotel Martinez, 73 Boulevard de la Croisette) uno dei preferiti fra i protagonisti del Festival di Cannes, danno vita a serate esclusive. Per chi non si accontentasse dello splendido mare, dello shopping e della vita mondana, la città della Costa Azzurra è in grado di offrire attrattive artistico – culturali di sicuro interesse.

Potete visitare la fortezza dell’Ile Sainte Margherite nella quale secondo il racconto di Dumas sarebbe stato imprigionato Maschera di ferro, e che ora ospita il Museo Marittimo in cui sono raccolti i reperti rinvenuti nei fondali della baia di Cannes, oppure la Cappella e Museo Bellini (Parc Fiorentina, 67bis), una piccola chiesa in stile barocco costruita nel XIX secolo che ospita numerosi lavori del pittore Manuel Bellini, o ancora La Malmison (Croisette, 47), un edificio che risale al 1863 in cui sono raccolti numerosi dipinti d’arte contemporanea. Più moderno, ma ugualmente interessante è Le Palais de Festival, dove oltre al festival del cinema, si tengono diversi concerti musicali e eventi teatrali. Cannes è una città ricca di eventi, ma quello che l’ha resa famosa è il rinomato Festival del Cinema che si tiene ogni anno a maggio. Inaugurato nel 1946 ha continuato a esercitare il suo fascino nel tempo richiamando attori, registi da tutto il mondo. Oggi è forse la manifestazione più esclusiva per presentare la propria opera cinematografica

 

Eze

Inerpicandosi per i tornanti d’oro del suo nero percorso, per riprendere i termini di Stephen Liégard, l’inventore dell’espressione Costa Azzurra, che il visitatore arriva ad Èze, lasciando alla sua sinistra il Sentiero di Nietzsche. È durante l’ascensione che il filosofo compose uno dei capitoli di Così Parlò Zarathustra.IMG_5421

All’entrata del villaggio, la Postierla del XIV secolo, nonostante i segni del tempo e le offese saracene e francesi, sembra ancora attendere gli eventuali assalitori. Un cannone del XIV secolo protegge la prima porta ad arco pieno. Dei merli tradiscono la presenza di bertesche sul cammino di ronda, raggiungibile da una scala situata proprio dietro la seconda porta, coronata da un arco spezzato.IMG_5457

Per meglio scoprire Èze bisogna lasciarsi guidare dall’istinto, fidarsi degli aromi di un gelsomino per trovarsi in uno dei suoi vicoli inondati di sole, su frammenti del muro risalenti all’età del bronzo, di fronte ad oggetti in ferro battuto minuziosamente lavorati ai quali si aggrappa un’indisciplinata camelia o di fronte a pitture a trompe l’œil come le false persiane su di una facciata della Via Principale.

Tra tutte le case del villaggio, quella dei Riquier in Piazza Pianeta, si distingue per la porta ornata di bassorilievi. I Riquier, originari di Nizza, furono tra i primi signori di Èze, ed il villaggio fu il loro più antico feudo fuori Nizza. La loro dominazione durò da XIII al XIV secolo. Nel 1930, uno degli ultimi proprietari di Casa Riquier ha collocato la Fontana all’italiana, il cui rifornimento idrico restò per molto tempo a carico delle cisterne del villaggio. Bisognerà attendere fino al 1952 perché l’acqua arrivi alle case.

Èze accoglie altre notevoli dimore, e in particolare lo Château de la Chèvre d’Or (Castello della Capra d’Oro) e lo Château Èze, antica residenza del principe Guglielmo di Svezia dal 1923 al 1953.

I pianterreni, trasformati in boutique e in atelier di artisti, servivano un tempo da cantine per i vini, o da stalla per il bestiame. Bisogna immaginare questi vicoli percorsi dagli asini di ritorno dai campi terrazzati della vallata dell’Aighetta, o di San Lorenzo d’Èze, carichi di fichi, di carruba, di olive e di agrumi quali i mandarini di Èze.

Centenario dell’unione di Èze alla Francia

La cappella della Santa Croce, conosciuta anche con il nome di “Cappella dei Penitenti Bianchi”, datata 1306, sarebbe il più antico edificio del comune.IMG_5458

È là che si riunivano i membri dell’ordine laico della Confraternita dei “Penitenti Bianchi” di Eza, incaricati di portare l’assistenza del villaggio alla Provenza fino alla fine del XIV secolo. In questa cappella, tra il 15 e il 16 aprile del 1860, gli abitanti votarono all’unanimità il ritorno del loro villaggio alla Francia. All’interno raccoglie oggi un ricco mobilio, e in particolare un crocifisso attribuito a Ludovico Brea.

La facciata spoglia della Chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione, iniziata nel 1764 e consacrata nel 1772, contrasta con la magnificenza della navata e del coro, che si caratterizzano per gli ornamenti barocchi e le pitture trompe l’œil (pitture che ingannano l’occhio). All’interno, una croce egiziana ricorda che Èze (in latino Isia) affonda le sue radici nei misteri della dea Iside. Secondo la tradizione i Fenici vi avrebbero eretto un tempio in suo onore. Nel piccolo cimitero disposto sulle terrazze di fronte alla vallata dell’Aighetta, riposa dal 1974 l’attore e umorista Francis Blanche.

In vetta al villaggio, a 429 metri sul livello del mare, si può gustare uno dei panorami più eccezionali della riviera. Il profilo dei cactus e le vestigia del castello si stagliano nel cielo.IMG_5433 Queste ultime testimoniano lo zelo con il quale i soldati di Luigi XIV smantellarono questa fortezza quasi circolare disposta su vari livelli. Il Giardino Esotico, creato nel 1949 dall’ingegnere agronomo Jean Gastaud, raggruppa un centinaio di varietà di piante. Le sue agavi, aloe, euforbie e cactus (tra i quali l’Opuntia, con le sue spine traslucide che riflettono la luce mediterranea) s’incrociano e si riproducono in mezzo a queste aride rovine che sembrano illustrare a loro modo il motto del comune: Moriendo Renascor (Morendo Risorgo).

Storia

Come il resto del litorale delle Alpi Marittime, il territorio del comune d’Eza (Èze ed Esa) è occupato sin dai tempi antichi.

Il monumento più rimarchevole è quello del Monte Bastida (Mont-Bastide) che sovrasta Beaulieu-sur-Mer e la baia di San Giovanni, su uno sperone roccioso che costeggia la Cornice Grande (Grande Corniche).

La tradizione locale, fondata sulle elucubrazioni degli eruditi del XIX secolo ed inizio del XX, ne fece una fondazione fenicia, un palazzo miceneo od un oppidum ligure risalente alla prima Età del ferro.

Le ricerche recenti hanno permesso di mettere in luce un grosso borgo agricolo protetto da una solida cinta muraria, la cui organizzazione urbana è molto chiusa. Grandi abitazioni in pietra secca che sostengono un piano, s’organizzano attorno ad una grande via che attraversa il villaggio da una parte all’altra. Il piano terra (pianterreno) di ogni casa ricovera strutture od impianti di pressaggio, destinate alla produzione domestica del vino o dell’olio d’oliva.

Le tracce d’occupazione più antiche rimontano al I secolo a.C., ma il periodo più forte d’attività si situa tra l’epoca d’Augusto e quella dei Flavi.

Bruno Richerii, cavaliere, originario di Nizza, vicario di Hyères nel 1328, fu cosignore d’Eza. Come per i Badat, il gentilizio Richerii, antico casato consolare nizzardo, sarebbe stato nobilitato nel XIII secolo, grazie alla sua ricchezza e per il favore dei Genovesi che tale famiglia supportava[4]. Famiglio del re Roberto d’Angiò, Bruno era il figlio di Giovanni Richeri (Jean Riquier), cosignore d’Eza, e di Beatrice Badat.

Nel 1333, con suo fratello Marino, possedeva una parte della signoria d’Eza, mentre alcuni anni più tardi, la parte di Marino sembrava esser passata nelle mani di Bruno. Secondo A. Venturini, egli avrebbe avuto per successore suo figlio, Onorato, cosignore d’Eza.

Il 24 luglio 1316, re Roberto d’Angiò domandò al siniscalco di rimettere, se vi fosse stato posto, Bonifacio Richieri, detto Bruno, figlio del defunto Giovanni Richeri (Jean Riquier) d’Eza, ed i suoi fratelli, nel possesso dei castelli di Mentone e di “Pepino” e di far cessare il disturbo che era loro apportato da Balianus Ventus e “consortes sui”.

Il 27 maggio 1348, il fratello del sotto-vicario d’Aix nel 1325 e del vicario di Grasse dal 1340 al 1341, Giovanni, Luigi Rebuffelli fu nominato castellano d’Eza[8]. Onorato Richerii, vicario di Hyères nel 1376, succedette a Bruno e divenne cosignore d’Eza[9].

Dopo il periodo altomedievale di appartenenza di Eza alla Provenza, il paese passa alla Contea di Savoia nel 1388, e da quel momento storico seguirà il destino del Ducato di Savoia.

Epoca moderna[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1543, Eza subisce l’offensiva della flotta ottomana di Solimano il Magnifico, alleato di re Francesco I di Francia, e durante i secoli XVII nel XVIII, durante la sua appartenenza al Regno di Sardegna e Piemonte, il villaggio sarà occupato e devastato più volte dall’esercito francese.

Il comune di Eza ha seguito quindi, con tutta la contea di Nizza, fin dal 1388, le vicende storiche prima della Contea di Savoia e del Ducato di Savoia, e poi dopo il Congresso di Vienna, dal 1815 al 1860, le sorti del Regno di Sardegna e Piemonte, per essere poi annesso nel 1861 alla Francia.

 

La cucina Provenzale

La cucina francese è diventata famosa in tutto il mondo e, oggigiorno, i ristoranti francesi sono ormai presenti in quasi tutti i continenti. Tuttavia, la varietà e la creatività dei piatti tipici restano una prerogativa del paese in cui questi sono nati! In Francia, ci sono molte regioni che propongono diverse specialità e vari prodotti locali. In questo articolo, ci soffermeremo sulla cultura del cibo della Provenza nel Sud della Francia, zona che offre una gastronomia davvero particolare rispetto alle regioni del nord e del centro. In Provenza, le possibilità in cucina sono infinite, e questo grazie ad un clima mite e a una zona invidiabile che permette agli abitanti di gustarsi pesce fresco, carne, frutta e verdura tutto l’anno (e non dimentichiamo l’influenza degli altri paesi del Mediterraneo).IMG_5221

 

Marsiglia e la bouillabaisse

Tradizionale bouillabaisse con rouille a Marsiglia

Il piatto tipico più famoso dell’intera zona è forse la bouillabaisse di Marsiglia, la gustosa zuppa o stufato dalle molte varianti. Secondo la maggior parte delle ricette provenzali, la bouillabaisse deve contenere almeno tre tipi di pesce locale, come il pesce ragno, la gallinella di mare, il grongo europeo, lo scorfano rosso e un paio di pesci nobili, ad esempio il pesce San Pietro o la bottatrice.

A Marsiglia, la bouillabaisse viene servita in un modo molto particolare: brodo di pesce con un po’ di rouille (una salsa provenzale piccante e al gusto di pesce) versato su crostini o pane, e in un piatto a parte il pesce saltato in olio d’oliva con altra rouille. Il pesce è spesso accompagnato da vino bianco, ma la Provenza è invece famosa per i suoi tipici vini rosati. Per saperne di più sui vini della regione e sulla vendemmia annuale cliccare qui.

Piatti e prodotti provenzali

 

Calissons d’Aix in Provenza

Anche se Marsiglia e la bouillabaisse sembrano costituire l’esempio più famoso della cucina provenzale, in realtà quasi tutte le città della Provenza sono associate a un prodotto o a un piatto specifico. Ad esempio, Mentone viene associata ai limoni, e addirittura ogni anno organizza una sagra in onore di questo frutto. Nizza (tecnicamente parte della Costa Azzurra) ha dato il suo nome alla Salade Niçoise, che può essere tradotta grosso modo con “insalata di Nizza”.

Aix en Provence è nota per un prodotto più dolce: i Calissons d’Aix. I calissons sono dolcetti tipo biscotti a forma di petalo che consistono in un impasto compatto ricoperto di glassa. Il composto è preparato con mandorle tritate e canditi, il tutto ricoperto con una glassa bianca. In tal modo, si ottengono pasticcini molto dolci e gradevoli.

L’elemento comune a tutti questi piatti è l’utilizzo di diversi prodotti originari della Provenza. Infatti, ingredienti come l’aglio o le olive sono onnipresenti nella maggior parte dei piatti. L’aioli, ad esempio, è un’altra salsa provenzale che, come la maionese, è un’emulsione di uova aromatizzata con aglio e olio d’oliva. Per tradizione, è servita con verdure e pesce (di solito merluzzo) lessati e uova bollite, e viene gustata durante diverse feste estive.IMG_5242

Le olive sono l’ingrediente fondamentale della tipica tapenade, dove vengono sminuzzate finemente e mescolate a capperi, acciughe e olio d’oliva. La tapenade può essere usata sia come crema da spalmare sia come condimento ed è un must di ogni pasto provenzale.

Olive e olio d’oliva sono ingredienti essenziali dei piatti provenzali

In ogni giardino in Provenza troverete degli olivi, oltre alle erbe quali la lavanda, il basilico, il rosmarino e il timo. Inoltre, data la vicinanza al Mar Mediterraneo, nella maggior parte dei piatti tipici vengono impiegati tutti i tipi di pesce fresco. Infine, il clima mite permette a diversa frutta e verdura di maturare tutto l’anno e di avere in estate una grande abbondanza di prodotti freschi.

Un piatto che li utilizza molto è la ricca soupe au pistou, che consiste in diverse verdure estive, fagioli, pasta e, ovviamente, il pistou (la versione francese del pesto alla Genovese). Talvolta è servito con formaggio grattugiato, ma rimane comunque un ottimo piatto.

Cosa e dove mangiare in Provenza

La cucina del sole

Quando chiedevano a Cezanne, che in Provenza è nato, cresciuto e morto, quale fosse il suo piatto preferito, rispondeva “Le patate con un filo d’olio”. Un piatto semplice, proprio come la cucina provenzale, che ha saputo

valorizzare i prodotti semplici della terra e del mare: i pesci, la carne, le erbe aromatiche che nascono spontanee, le verdure e il vino, creando una cucina semplice ma unica, molto simile a quella italiana anche se con una propria identità forte. La gastronomia della Provenza è definita “cucina del sole”, perché come tutte le altre cucine mediterranee usa prodotti che trovano nel sole la fonte principale del proprio gusto. I protagonisti sono l’olio di oliva, l’aglio, rosmarino, timo, maggiorana, combinate sapientemente. Basta fare un giro per una qualsiasi delle cittadine, per accorgersi che i provenzali con la cucina ci sanno fare. Quasi come gli italiani!IMG_5071

Una cucina “quasi italiana” e “quasi spagnola”.

La Provenza è una regione molto estesa, che parte dal confine con l’Italia e arriva fino quasi in Spagna. La cucina quindi varia molto a seconda delle zone: ad est, al confine con l’Italia, è molto simile a quella della nostra Liguria, con la socca frittelle di farina di ceci o la pissaladière, pizza con olive, acciughe, cipolle. Superata la Costa Azzurra la cucina si fa più aromatica e corposa. Ecco i piatti principali della Provenza.

Pesce

La costa della Provenza è una miniera di pesce e frutti di mare: pesci di ogni tipo, acciughe, cozze, ostriche, ricci di mare e gamberi sono i protagonisti della tavola di mare. Le ostriche e le cozze sono così diffuse che esistono bar e ristoranti che offrono solamente Huitres, moules, e champagne. La summa della cucina provenzale di mare è la Bouillabaisse, una zuppa di pesce che secondo gli estimatori raggiunge la perfezione se cucinata nella zona di Arles. La bouillebaisse è una zuppa di pesce, sulla cui composizione ognuno ha una propria idea: tutti però sono daccordo sul fatto che ci vogliono rana pescatrice, triglia, anguilla, pomodoro e zafferano. Si serve prima il brodo di pesce e poi il pesce, che si accompagna con crostini e rouille, una maionese piccante al peperoncino. Anche la brandade è da provare: un purè di stoccafisso con olio d’oliva a crudo.

Carne

Se il pesce prevale sulla costa, verso l’interno è la carne che spadroneggia. L’agnello della zona del Luberon è considerato uno dei migliori al mondo. Gli stufati, i daubes, cotti anche per otto ore di fila e tirati maestosamente con il vino rosso locale sono una vera delizia. Se passate per la Camargue e non avete scrupoli animalistici, ricordate che lì c’è il gardiane de taureau, carne di toro stufata accompagnata da un delizioso riso aromatizzato alle noci. Dal toro si ricava anche salame, salsicce e molto altro.

Vino e liquori

Siamo in Francia, quindi l’unico problema per i vini è districarsi tra le centinaia di etichette di rossi e rosè. Provate il rosè della Cotes de Provence, in particolare quelli venduti nella zona di ad Aix-en- Provence. Lungo le strade, fermatevi in una delle numerose cave, cantine in cui allegri contadini vi faranno assaggiare le loro produzioni, ovviamente cercando di vendere qualche bottiglia. La Provenza è famosa per due liquori: il pastis e l’assenzio. Entrambi hanno la base nell’anice stellato, ma mentre il pastis è usato sopratutto per gli aperitivi, l’assenzio è un liquore che definire digestivo è riduttivo. Oltre all’anice stellato ha anche un’estratto dalla pianta di assenzio. Non è lo stesso assenzio di cui erano ghiotto Van Gogh e che si ritiene lo abbia mandato fuori di testa: ha la stessa radice ma è molto più leggero, se così si può dire. Bevetelo con moderazione, molta moderazione.

Dove mangiare in Provenza

I francesi, come gli italiani, si siedono a tavola tre volte al giorno: la loro colazione (petit dèjeuner) si fa tra le 7 e le 9. I francesi al mattino preferiscono caffè o tè, un croissant o pane burro e marmellata. Le dejeuner (il pranzo) si fa tra le 12 e le 14. Il pranzo francese è composto da almeno due portate: un antipasto, hors d’oeuvre e un piatto principale, entrée che di solito è accompagnato da un tagliere di formaggi a cui seguono frutta e dessert. Per le diner ( la cena), non c’è molta differenza rispetto al pranzo. Si cena tra le 19 e le 21, sempre con due piatti a cui seguono frutta e dessert. La Francia ha una grande varietà di luoghi dove mangiare. Le due grandi istituzioni della gastronomia sono i bistrot e le brasserie. Il bistrot richiama alla mente atmosfere di artisti e poeti; cucina semplice di grande tradizione popolare, una buona carta dei vini, servizio informale e simpatico, conto accettabile, sono gli elementi che hanno decretato il successo di questo posto tanto amato dai francesi. Altrettanto amate sono le brasserie; nate come luoghi di produzione e consumo della birra, le brasserie sono diventate il posto dove si cucinano i piatti tipici della tradizione francese. Se volete gustare la grande varietà dei vini francesi e provenzali, il luogo ideale sono i Bar à vin o i Bar à champagne. Qui potrete trovare le piccole e grandi etichette del vino francese, di solito accompagnate da assaggi di formaggi e salumi francesi.

 

Artigianato Provenzale

Cos’è che rende qualcosa tipicamente “francese”? Il fatto che provenga semplicemente dalla Francia non è sufficiente. Per la maggior parte delle persone, ciò ha a che vedere con un’idea impossibile da esprimere a parole, l’essenza di un certo non so che capace di suggerire la perfezione dell’arte di vivere. Molti pellegrini alla ricerca di questa particolare essenza si ritrovano alle porte di Parigi, e rimangono impressionati dall’arte e dal fascino della Ville Lumière. Ma quando gli stessi parigini pensano al caldo e ai semplici piaceri del vivere alla francese, pensano inevitabilmente alla Provenza.IMG_5064

Purtroppo si sa che ogni viaggio deve finire, prima o poi. Ma potete sempre portare via con voi un po’ di Provenza! Quei particolari oggetti o sapori che vi aiuteranno a rievocare il tiepido ricordo del sole, dell’aria, e la sensazione che i segreti della vita di un luogo siano stati in qualche modo svelati.

I Calisson

I Calisson sono dei dolcetti tipici della Provenza, composti da frutta candita e mandorle, e somigliano molto a dei biscotti di marzapane al gusto di melone. Della lunghezza di circa 5 centimetri, solitamente sono a forma di mandorla e vengono guarniti con un sottile strato di glassa reale. Le origini di questi dolcetti sono legate alla città di Aix-en-Provence, ed è qui che potrete trovare i migliori Calisson del mondo. Sebbene vadano tenuti a temperatura ambiente e si conservino molto bene, sono più buoni serviti freddi. Siete già in viaggio? Date un’occhiata a cos’altro potete fare ad Aix-en-Provence in meno di 48 ore.

 

L’olio d’oliva e le Herbes de Provence

Ogni chef sa che l’olio d’oliva è il re di tutti gli oli in fatto di salute, sapore e tecniche di cottura. Ma non accontentandosi di questo primato, gli artigiani in Provenza hanno cercato di raggiungere la perfezione nei loro oli. Questo ha portato alla nascita di “Herbes de Provence”, un olio d’oliva di ottima qualità, nel quale sono stati lasciati in infusione timo, lavanda ed altre erbe aromatiche. Tutti gli chef di fama mondiale vi si affidano quando devono cucinare pollo arrosto, agnello, patate, zuppa, stufato, carne alla griglia o formaggio di capra. Come lo preferiscono in Provenza? Come salsa in cui intingere un crostino di pane appena sfornato! Se volete saperne di più sui piatti tipici del Sud della Francia, cliccate qui.

Ma non compratene giusto una bottiglia da portare a casa! Una delle cose più belle del trovarsi in un posto nuovo è cucinare i piatti tipici con gli ingredienti locali. La maggior parte degli alberghi, purtroppo, non dà la possibilità agli ospiti di preparare da mangiare. Se vi fermerete qui per meno di un mese, prendete in considerazione l’idea di soggiornare in una delle nostre ville o appartamenti vacanza. Se invece resterete in Provenza per più tempo, date un’occhiata alle nostre ville e appartamenti ammobiliati.

Il sapone provenzaleIMG_5227

Saponette profumate del miglior sapone al mondo: il Savon de Marseille

Il sapone provenzale lavorato o a tripla lavorazione è noto per essere fra i migliori al mondo. Per produrlo, il sapone, una volta lavorato a freddo, viene frantumato, lasciato essiccare, ed infine pressato per tre volte con dei rulli, in modo da rimuovere ogni traccia di soda caustica. Questo processo rende la saponetta così ottenuta molto più dura di quelle normali, e molto meno dannosa per la pelle. È ottimo, infatti, per quelli che hanno una pelle delicata, e l’assenza di soda caustica permette alle essenze profumate di sprigionarsi. La schiuma che ne deriva, inoltre, è molto più abbondante e cremosa. Un altro sapone di origine francese molto famoso è quello di Marsiglia. Il Savon de Marseille viene prodotto attraverso una collaudata tecnica medievale, secondo la quale l’olio d’oliva viene riscaldato per dieci giorni prima di essere versato in degli stampi ed essere tagliato. Vari negozietti in Provenza vendono sia il Sapone di Marsiglia sia quello lavorato, quindi non dimenticatevi di comprare delle saponette alla vostra fragranza preferita!

 

 

I mazzi di lavanda essiccata

I mazzi di lavanda essiccata della Provenza profumano l’ambiente e leniscono i dolori

I campi di lavanda sono oggi sinonimo di Provenza, e alcune delle più belle fotografie della regione mostrano innumerevoli colline di piante violacee ondeggianti. Secondo la medicina olistica, l’odore della lavanda possiede anche delle proprietà curative, in quanto capace di calmare i dolori articolari, di purificare e di favorire il rinnovamento. Proprio per questo, la lavanda è presente in molti aspetti della vita in Provenza, dal tè ai sacchettini profumati, ma anche nei pot-pourri e perfino nel gelato. È ampiamente utilizzata anche come deodorante e profumatore per ambienti, e molti francesi la mettono nei cassetti e negli armadi per profumare i vestiti. Si ritiene sia di buon auspicio lasciare ad essiccare un mazzo di lavanda fuori o vicino alla porta di casa, quindi non potete tornare a casa senza!

Le specialità enologiche

Esistono tanti tipi di vino quanti sono i tipi di persone, e la qualità può variare anche da un acro all’altro. L’uva da vino può rivelarsi estremamente instabile, e la qualità dipende da molti fattori, dal terreno alla quantità di pioggia in un anno. Fortunatamente, il territorio ricco e il clima costante, fanno della Provenza uno dei più grandi produttori di vino del paese, totalizzando la bellezza del 40% di tutto il vino francese. Il vino rosso è il più comune in questa regione, ma i rosé della zona di Aix-en-Provence meritano assolutamente un assaggio.

Le cicale

Esatto, gli insetti. Ma non proprio, in realtà. Diversamente dagli Stati Uniti, dove spuntano ogni 10 o addirittura 17 anni, le cicale in Francia si ripresentano ogni anno. Note per il loro corpo largo e l’insistente canto, la loro costante presenza ha ispirato la gente del luogo, che ne ha fatto una forma d’arte popolare. In tutta la Provenza, infatti, potete trovare cicale decorative in plastica o vetro dipinti. Gli abitanti locali le appendono in giro per la casa e alcune di queste hanno una cavità all’interno per introdurvi fiori o lavanda essiccata. Non sapete bene dove comprarle? Provate nei negozietti nei pressi di Saint-Rémy-de-Provence.

I prodotti in maiolica

Poche cose sono più rappresentative della Provenza come degli oggetti in ceramica dai colori vivaci sparpagliati disordinatamente su tavoli ormai segnati dallo scorrere del tempo. La maiolica è fra le ceramiche più diffuse in Provenza, ed è caratterizzata da allegri disegni dipinti su uno sfondo interamente bianco. Ed il colore bianco è proprio il tratto distintivo di questi pezzi in ceramica, caratteristica che risale al XVII secolo, periodo in cui quest’arte stava cominciando a svilupparsi e i forni dovevano raggiungere una temperatura superiore ai 1000 gradi Celsius per ottenere il risultato desiderato. Faience blanche, dalla città di Faenza che per secoli è stata tra i maggiori produttori di maiolica, è il termine francese con cui si identifica la ceramica che è stata cotta bianca ma priva di decorazioni. Il prodotto in maiolica più famoso è un’ampia terrina, ma in ogni caso molti artigiani in Provenza vendono una vasta scelta di prodotti in questo materiale.

I profumi

La fabbrica di Fragonard, profumiere di livello mondiale

Se siete alla ricerca di un profumo, non potete che andare a Grasse. Grasse è nota a tutti per essere la capitale mondiale del profumo, con una fiorente industria nel settore nata verso la fine del XVIII secolo. I “nasi”, famosi in tutto il mondo, vengono formati a Grasse per distinguere più di 2.000 diverse fragranze, e la città produce più di due terzi dei profumi e degli aromi alimentari di Francia. Visitate la fabbrica di profumi del celebre Fragonard, oppure create la vostra fragranza personale in una delle botteghe di Galimard, a Grasse o ad Eze. Persino l’aria della città profuma da lontano di fiori, grazie alle numerose coltivazioni di gelsomino e caprifoglio, e ciò la rende una mèta ideale per i veri romantici.IMG_5298

Gli utensili in legno d’olivo

Dimenticate i mestoli in acciaio inox e le usurate terrine in plastica. Non solo gli utensili in legno d’olivo sono più belli ed ecologici, ma sono anche indistruttibili: un buon set di questi utensili può durarvi anche una vita. La venatura dell’olivo, inoltre, è molto stretta, e questo tiene alla larga i batteri, mentre il contrasto dato dai suoi cerchi di colore scuro lo rende uno dei legni più apprezzati al mondo. Fortunatamente, il legno d’olivo cresce in abbondanza in Provenza, quindi non dovreste avere problemi a reperire un bel set di utensili in questo materiale.

Le stoffe provenzali

Qual è la naturale reazione a dei tessuti talmente diffusi da mandarne in rovina degli altri? Quella di vietarne la produzione, naturalmente! Nel 1686 i colorati tessuti provenzali, creati su modello di quelli indiani, vennero banditi dalla produzione e dal commercio. I mercanti più furbi cercarono di eludere la legge spostandosi nel Contado Venassino vicino ad Avignone, che, in quanto territorio del papato all’epoca, non era soggetto alla stessa limitazione. (Avignone vi incuriosisce? Scoprite qualcosa in più su questa storica città!) Nacque così un prospero mercato nero, destinato a chiudere i battenti 30 anni più tardi, quando la legge si impose sulla città. Solo nel XIX secolo le antiche fabbriche riapparvero e cominciarono a produrre tessuti con stampati i rivoluzionari disegni che li avevano resi così popolari agli esordi. Se volete acquistarli, andate ad Aix-en-Provence, e capirete cos’è che ha reso i tessuti provenzali così popolari da diventare persino illegali.

 

Guida all’Alsazia e Friburgo nella Forestra Nera


colmar-turismobaratonet-1L’Alsazia

L’Alsazia (Alsace in francese, Elsass in dialetto alsaziano, variante del tedesco alemanno) è una regione francese composta da due dipartimenti: il Basso Reno (Bas-Rhin, Unterelsass) a nord e l’Alto Reno (Haut-Rhin, Oberelsass) a sud, vi è parlato oltre al francese l’alsaziano, un gruppo di dialetti alemanni molto francesizzati e non facilmente capiti da chi parla tedesco normale.

Geografia

La città principale e capitale naturale dell’Alsazia è Strasburgo (Strasbourg, Straßburg), che è anche il centro urbano più grande, nonché capoluogo del dipartimento del Basso Reno (o Bassa Alsazia o Nord-Alsazia). Seguono, per grandezza, Mulhouse (Mülhausen), e Colmar, quest’ultima capoluogo del dipartimento dell’Alto Reno (o Alta Alsazia o Sud-Alsazia, Sud-Alsace o Südelsass in tedesco).

Il territorio della regione confina con la Germania a nord (Renania-Palatinato) e a est (Baden-Württemberg), con la Svizzera a sud (cantoni Basilea Città, Basilea Campagna, Soletta e Giura) e con le regioni Franca Contea a sud-ovest e Lorena a ovest.

L’Alsazia è una regione che comprende anche il Territorio di Belfort.

Con la sua superficie di soli 8.280 km² è la più piccola delle regioni francesi.

La morfologia delle regione presenta:

• a est, la pianura dell’Alsazia, percorsa dal Fiume e caratterizzata da un’agricoltura cerealicola.

• a ovest, i Vosgi tagliato dalle valli degli affluenti del fiume Ill. In questa zona si erge il Grand Ballon che con i suoi 1.424 metri segna l’altitudine massima della regione. L’economia della zona si caratterizza per i pascoli d’altura.

• le colline meridionali, con i filari di vitigni alsaziani, uniscono le due zone.

Clima

Se il clima alsaziano non gode di una buona reputazione è principalmente a causa del rigore degli inverni. D’ altra parte la presenza delle vigne testimonia del calore e del soleggiamento del periodo estivo. Al riparo dei Vosgi, l’Alsazia ha una media di precipitazioni inferiore a quella delle regioni vicine. Colmar gode del resto di un microclima molto secco : è la seconda città più secca di Francia, con solo 550 mm di pioggia per anno ! Il clima alsaziano è semi-continentale con delle forti escursioni.

La primavera (dal 21 marzo al 21 giugno)

Benché a volte capricciosa, la primavera è generalmente dolce e luminosa con qualche acquazzone e la possibilità di ondate di freddo. Le cime più alte dei Vosgi ancora innevate contrastano con il verdeggiante colore dei prati. Nel mese di maggio, la fioritura invade le campagne e annuncia l’arrivo dell’estate.

Storia

A differenza delle regioni confinanti, l’Alsazia non ha mai conosciuto un periodo di unità e autonomia. Per molti secoli è stata suddivisa in piccole zone politiche, principalmente fu sottomessa al Sacro Romano Impero.

Abitata anticamente da popolazioni celtiche (Sequani, Rauraci), fu sotto il dominio romano dal 58 a.C. fino al V secolo, quando fu invasa dai Vandali, dagli Alani e infine dagli Alamanni. Fu conquistata dai franchi di Clodoveo alla fine del V secolo, cristianizzata dai monaci di s. Colombano ed entrò a far parte del regno di Austrasia nel VI secolo.

Sotto i Carolingi fu costituita in contea e col Trattato di Verdun (843) fu assegnata a Lotario; alla morte di Lotario II passò alla Germania e fu incorporata al ducato di Svevia. Fu quindi divisa nei due langraviati dell’Alta e della Bassa Alsazia, che restarono sotto gli Asburgo fino al 1648.

In realtà l’Alsazia, durante tutto il Medioevo, fu costituita da un mosaico di signorie, di fatto autonome, accanto alle quali le principali città, sottrattesi alle autorità feudali, costituirono una lega, la Decapoli alsaziana (1354), sotto la protezione dell’imperatore, ma di fatto indipendente. Poco dopo anche Strasburgo si emancipava dalla signoria vescovile.

Durante la guerra dei Trent’anni l’Alsazia, che era stato un fertile territorio per la diffusione della Riforma, subì l’influsso francese e le Paci di Westfalia (1648) cedettero alla Francia i langraviati dell’Alta e della Bassa Alsazia e la prefettura della Decapoli.

Luigi XIV rese definitiva l’unione di tutta l’Alsazia, compresa Strasburgo (1681), alla Francia, cui rimase fino al 1870, quando fu annessa assieme alla Lorena alla Germania (Trattato di Francoforte, 1871), in seguito alla guerra franco-prussiana. Nel 1919 fu restituita alla Francia con il Trattato di Versailles. Occupata dai Tedeschi nel 1940, fu liberata dagli Alleati nel 1944. Diverse forme del dialetto alsaziano, variante molto francesizzata del tedesco alemanno, sono tuttora parlate e diffuse in questa regione.

Colmar

Colmar è stata definita da qualcuno un libro di fiabe nordiche a cielo aperto.colmar_12

La capitale dell’Alto Reno conta circa 65.000 abitanti ed è situata in felice posizione tra il Reno e i monti Vosgi. Con i suoi edifici medievali e rinascimentali, affacciati sulle strade acciottolate, rappresenta la tipica città alsaziana. La città in realtà ha due anime, una francese e una tedesca. La storia ha deciso che Colmar dovesse essere francese ma l’anima tedesca non è meno presente, a partire dalla lingua alle scritte dei locali in carattere gotico, dai cognomi delle famiglie ai nomi dei vini, allo stile architettonico della maggior parte delle case e dei palazzi. Nonostante questo, le popolazioni germaniche di queste terre si sono sempre più sentite parte della nazione francese.

Colmar fu attivo centro dell’arte renana e di questo prestigioso passato rimangono ricche collezioni, sopratutto risalenti al XV e XVI secolo.

A livello urbanistico la città conserva la divisione in piccoli quartieri, ognuno dei quali in passato era legato (ed ospitava) una specifica corporazione. Lungo le caratteristiche vie del centro storico si trovano antiche case in legno e pietra dalle facciate riccamente decorate. Tra tutte forse la più rappresentativa è la Maison Pfister, all’incrocio tra rue des Marchands e rue Mercière. Tutto l’anno queste strade antiche invitano a infinite passeggiate, tra case medievali, facciate pastello, botteghe artigiane, giardini e cortili segreti.

Place de la Cathédrale, la piazza principale della città, è dominata dalla gotica chiesa di Saint Martin del XIII -XIV secolo. La facciata dell’edificio in pietra arenaria gialla è tripartita da contrafforti e fiancheggiata da un campanile con pinnacolo di rame in stile mongolo (1572). Il timpano del portale duecentesco presenta rilievi che raffigurano l’Adorazione dei Magi e il Giudizio Universale. Nel transetto destro si apre il portale di Saint Nicolas con sculture di Maistres Humbert risalenti al XIV secolo. L’interno a tre navate è celebre per il cupo deambulatorio (ovvero il corridoio) che circonda il coro esagonale. Nella cappella si trova un pregevole crocifisso in legno risalente al XIV secolo.

L’Église des Dominicains, situata nell’omonima piazza, è una chiesa gotica sconsacrata, dal fascino particolare e suggestivo dove vale la pena entrare. La chiesa è nota per le splendide vetrate trecentesche dalle quali entra la luce ad illuminare gli interni altissimi e bui. Belle le opere lignee del ‘700 e celebre il dipinto della Vergine al roseto, capolavoro di Martin Schongauer del 1473 dove la vergine, con splendidi capelli rossi e ricci, indossa una veste rossa dello stesso colore delle rose che le fanno da sfondo e il bambino che porta in braccio le cinge teneramente il collo.17

Il Musée d’Unterlinden, MUSE_D~1assolutamente da non perdere, ha sede in un monastero domenicano del XIII secolo; è famoso in tutto il mondo per la bellezza dell’Altare di Issenheim.musee_unterlinden-_2 Questo altare è un’opera grandiosa e complessa, dove si mescolano pittura, scultura e architettura. L’altare è lungo 6 metri e alto 3. Si tratta di un telaio di legno fatto da 4 ante dipinte fronte/retro e apribili/chiudibili, due sportelli fissi e una predella (una fascia dipinta che veniva collocata sotto il quadro e ne completava la rappresentazione). Le ante rappresentano scene differenti a seconda della loro posizione. La prima rappresentazione sulle ante (quando gli sportelli sono chiusi), da sinistra a destra, mostra San Sebastiano, la Crocefissione e Sant’Antonio (nella predella, la fascia lunga e stretta in basso è rappresentato il Compianto sul Cristo morto). La seconda rappresentazione, ottenuta aprendo i primi sportelli, presenta la Annunciazione, l’Allegoria della Natività e la Resurrezione. La terza rappresentazione che si ottiene aprendo le ante successive mostra al centro le statue lignee di Sant’Antonio Abate, Sant’Agostino e San Girolamo, mentre nella predella in basso mostra le sculture con il Cristo fra gli apostoli, eseguite da Niklaus Hagenauer di Strasburgo (fine XV secolo). Il polittico (ovvero il dipinto diviso in più parti contornato da cornici di legno) in esso custodito, con scene tratte dal Nuovo Testamento, è stato dipinto da Mathias Grunewald negli anni 1512-1516.

Tutto il complesso pittorico che oggi costituisce l’Altare di Issenheim era un tempo ospitato nel monastero ospedale a cui abbiamo accennato ed aveva funzione terapeutica e consolatoria insieme, accompagnando i malati nella speranza della guarigione e nella fede della salvezza.

Colmar è irresistibile durante tutto l’anno, ma a Natale sembra veramente di essere dentro una fiaba camminando in città. Le luminarie decorano tutte le case e i palazzi, ci sono 5 mercatini nelle piazze del centro, una pista di pattinaggio all’aperto, canti di natale provenienti da ogni angolo. Il centro storico è rigorosamente chiuso al traffico e oltre a degustare prodotti tipici, dolcetti e bevande fumanti potrete acquistare addobbi natalizi, prodotti dell’artigianato locale, originali ricordini da regalare agli amici o custodire come ricordo di una vacanza suggestiva.

Qualche notizia storica per meglio comprendere l’essenza di questa cittadina. Nel IX secolo Colmar si chiamava Columbaria, per via dei suoi allevamenti di piccioni. A partire dal XIII secolo la città vide affermarsi una ricca borghesia a scapito del potere ecclesiastico. In questo periodo la città prosperò grazie soprattutto al commercio del vino. Allo stesso tempo fiorirono le arti. Nel 1675 Colmar entrò a far parte del regno di Francia con il conseguente riaffermarsi del cattolicesimo nella zona. Quindi nel 1871, con la sconfitta di Napoleone III, l’Alsazia tornò alla Germania fino alla fine della Prima Guerra Mondiale. Rioccupata dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, tornò definitivamente alla Francia nel 1944.

Come accennavamo poco prima, a partire dal XIII secolo Colmar si arricchì molto grazie al commercio del vino. Tutt’oggi la città è un importante e famoso centro vinicolo, che ogni anno, in agosto ospita, la grande Foire des Vins, un vero festival dei vini alsaziani con espositori di prestigio e una grande affluenza di pubblico. Questo festival può definirsi davvero storico ed ha superato le 60 edizioni. Quasi 400 gli espositori, grande teatro all’aperto con 10.000 posti dove ogni anno si tengono concerti e performance, e poi ancora convegni, tavole rotonde e ovviamente degustazioni.

La storia del vino alsaziano è molto particolare. Il vino, sopratutto il bianco di queste zone, era apprezzato sin dall’anno 1000 d.C. Purtroppo le tante guerre che segnarono il secolare scontro tra francesi e tedeschi arrecarono distruzioni e devastazioni a queste terre e ai vitigni. Pensate che addirittura dopo la Guerra dei Trentanni fu necessario un completo reimpianto dei vigneti. Luigi XIV rilanciò e valorizzò questo patrimonio ma, con l’annessione alla Germania nel 1871, l’amministrazione tedesca decise di favorire la regione della Mosella, a scapito dell’Alsazia, spingendo in queste terre per la coltivazione di uve e vini a buon mercato. Fu anche per questo fatto che i viticoltori furono ben felici di tornare alla Francia nel 1918. Da quel momento infatti la regione tornò ai vertici mondiali per produzione e qualità dei vini. Tra gli altri si ricordiamo i Pinot bianchi, i Tokay Pinot Grigi, il Muscat e i Pinot Neri.

Ristoranti a Colmar

Capitale europea e alsaziana, Strasburgo è anche la settima città francese. Ad un tempo universitaria e turistica, è una città giovane che offre un perfetto equilibrio fra patrimonio storico e dinamismo economico. Così, gli amanti dei monumenti, della buona tavola e della cultura avranno tutti i motivi per innamorarsi di questa città. La ricchezza e la quantità dei luoghi da scoprire impone una selezione preliminare da parte del visitatore, secondo i suoi gusti e i suoi interessi prioritari.

Ad ogni quartiere la propria identitàstras notre

La città di Strasburgo, come molte grandi città, possiede dei quartieri con identità distinte, intimamente legate alla loro storia e ai loro abitanti. La città si limitava al vecchio centro fino al XIX secolo. Questo spiega la sorprendente ricchezza di questo settore, che è incontestabilmente il più bello esteticamente e il più pittoresco della città. Circondato dalle acque dell’Ill, in esso si concentrano i principali luoghi e monumenti che hanno reso famosa Strasburgo : la Cattedrale, la Maison Kammerzell o la Petite France. A est del centro storico si trova il quartiere tedesco, formato da larghi viali fiancheggiati da maestosi edifici « haussmanniens ». Si può, in particolare, ammirare place de la République e i suoi imponenti monumenti, il palazzo universitario o la Posta Centrale. Uno dei settori più animati di Strasburgo è senza dubbio il quartiere della Krutenau, popolare e studentesco. Numerosi bar, ristoranti e negozi di quartiere animano questo quartiere accogliente, che conserva l’aspetto di un piccolo villaggio. Infine, ci sono i quartieri residenziali (in particolare l’Orangerie e la Robertsau) che offrono delle passeggiate molto piacevoli. Qui si possono scoprire le istituzioni europee e splendide case padronali.

La Maison Kammerzell222px-Kammerzell-Haus-Strassbourg

La Maison Kammerzell, un vero gioiello cittadino, ha assistito ai momenti di maggiore sfarzo di varie generazioni di mercanti e commercianti.

Edificata verso la fine del XVI secolo da un ricco commerciante di tessuti, questa dimora ospita attualmente un ristorante dove si possono assaggiare le migliori specialità francesi, dal choucroutes al foie gras, al tarte flambée dessert.

Il piano terra ricorda ancora l’attività commerciale dei suoi proprietari (archi e portici dovevano proteggere e riparare venditori e clienti), mentre la parte superiore, quella destinata ad abitazione, presenta la classica decorazione a graticcio tipica delle case alsaziane, anche se nella Maison Kammerzell, il legno delle travi è impreziosito da ricche decorazioni e intagli che raffigurano i segni zodiacali, personaggi biblici, eroi dell’antichità e medievali.

Petite France, grazie ai suoi meravigliosi canali, è il quartiere più caratteristico del centro storico di Strasburgo, dove in passato abitavano e lavoravano pescatori, mugnai e conciatori.6_of_10_-_La_Petite_France,_Strasbourg_-_FRANCE

Le bellissime case in legno a vista risalgono al XVI e XVII secolo. I tetti spioventi proteggono i granai dove un tempo venivano fatte seccare le pelli. A un estremo di questo quartiere si trovano i Ponts Couverts considerato uno dei punti più pittoreschi di Strasburgo.The-Alsace-La-Petite-France-Strasbourg-Alsace-France-646x970

Essi hanno conservato il loro nome nonostante abbiano perso le coperture nel XVIII secolo. Sono dominati da quattro torri del XIV secolo, vestigia di antichi bastioni che vegliavano sull’indipendenza della repubblica strasburghese.

Subito dopo l’annessione di Strasburgo alla Francia nel 1681, una nuova cinta muraria venne edificata dall’ingegnere Vauban. Dai Ponts Couverts ci si può inoltrare nelle stradine del Finkwiller, antico quartiere di conciatori e pescatori della riva destra, oppure nelle deliziosa rue du Bain-aux-Plantes e rue des Dentelles, tra le case in legno animate di logge, frontoni e alti camini.barrage-vauban-strasbourg-1357767426

A qualche metro di distanza dai Ponts Couverts, intorno al 1690 fu costruita, ad opera di Tarde, la Diga Vauban, detta Grande Ecluse (“grande chiusa”) perché, in caso di necessità, permetteva di inondare tutta la parte sud di Strasburgo.

In cima all’edificio è stato allestito un gradevole belvedere, da dove si possono ammirare la città e i canali. La Diga Vauban è aperta tutti i giorni (eccetto il 14 e 15/07) dalle 9.00 alle 19.30. Ricordiamo che l’ingresso è libero.

La cattedrale di Notre-Dame è stata edificata sull’area dove un tempo si ergeva una cripta di età romanica. La prima pietra è stata posta nel 1015 dal Vescovo Wernher de Hobourg.

Il capolavoro fu completato nel XV secolo con la svettante guglia di coronamento della torre sinistra della facciata considerata da Victor Hugo un “Prodigio di grandezza e leggiadria”.

La struttura presenta elementi romanici influenzati dall’arte gotica, basta osservare la navata centrale con le sue volte ogivali, i pilastri sottili a fasci e le vetrate policrome.

Sulla facciata si aprono tre portali ornati di sculture sontuose. Quello di destra rappresenta la parabola delle Vergini Sagge e delle Vergini Stolte, quello di sinistra rappresenta le Virtù che trionfano sui vivi. Il portale centrale è affiancato da dieci statue di profeti.

A sud, ci sono le due statue femminili che abbelliscono le due porte romane del portale dell’Orologio che rappresentano rispettivamente la chiesa e la Sinagoga. Il portale collocato sul lato sinistro risale al XV secolo e raffigura il martirio di San Lorenzo. Esternamente le centinaia di sculture che sembrano staccarsi dalla parete ne accentuano i chiaroscuri. Il tono dell’arenaria rosa cambia secondo le ore del giorno e il colore del cielo.

Le sere d’estate, la luce crea una scenografia incantevole. Internamente invece la navata slanciata ispira al raccoglimento. Le vetrate del XII-XIV secolo, formate da 4600 pannelli e da 500.000 elementi, raffigurano la storia secolare dell’edificio e della città: dal Nuovo Testamento, nel lato sud, ai re e imperatori, nel lato nord inferiore, alla Vergine Protettrice della città nell’abside, creando dei suggestivi giochi di luce.

Ristoranti a Strasburgo

La Linea Maginot è un complesso integrato di fortificazioni, opere militari, ostacoli anti-carro, postazioni di mitragliatrici, sistemi di inondazione difensivi, caserme e depositi di munizioni realizzati dal 1928 al 1940 dal Governo francese a protezione dei confini che la Francia aveva in comune con il Belgio, il Lussemburgo, la Germania, la Svizzera e l’Italia. Il sistema è caratterizzato dalla non contiguità delle varie componenti e dall’estesa utilizzazione del tiro fiancheggiante in maniera integrata con il tiro diretto. Benché il termine “Linea Maginot” si riferisca all’intero sistema di fortificazioni, esso viene spesso usato solo al riguardo delle difese sul confine franco-tedesco. Le difese sul confine franco-italiano sono anche note con il termine “Linea Maginot Alpina” (in francese Ligne Alpine).linea maginot

Il suo sviluppo e la sua costruzione furono strettamente legati alle esperienze della prima guerra mondiale; martellanti bombardamenti di artiglierie pesanti, l’uso di prodotti chimici (gas asfissianti, vescicanti, ecc), fronti statici articolati su imponenti sistemi trincerati e l’uso di fortificazioni permanenti e campali il più possibilmente protette, fecero credere all’esercito francese, come a tutti gli altri eserciti europei, la necessità di proteggere i propri confini con una o più imponenti linee fortificate, teoricamente inespugnabili da attacchi diretti.

La sua costruzione

Dopo la Grande Guerra, tra lo stato maggiore dell’esercito francese, vi era una forte contrapposizione tra chi propugnava una difesa con un forte esercito mobile, in grado di muoversi rapidamente attraverso il territorio, e chi invece proponeva una difesa statica, formata da una impenetrabile serie di fortificazioni permanenti ancorate al terreno, da predisporre già in tempo di pace.

La linea difensiva francese: la Linea Maginot

Sostenitore per la costruzione della linea fu fin dal 1922 il Maresciallo di Francia Philippe Pétain, che con l’appoggio di altri due ex combattenti a Verdun, il ministro André Maginot (che poi diede il nome alla linea) e il Capo di Stato Maggiore francese Marie-Eugène Debeney, convinse il governo ad iniziare la costruzione di una imponente linea difensiva permanente.

Anche se alla fine prevalse una soluzione intermedia, dove la protezione del fronte nord, al confine con il Belgio, fu affidato a truppe mobili, mentre il confine nord-est con Lussemburgo, Germania e il confine alpino con l’Italia, fu affidato in gran parte ad opere permanenti, la Linea iniziò ad essere costruita, e rappresentò per molti anni un problema per i tedeschi, che nel 1940 “aggirarono” letteralmente con l’impiego dei panzer.

La Linea Maginot fu quindi una difesa costruita non interamente lungo i confini nazionali, ma difendeva solo alcune parti di territorio francese per diverse ragioni:

Ragione geografica: le regioni di Alsazia e Lorena, acquisite dopo la prima guerra mondiale, erano prive di un sistema difensivo adeguato, in quanto le difese tedesche nella zona erano obsolete e non adatte ai nuovi standard, oltre che non disposte verso il nemico. Inoltre la regione essendo priva di ostacoli naturali e avendo grandi vie di comunicazione era facilmente utilizzabile e attraversabile dal nemico; quindi venne ampiamente fortificata con opere permanenti, al contrario dei confini con le Ardenne (ritenute insuperabili da un moderno esercito) e con il Reno.

Ragione economica: le zone industriali e minerarie del paese erano prossime al confine con la Germania, e un attacco di quest’ultima avrebbe potuto privare la Francia delle zone più importanti per l’economia e gli approvvigionamenti dello stesso esercito.

Ragione demografica: le enormi perdite in vite umane causate dal primo conflitto mondiale aveva causato in Francia un decremento delle nascite, non tanto per il milione e trecentomila tra morti, feriti e mutilati, ma perché quei morti erano per lo più giovani che non contribuirono alla naturale crescita demografica, privando la nazione di una nuova leva arruolabile. Per questo la linea fortificata avrebbe permesso di risparmiare sul numero di soldati da impiegare e li avrebbe sottratti agli effetti dei bombardamenti proteggendoli in casematte praticamente indistruttibili.

Ragione militare: il sistema di mobilitazione dell’esercito francese richiedeva all’incirca tre settimane per poter disporre di un esercito in piena efficienza sulle frontiere, lasciandole quindi indifese soprattutto in caso di un attacco portato senza una dichiarazione di guerra. Quindi il predisporre linee fortificate presidiate da reparti appositi, avrebbe consentito di impegnare un eventuale attacco tedesco il tempo necessario per mobilitare l’esercito francese.

Ragione politica: il Trattato di Versailles non era ritenuto sufficiente per garantire la sicurezza alla Francia da un attacco tedesco, ritenuto possibile anche se non a breve termine. In più la Germania non aveva conosciuto le devastazioni materiali che avevano interessato la Francia, in cui si volevano evitare nuove distruzioni, e allo stesso tempo contrastare efficacemente un nemico ancora in perfette condizioni industriali, morali ed economiche anche se in subbuglio politico.

Inizia la costruzione

Interno del Forte di Schoenenbourg, una delle più grandi opere di fortificazione

Gli strateghi francesi concepirono una fortificazione adatta ad una guerra simile a quella appena terminata, ovvero nient’altro che un’evoluzione dei forti di Verdun che ben avevano resistito agli attacchi dell’artiglieria tedesca.

Dato che non era possibile creare una linea fortificata continua, e non avrebbe potuto esserlo, vennero fortificati i settori più vulnerabili e importanti al confine con opere permanenti complesse e fortemente protette, mentre dove il territorio di per sé stesso rappresentava già un grosso ostacolo, vennero costruite casematte isolate che battevano il territorio o vennero predisposti territori da inondare in caso di necessità.

Nel progetto iniziale, quindi, la Linea Maginot era formata essenzialmente da due grandi regioni fortificate al nord-est, la Regione Fortificata di Metz e la Regione Fortificata di Lauter e da tre grandi settori fortificati sulle Alpi, il Settore Fortificato del Delfinato, quello della Savoia e quello delle Alpi Marittime. Solo successivamente vennero realizzate alcune opere a nord nei confini col Belgio, perché le due nazioni avevano firmato un’alleanza nel 1920, secondo il quale l’esercito francese avrebbe operato in Belgio se le forze tedesche lo avessero invaso. Ma quando il Belgio abrogò il trattato nel 1936 e dichiarò la neutralità, la Linea Maginot venne rapidamente estesa lungo il confine franco-belga, ma non con agli standard del resto della Linea.

Tutta la fascia di frontiera era suddivisa in Settori Difensivi (dove non erano previste opere permanenti) e Settori Fortificati (dove invece il fronte era dotato di opere C.O.R.F.), a loro volta questi ultimi erano formati da Sottosettori, Quartieri e ‘Sottoquartieri, comprendenti al loro interno un numero variabile di Opere di fortificazione.

Il problema dei finanziamenti iniziali, venne affrontato dal Ministro della Guerra André Maginot, che riuscì a convincere il parlamento ad investire in questo progetto garantendo i primi stanziamenti necessari all’avvio dei lavori, anche se non fece in tempo a vedere l’opera completa in quanto morì il 6 gennaio 1932.

Il ministro francese della guerra, André Maginot, uno dei principali artefici della costruzione della linea

La Linea venne costruita in diverse fasi a partire dal 13 gennaio 1928 dalla S.T.G. (Section Technique du Génie, Sezione Tecnica del Genio) supervisionata dalla C.O.R.F., i lavori accelerarono però nel 1930, quando Maginot ottenne un cospicuo finanziamento dal governo.

La costruzione principale venne completata entro il 1935 ad un costo di circa tre miliardi di franchi. Le specifiche per le difese erano molto alte, con bunker numerosi e interconnessi per migliaia di uomini, c’erano 108 opere di fortificazione a 15 chilometri di distanza l’uno dall’altro, inframmezzati da opere fortificate minori e casematte. In tutto l’opera è costata 5 miliardi di franchi e nelle innumerevoli fortificazioni potevano alloggiare fino a 2 milioni di soldati.

Ci fu uno sforzo finale nella fase realizzativa, nel biennio 1939-40, con miglioramenti generali lungo tutta la Linea. La Linea finale era più robusta attorno alle regioni industriali di Metz, Lauter e dell’Alsazia, mentre altre aree erano in confronto solo debolmente difese.

L’opera nel concetto

Il concetto base della Linea Maginot era un’ossatura costituita da possenti opere di fortificazione, (in francese grandes ouvrages), distanziati tra loro di circa 5 km completamente collegati sottoterra, con alcune postazioni “emergenti”, armati prevalentemente di mitragliatrici e artiglierie di piccolo calibro, che si proteggevano l’un l’altro e che controllavano i tratti di frontiera e le relative vie di accesso.

Tra questi erano posizionati fortificazioni minori (in francese petites ouvrages), casematte e bunker di varia potenza di fuoco e dimensioni che rendevano continuo il fronte, controllandolo con mitragliatrici e pezzi anticarro.

Molto importante era anche l’ostacolo passivo antistante tutta la Linea, un ostacolo costituito da un profondo reticolato di filo spinato e sei file di putrelle infisse nel terreno che doveva fermare la fanteria e i carri nemici. In posizione arretrata poi c’erano due linee di resistenza che consentiva alle truppe di ripararsi dai bombardamenti.

Altrettanto fondamentale fu la costruzione di una importante rete stradale e ferroviaria che consentiva un adeguato approvvigionamento di materiali a tutta la Linea, e garantiva una adeguata mobilità lungo tutta la stessa collegando una lunga serie di caserme di sicurezza dove erano sistemati i reparti di uomini a presidio della Linea che così avrebbero potuto raggiungere le varie postazioni in breve tempo.

La Linea Maginot era poi completata da batterie allo scoperto, postazioni di artiglieria su affusto ferroviario, una complessa rete di distribuzione elettrica formata da cavi interrati e interconnessioni tra le diverse opere, una rete telefonica militare e infine una serie di avamposti destinati a rallentare le truppe avversarie prima di raggiungere la Linea principale, e le postazioni più avanzate in assoluto, cioè i dispositivi di confine costituiti da barriere mobili, sbarramenti rapidi, case fortificate ubicati a pochi metri dalla frontiera e necessari a resistere durante i primi momenti dell’attacco e per dare l’allarme in caso di attacco a sorpresa alla linea principale.

Un reticolato anticarro antistante la Linea Maginot

Suddivisione e struttura delle opere

La classificazione principale delle strutture della Linea Maginot riguarda le dimensioni delle opere di fortificazione, suddivise in opere minori e maggiori (in frances petites e grandes ouvrages) dove le prime erano armate esclusivamente con mitragliatrici, mortai da 50mm (in torretta o casamatta) ed eventualmente pezzi anticarro. Queste opere potevano essere sostituite, a seconda dei casi, da un’unica grande casamatta oppure da diversi blocchi (da 2 a 5) collegati da una serie di gallerie sotterranee; le seconde invece potevano collegare fino a 19 blocchi grazie a grandi sviluppi di gallerie sotterranee.

Alcune tra le opere maggiori di fortificazione raggiunsero notevoli dimensioni, ad esempio il forte Hochwald (Grand Ouvrage Hochwald), composto da 14 blocchi da combattimento più 9 casematte del fossato, collegate da 8 chilometri di gallerie, in grado di ospitare 1070 uomini e 21 pezzi, oppure il Grand Ouvrage Hackenberg con 19 blocchi, 8 chilometri di gallerie, 1082 uomini a presidio e 18 pezzi di artiglieria[1].

Generalmente le grandi opere di fortificazione erano formate da due ingressi principali, uno per materiali e munizioni e l’altro per gli uomini; da queste entrate si accedeva quindi a un complesso sistema di gallerie protette dalla roccia, dal quale si poteva accedere a caserme, ricoveri per la truppa, depositi di munizioni e viveri, camere per i gruppi elettrogeni e per i sistemi di ventilazione e comunicazione, oltre che alle numerose postazioni di difesa, il vero fulcro della Linea Maginot.

Dalle gallerie principali, binari a scartamento ridotto conducono a diversi pozzi verticali con ascensori e scale che portavano alle varie casematte di artiglieria o fanteria, torrette di artiglieria e fanteria oppure blocchi misti che comprendevano più tipologie e torrette di osservazione.

Analogamente, le opere minori di fortificazione avevano la stessa struttura di quelle maggiori, ma con dimensioni più modeste, una sola entrata, o, in alcuni casi, potevano essere costituite da un solo blocco di combattimento dove si potevano trovare le postazioni, le camerate e tutti i locali necessari.

Infine per rendere la Linea il più continua possibile, furono costruiti tra le varie opere, una serie di piccole casematte e osservatori per dirigere il tiro.

Diverso territorio, diversa concezione

Al confine con la Germania, il terreno prevalentemente pianeggiante che caratterizzava il confine, fece decidere agli ingegneri francesi la necessità di approntare la Linea sotterrandola il più possibile nel terreno e creando un complesso sistema di gallerie e ricoveri sotterranei per difendere la struttura da eventuali bombardamenti, e nel contempo, per allontanare il più possibile dalla zona di frontiera gli ingressi.

Mentre al confine con l’Italia, il terreno montuoso e quindi la difficoltà dell’avversario di mettere in posizione artiglierie pesanti in prossimità della frontiera, fece propendere gli ingegneri nel decidere di costruire opere di piccole dimensioni con minore sviluppo di gallerie, senza però diminuire la funzionalità e l’efficacia.

L’armamento e la sua protezione

Schema del complesso sistema di funzionamento di una torretta a scomparsa del tipo impiegato sulla Linea Maginot.

Esistono due tipi di protezione per le armi: le casematte e le torrette corazzate.

Le casematte sono dei blocchi in cemento armato spessi fino a 3,5 m in cui vengono installati i pezzi d’artiglieria e le armi di fanteria.

Le torrette corazzate possono essere divise in due categorie:

Le torrette fisse, chiamate “campane” (in francese cloches) servono per l’osservazione e possono essere equipaggiate con diversi tipi di periscopio o, a seconda del tipo, armate con armi di fanteria come fucili mitragliatori e mitragliatrici binate.

L’invasione tedesca durante la seconda guerra mondiale

Il piano di invasione tedesco del 1940 (nome ufficiale Sichelschnitt, ma spesso indicato anche come Fall Gelb) venne studiato tenendo in grande considerazione la Linea Maginot. Una forza civetta si appostò davanti alla Linea, mentre la vera forza d’attacco tagliò attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, attraverso la Foresta delle Ardenne che giaceva a nord delle difese principali dei francesi. In questo modo i tedeschi furono in grado di aggirare la Linea Maginot.

Attaccando dal 10 maggio, le truppe tedesche varcarono i confini della Francia nel giro di cinque giorni e continuarono la loro avanzata fino al 24 maggio, quando si fermarono vicino a Dunkerque. Per i primi di giugno i tedeschi avevano tagliato la Linea dal resto della Francia e il governo francese iniziò a trattare l’armistizio. Quando le forze alleate invasero, nel giugno 1944, la Linea venne ancora una volta ampiamente aggirata, con i combattimenti che toccarono solo una parte delle fortificazioni vicino a Metz e nel nord dell’Alsazia, verso la fine del 1944.

Mentre da nord i reparti corazzati tedeschi avanzavano implacabilmente, il 10 giugno il governo italiano dichiarò guerra ad una Francia quasi in ginocchio e, dopo quasi dieci giorni di stasi nelle operazioni, il 20 gli italiani attaccarono le postazioni francesi senza grandi risultati. Dopo giorni di combattimenti l’esigua avanzata italiana fu aiutata dalla firma dell’Armistizio di Villa Incisa che permise all’Italia di entrare in territorio francese senza incontrare resistenza, concludendo così la Battaglia delle Alpi.

Il dopoguerra

Dopo la guerra la Linea rientrò a far parte delle infrastrutture demaniali militari dello Stato francese, anche se fin dall’inizio ne fu decisa la dismissione, a causa degli enormi cambiamenti che avevano subito le dottrine, le tecnologie e le tattiche di combattimento durante la Seconda Guerra Mondiale, che, di fatto, l’avevano resa assolutamente inutile.

Con la nascita della deterrenza nucleare indipendente della Francia nel 1969, la struttura fu abbandonata e intere sezioni furono vendute all’asta a privati.

Ad oggi gran parte delle strutture sono visitabili, alcune dopo un attento restauro possono essere visitate con all’interno ancora tutti i confort dell’epoca, altre invece sono in parte o del tutto abbandonate ma comunque visitabili con cautela.

La linea come stereotipo

Il termine “Linea Maginot” è stato usato come metafora per qualcosa cui si fa affidamento pur essendo inefficace. In realtà la Linea fece ciò per cui era prevista, sigillando una parte di Francia e costringendo l’aggressore a girargli attorno. Nella visione originaria, la Linea Maginot era parte di un più ampio piano di difesa, nel quale gli attaccanti avrebbero incontrato la resistenza dell’esercito francese, ma i francesi non implementarono l’ultima parte, portando alla perdita di efficacia della Linea.

Forte di Simserhof

É una fortezza di grandi proporzioni composta da tre edifici all’interno dei quali è possibile trovare: torri, percorsi sotterranei, magazzini d’artiglieria e “baracche”. E’ stato costruito tra il 1929 e 1933 ma non è stato utilizzato sino al 1938. Composto da 8 blocchi di combattimento, 2 blocchi d’entrata, 18 pezzi d’artiglieria e 6 cannoni anticarri. Poteva ospitare 800 soldati. Una settimana prima della dichiarazione di guerra il forte era già operativo. Durante la guerra la sua attività si limitava a degli sporadici duelli d’artiglieria contro i cannoni tedeschi situati dall’altra parte della frontiera. Dopo l’armistizio il forte fu occupato dai tedeschi che lo trasformarono in un deposito di munizioni. Dopo la guerra le armate francesi restaurarono il forte e lo rimisero in stato d’attacco. Restò funzionale fino agli inizi degli anni 70. All’interno è presente un museo di artiglieria leggera. La visita aperta al pubblico copre solo 400 metri di galleria contro i 5 km che conta il forte. Per quanto riguarda la parte interna sono presenti numerosi elementi difensivi come per esempio il cancello in ferro ed una trincea coperta da un ponte levatoio, in grado di ruotare verso un altro “appoggio”, al fine di impedire ai veicoli di accedere al forte stesso. Oltre ad una galleria d’entrata è presente una galleria principale che si dirama in numerosi altri tunnel; questa parte del forte conteneva l’infermeria, le cucine e le dispense.

La route des vinscarte-simplifie-GB

Itinerario alla scoperta di una delle regioni vinicole più antiche di Francia. Dove il sole riscalda vigneti che regalano uve sublimi, per etichette eleganti. Un percorso tra Grand Cru e Vendage Tardive da assaporare ospiti delle storiche Maison d’Alsazia, attraverso una strada lunga 170 chilometri

Terra di grande fascino e di storia, l’Alsazia è una delle regioni vinicole più antiche di Francia. Dalle vigne che scendono dai monti Vosgi e arrivano fin quasi alle rive del Reno, si ottengono ogni anno oltre 160 milioni di bottiglie di vino, il 25% del quale è destinato all’esportazione. La fa da padrone il bianco, che ammonta al 20% del totale prodotto in tutta la Francia.

I vitigni coltivati sono sette: il Riesling, forse il più conosciuto, il Pinot gris, una volta noto come Tokay, il Gewürztraminer e lo splendido e meno diffuso Muscat d’Alsace sono i più significativi. A questi vanno aggiunti: il Pinot blanc, delicato e fresco, il Sylvaner, leggero e molto profumato e il Pinot noir, l’unico rosso d’Alsazia, che in questa regione, come nella Loira, si serve freddo.

UN TERRITORIO STORICAMENTE VOCATO – I vini alsaziani devono le proprie caratteristiche, che ne hanno determinato il successo, a due fattori fondamentali: le eccezionali condizioni climatiche e la conformazione dei terreni. Infatti, questa è una zona dove la piovosità è assai scarsa (tra le più basse di Francia) e le ore di sole numerose. Ma non solo, sul microclima giocano un ruolo fondamentale i monti Vosgi, che riparano dai venti e dall’umidità provenienti dall’Oceano Atlantico le vigne distese sui colli del versante orientale. Clima, dunque, ma anche ricchezza e varietà del suolo, che passa dalle zone ricche di granito, gneiss e scisto, fino a quelle silicee e a quelle calcaree, per digradare fino alle piane alluvionali dove poi la vite si ferma. Per quanto riguarda la storia dell’Alsazia, è opportuno sottolineare che le complesse e travagliate vicende storiche, come il fatto che la regione abbia cambiato bandiera quattro volte fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, non hanno impedito lo sviluppo di una tradizione viticola che affonda le proprie radici al tempo dei Romani. Alla fine del primo millennio si contavano oltre 160 distretti dediti alla coltura della vite e nel Medioevo i vini alsaziani erano considerati fra i più cari del mondo; alla fine della seconda Guerra mondiale, nonostante le devastazioni del periodo bellico, erano molte le vigne storiche sopravvissute.

LE DENOMINAZIONI – Oggi l’Alsazia è una regione vinicola fra le più avanzate d’Europa: all’avanguardia sia sotto il profilo della tutela del territorio e della qualità sia a titolo turistico, proponendosi come una destinazione d’eccellenza per il visitatore appassionato. I vini sono identificati in base al livello qualitativo e si distinguono in Appellation Aoc Alsace e Appellation Aoc Alsace Grand Cru: per aver diritto all’Appellation d’Origine Contrôlée Alsace Grand Cru, i vini devono provenire da uve raccolte in 52 territori titolati e strettamente delimitati dei vigneti alsaziani. Sono solo quattro i vitigni autorizzati a divenire grand cru: Riesling, Gewürztraminer, Pinot gris e Muscat d’Alsace; la gradazione alcolica minima deve essere di 10° per il Riesling e di 12° per il Muscat, il Gewürztraminer e il Pinot gris, con un rendimento massimo autorizzato di 70 ettolitri per ettaro. L’etichetta dei grand cru deve indicare obbligatoriamente, oltre alla Aoc, anche la località, il vitigno e il millesimo di riferimento. A questa classificazione se ne aggiungono altre due: Vendage Tardive, per vini ottenuti con uve vendemmiate in sovramaturazione, e Sélection de grains nobles, per prodotti con grappoli raccolti e selezionati a mano e, solitamente, aggrediti dalla muffa nobile, la Botrytis cinerea. Una categoria a parte riguarda i Crémant d’Alsace, spumanti ottenuti con il Metodo Classico, principalmente da uve Pinot blanc.

LUNGO LA STRADA DEL VINO: DOMAINES SCHLUMBERGER – I vini di questa regione sono caratterizzati da notevole eleganza e concentrazione superlativa, capaci di regalare grandi emozioni in abbinamento con i cibi ma, specie nel caso delle Vendages Tardives e delle Sélection de Grains Nobles, possono diventare grandi vini da meditazione. La Strada dei vini Alsaziani prende il via nei pressi di Mulhouse, capitale europea dei musei della tecnica. Lasciata la città, si raggiunge Thann, dove cominciano i 170 chilometri di un percorso goloso dove le soste sono scandite dalle visite alle Cantine e dalla scoperta di un territorio costellato da numerosi paesini da scoprire e gli infiniti appuntamenti con la gastronomia locale. La prima tappa enologica si trova a Guebwiller, unico paese in Alsazia a vantare quattro grand cru (Kitterlé, Kessler, Saering e Spiegel), dove ha sede l’azienda vinicola Domaines Schlumberger, perfetto esempio di equilibrio di tradizione e modernità. Su 140 ettari di vigna 70 sono classificati grand cru, 30 beneficiano di un regime biodinamico e i terreni ripidissimi vengono ancora arati con i cavalli: dispone inoltre di 120 grandi botti di legno secolari alle quali è stato applicato un moderno sistema di termoregolazione, e le rese per ettaro sono bassissime (45 ettolitri su tutta la proprietà). Il risultato è una serie di vini che si caratterizza per eleganza, finezza e concentrazione su tutta la gamma: brillano i grand cru, in particolare il Gewürztraminer Kessler, vino sensuale, di grande struttura, con il suo naso complesso, speziato e floreale e il gusto rotondo e vellutato con ricordi di rose, frutti esotici, spezie e quel finale così fresco e pulito; da ricordare anche il Riesling e il Gewürztraminer della linea Les Princes Abbés, per non parlare delle splendide vendemmie tardive prodotte solo nelle annate migliori. Si lascia la Cantina degli Schlumberger con la sensazione di aver incontrato persone con un rispetto estremo della terra.

MAISON FRICK – Di nuovo in viaggio, si supera il borgo di Rouffach, dominato dal castello d’Isenbourg, oggi trasformato in un raffinato hotel cinque stelle, prima di arrivare a Pfaffenheim, piccolo paesino che ospita l’azienda della famiglia Frick, 12 generazioni di vignaioli nel medesimo luogo e una conoscenza e una sensibilità nei confronti del territorio che li ha portati a scelte anche radicali. Nel 1970 la conversione di tutto il domaine in agricoltura biologica, nel 1981 le prime sperimentazioni in regime biodinamico e dal 2002 la decisione di abbandonare il tappo di sughero a favore di capsule coronate in acciaio inox con un disco di polietilene che assicura l’impermeabilità. Una scelta che Pierre Frick motiva con l’impossibilità di reperire sul mercato prodotti in sughero che garantiscano la salute del vino. Il regime biodinamico interessa tutti gli stadi della vinificazione e l’uso di prodotti chimici è scomparso dalla cantina. Dal 1999 alcune delle cuvée vengono imbottigliate senza zolfo. Il risultato sono vini che non tradiscono quel carattere un po’ sempliciotto di certi biodinamici che s’incontrano dalle nostre parti. I vini della Maison Frick risultano fini, equilibrati, caratterizzati da notevole struttura e complessità che raccontano con grande personalità il terroir di cui sono figli. Vogliamo ricordare lo splendido Gewürztraminer Vendages Tardives – Grand Cru Steinert, con i suoi sentori di rosa, liquirizia e ananas, il gusto rotondo con ricordi di miele, di mela cotogna e rosa e il finale lunghissimo reso ancor più fresco dalla nota di ginepro che rimane in bocca, ma anche il Riesling e il Gewürztraminer della linea Cuvée Precieuse che si fanno notare per la loro pienezza oltre che per il rapporto qualità – prezzo.

MAURICE SCHUELLER – Pochi chilometri più a nord, a Gueberschwihr, opera l’azienda vitivinicola Maurice Schueller, un altro piccolo produttore capace di ottenere vini di enorme personalità. Una Maison che conta una dozzina di ettari lavorati in maniera molto tradizionale, il privilegio di avere tre vigne nel grand cru Goldert e un vitigno, il Muscat d’Alsace, che la famiglia Schueller sa portare allo stato dell’arte. Provatene una bottiglia insieme agli asparagi con le uova e il burro fuso e scoprirete un vino, da noi poco conosciuto, completamente diverso dal suo omonimo della Loira; un prodotto di notevole eleganza e pulizia rigorosa, secco, rotondo e fruttato, assai complesso, dal naso ampio, di aromaticità schietta. Il gusto è minerale, pieno, con sentori di agrumi, quarzo, anice. Il finale lunghissimo, di grande pulizia, con ricordi balsamici. Fra i vini di Schueller, da ricordare anche un Riesling da vecchie vigne, che sposa splendidamente il cotechino e poi un ottimo Gewürztraminer Grand Cru Goldert da abbinare ai formaggi erborinati. Colmar è alle porte, con i suoi vecchi edifici, le ricche facciate, i canali e i vicoli. Percorrendo la zona pedonale, una delle più grandi d’Europa, si può ammirare il patrimonio artistico che va dal Medio Evo al XX secolo. Molto caratteristico il Quai de la Poissonnerie, quartiere dove un tempo veniva venduto il pesce, oggi chiamato Petite Venise.

ZIND HUMBRECHT – Lasciata Colmar, si entra nella parte più suggestiva dell’Alsazia con i colli e i vigneti che regalano una successione emozionante di prospettive. Uno dei paesi più caratteristici è proprio Turckheim dove si trova la Cantina Zind Humbrecht, uno dei nomi meglio conosciuti della regione. Costruita agli inizi degli anni Novanta nel vigneto dell’Herrenweg, è una struttura notevole, edificata con criteri di risparmio energetico e di ergonomia del lavoro. Il Domaine Zind Humbrecht è condotto dal Duemila in regime di coltura biodinamica e l’uso di anidride solforosa per il mantenimento dei vini è quasi bandito; le rese per ettaro vengono tenute a limiti bassissimi e le maturazioni ritardate al limite dell’equilibrio alcool/acidità, al fine di ottenere vini di grande struttura e potenza, conferendo agli stessi una longevità inusuale, che può tranquillamente oltrepassare i 25/30 anni in condizioni di assoluta freschezza. La genialità e l’intraprendenza della famiglia Humbrecht con Léonard e sua moglie Généviève che hanno creato la proprietà, affiancati oggi dal figlio Olivier e da sua moglie Margaret, ha dato vita a un’azienda di riferimento in Alsazia che oggi vanta 40 ettari in proprietà, fra i quali si distinguono il Clos Saint Urbain au Rangen de Thann, in cui si producono Riesling, Pinot gris e Gewürztraminer (Alsace Grand Cru), un vigneto unico, cioè un monopole, con una pendenza di oltre il 70%. I vini che nascono da queste uve sono unici come la terra che li genera: basti pensare allo strepitoso Clos Saint-Urbain Grand Cru Pinot gris. Seducenti per l’equilibrio fra potenza, concentrazione ed eleganza anche Hengst Grand Cru Gewürztraminer e il Brand Grand Cru Riesling.

MEYER-FONNÉ – La strada dei grand cru prosegue serpeggiando fra le vigne fino all’abitato di Niedermorschwihr, dove si resta incantati dal profumo delle marmellate di Christine Ferber. Tra le confetture più sfiziose ci sono quelle allo Champagne Veuve Clicquot, alle fragole di bosco con i petali di rosa e all’amarena e menta. Subito a nord di Niedermorschwihr si entra a Katzenthal dove va visitata la Cantina Meyer-Fonné. Viticoltori da tre generazioni, 12 ettari di vigna sparsi in sette comuni nel cuore dell’Alsazia, cinque grand cru (Wineck-Schlossberg, Kaefferkopf, Furstentum, Sporen e Schoenenbourg) e una filosofia di lavoro che fa cardine sul concetto di flessibilità. Una flessibilità volta ad assecondare le necessità delle diverse vigne, delle diverse stagioni e annate, per ottenere vini sempre vicini al territorio e aderenti alle mutevoli condizioni che la natura impone. Un’attitudine di grande rispetto che filtra nel carattere unico dei vini di casa Meyer-Fonné. Nota a livello internazionale per i suoi Gewürztraminer marcati da un’acidità vibrante, fra i vini di questa Cantina brilla anche il Muscat Vignoble de Katzenthal, snello, fresco, di grande finezza, da provare come aperitivo. Splendido il Riesling Grand Cru Wineck-Schlossberg di eleganza e profondità siderali che ben si sposa con le preparazioni a base di uova, in particolare omelette e sformati agli asparagi.

BINNER – Ecco Ammerschwihr dove incontriamo un’altra famiglia di vignaioli votati alla produzione di vini totalmente naturali: i Binner. Viticoltori dal 1770, oggi dispongono di 11 ettari di vigna dislocati per lo più nei tre superbi grand cru di Schlossberg, Kaefferkopf e Wineck-Schlossberg. I Binner vinificano esclusivamente le proprie uve, un dato questo, che non è scontato in Alsazia dove molti le acquistano, e a volte comprano addirittura il succo. Non solo, l’azienda, condotta con passione dai quattro membri della famiglia, vanta pratiche di agricoltura biologica e biodinamica certificata, inerbamento del terreno fra i filari per proteggerlo dall’erosione, vendemmie in ottobre e novembre per ottenere la massima concentrazione, e raccolte esclusivamente manuali. La vinificazione parte da una spremitura lenta e prolungata, quindi fermentazioni lunghe a bassa temperatura, senza alcuna aggiunta o pratica di cantina, affinamento sui lieviti in grandi botti di legno centenarie, nessun filtraggio e riposo in bottiglia per almeno tre anni prima della commercializzazione. Per molti sarebbe un puro suicidio commerciale, ma non per i Binner. I vini sono potenti, pieni di carattere oltre che di struttura. Citiamo il Riesling Grand Cru Schlossberg, vino immenso ma elegante, potente ma rigoroso, che nasce sul granito della valle di Kaysersberg, dove la roccia letteralmente affiora e regala quella mineralità che caratterizza questo Riesling pieno, indimenticabile e capace di lungo invecchiamento. Altrettanto unico il Muscat Kaefferkopf Cuvée Beatrice, splendido, nitido, aromatico, caratterizzato dal finale lunghissimo fresco e minerale. Interessante è poi provare anche l’ottimo Riesling Wineck-Schlossberg per capire quanto sia evidente la differenza di vigneto a parità di vitigno e lavorazione.

WEINBACH, PAUL BLANK E SIPP-MACK – Arrivati a Kaysersberg, borgo fortificato sul fiume Weiss, con la sua spettacolare conca di vigneti, bisogna visitare il Domaine Weinbach dove Colette Faller, insieme alle sue due figlie, produce etichette fra le più titolate d’Alsazia. Si tratta di vini di grande eleganza e sensualità, basti pensare al Riesling Grand Cru Schlossberg Cuvée Sainte Catherine L’Inedit!, vino di splendida raffinatezza e maturità, in perfetto equilibrio fra snellezza nitida e corposità opulenta, da abbinare all’astice e alle capesante. Poco lontano, a Kientzheim, ci si può fermare al Domaine Paul Blanck, famiglia di vignerons dal 1610. Oltre a visitare la cantina, si assaggiano gli ottimi vini che Chantal Blank illustra con passione. Brilla lo strepitoso Riesling Grand Cru Furstentum Vieilles Vignes, capace di invecchiare a lungo, regalare grandi emozioni e accompagnare situazione che vanno dai formaggi di capra, ai crostacei fino alla meditazione. Subito prima di arrivare a Ribeauvillé, si incontra l’abitato Hunawihr in posizione particolarmente bella circondato da un anfiteatro spettacolare di vigne. È qui che incontriamo Jacques Sipp, titolare dell’azienda Sipp-Mack, che ci racconta con passione e competenza come nascono i suoi vini grazie alle prerogative di un terroir particolarmente vocato. La verticale dei suoi Riesling Grand Cru Rosacker è indimenticabile. Il 2000 è uno dei Riesling più interessanti mai provati, caratterizzato da un bouquet ampio, complesso, fine. Di grande mineralità, con sentori di pietra focaia, idrocarburi appena accennati, quarzo, banana, cedro caramellato e pompelmo rosa. Il gusto è secco, potente, quasi opulento con note di spezia, fichi, tabacco e incenso. Il finale lunghissimo regala ricordi balsamici, di limone e nocciola tostata. Si tratta di un vino da invecchiare almeno 15 anni e bere da solo, oppure tentando un abbinamento con i frutti di mare.

RÉMY GRESSER – A Ribeauvillé bisogna fermarsi alla Maison Liesel, tempio del foie-gras, perfetto con certi Pinot gris e Gewürztraminer della zona. Da non perdere anche la Cantina di Jean Paul Metté, dove si possono degustare oltre 80 distillati. I più curiosi sono all’aglio, al basilico, agli asparagi e al pepe. Il viaggio prosegue in direzione di Andlau, a metà strada fra Colmar e Strasburgo, per visitare una delle aziende più interessanti d’Alsazia: Rémy Gresser. Quattro secoli di storia, 10 ettari e mezzo di vigna, tre grand cru (Kastelberg, Wiebelsberg e Moenchberg), una filosofia di vita e di lavoro che mette il terroir al centro di ogni scelta: dall’agricoltura biologica e biodinamica al rispetto per l’equilibrio naturale fra flora e fauna che permette all’uomo di svolgere il proprio lavoro in armonia con l’ambiente che lo circonda. Una convinzione che si esprime anche in cantina dove i ritmi della fermentazione e della maturazione dei vini di Gresser sono determinati dalla natura. Assolutamente formidabile il Riesling Grand Cru con la sua elegante mineralità, in perfetto equilibrio fra concentrazione e pulizia. Si tratta di un vino che esprime in modo netto il terroir, molto fruttato al naso, complesso e rigoroso in bocca, con un finale lunghissimo e fresco. Vino capace di regalare notevoli sensazioni. Ottimo con il sushi e i crostacei. Seducente il Gewürztraminer Duttenberg Vieilles Vignes, un vino quasi opulento, ma fresco, minerale, pieno, concentrato e potente, dove l’acidità regala lunghezza aerea a un finale di grande pulizia. Da ricordare anche l’ottimo Pinot gris Clos de l’Ourse Vieilles Vignes; di grande struttura e concentrazione, è caratterizzato dall’equilibrio fra estratto, residuo zuccherino e acidità. Ne esce un vino inconsueto e intrigante, tanto al palato quanto per gli abbinamenti che vanno dal foie-gras spadellato fino alle carni bianche e il pollame. Ultima tappa a Barr dove rimane uno degli ultimi bottai della regione e quindi attraverso un paesaggio ordinato dalle vigne si torna verso la pianura prima di raggiungere Strasburgo con i suoi canali, i suoi palazzi á colombage e il parlamento europeo.

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Una doppia cerchia muraria, porte austere e torri massicce, degne di una fiaba cavalleresca, ci danno l’idea che il piccolo borgo alsaziano di Riquewihr (in francese Riquevire) sia un gioiello che merita di essere protetto. Se un tempo le fortificazioni servivano da difesa contro gli attacchi nemici, oggi lo scrigno antico delle mura fa da spartiacque tra il sogno e la realtà, come ad avvertire i visitatori che stanno per addentrarsi in un mondo magico. E in effetti l’atmosfera che si respira in questo lembo orientale della Francia, nel dipartimento dell’Alto Reno, sa inebriare i sensi e stuzzicare l’immaginazione, risvegliando emozioni dimenticate.

Sarà perché Riquewihr è piccola, a misura di bambola, e conta appena 1200 anime; sarà perché è circondata da paesi altrettanto interessanti come Colmar e Ribeauvillé… fatto sta che la cittadina viene considerata tra le più belle del paese, e pochi riuscirebbero a sostenere il contrario: aldilà delle antiche mura c’è una campagna dai toni caldi, con colline dolci traboccanti di vigneti e costellate di borghi minuti. In settembre il sole inonda i campi di una bella luce ambrata, e le viti luccicano con i loro acini dolci, pronti ad essere utilizzati per la produzione di un Riesling squisito.

Ma la quiete attuale non ha sempre regnato a Riquewihr: la storia ha messo a dura prova le sorti del centro, facendolo scenario di guerre e battaglie, eppure gli edifici più belli hanno scampato i maggiori pericoli e oggi si possono ammirare le architetture locali nella veste originaria del XVI secolo. Una vicenda curiosa si era verificata nel XIV secolo: nel 1324 i signori di Riquewihr avevano venduto il feudo al Duca di Wurtemberg, ma il Vescovo di Strasburgo, non essendo stato informato dell’operazione, aveva deciso di colpire il maggior tesoro del borgo, le cantine. Ai soldati venne ordinato di ingurgitare quanto più vino potessero, e il resto venne caricato su dei carri diretti a Strasburgo.

Eppure nessuna controversia è mai riuscita a impoverire davvero Riquewihr, o almeno non a lungo, e grazie alle vigne e alle sue bellezze architettoniche, cui si aggiungono un’accattivante tradizione culinaria e suggestive feste nell’arco dell’anno, la cittadina ha fatto innamorare innumerevoli visitatori anno dopo anno. Il centro storico è completamente pedonale, dominato dalla quiete: soltanto il corri corri dei pedoni nei momenti più vivaci, il chiacchiericcio allegro dei passanti e la musica di qualche artista di strada spezzano la tranquillità. La Rue Général de Gaulle attraversa la cittadella ed è costeggiata da vecchie case: da vedere la Maison Irion del 1606, col suo grazioso balcone angolare, poco lontana dal vecchio pozzo del XVI secolo. E ancora la Maison Jung-Selig del 1561 con le travi scolpite, la Maison Liebrich del 1535 con la sua corte accogliente, la Maison Behrel del 1514 e la Maison Preiss-Zimmer, antica Locanda della Stella, del 1686. Infine la casa del fabbricante di chiodi del 1660.

Ma la fiaba vera comincia dalla Torre del Dolder, indiscutibile simbolo della città: qui, in questa struttura medievale in pietra che funge anche da porta d’accesso, da torre campanaria e da torre di guardia, è allestito il ‘Museo di storia locale’. All’interno della fortificazione del 1291, rinforzata nel corso del XV e del XVI secolo, oggi si possono ammirare utensili di vario tipo, tra mobili austeri, incisioni interessanti, armi e attrezzi da lavoro.

Eppure non c’è bisogno di visitare un palazzo in particolare o di entrare in un museo per respirare un po’ di storia e comprendere lo spirito autentico dell’Alsazia: tutto, a Riquewihr, sembra un’opera d’arte raffinata, testimone di un momento storico glorioso e allo stesso tempo di un gusto delicato, che ricorda il paese dei balocchi. L’intreccio di strade è orlato di dimore antiche, dai colori accesi e le decorazioni caratteristiche, con balconi traboccanti di fiori e i comignoli fumanti nella stagione più fredda.

Proprio la stagione fredda è senza dubbio quella più affascinante, quando l’aria pungente fa apprezzare ancora di più il tepore di una taverna o la dolcezza ristoratrice di una bevanda calda. È anche il momento dei festeggiamenti, e infatti il borgo indossa l’abito della festa, tempestato di luci e gremito di bancarelle: nel periodo natalizio la via principale del paese è completamente invasa dal mercatino di Natale, con l’esposizione di oggetti artigianali e di dolciumi tipici dal profumo speziato. Le case a graticcio si colorano di addobbi e il negozio di Käthe Wohlfahrt si trasforma in un vero e proprio ‘villaggio natalizio’, allestito all’interno di una dimora colombage e popolato di streghe, gnomi e folletti. Nelle botteghe, nelle piazze e nelle strade cittadine l’incanto dura dalla fine di novembre alla fine di dicembre, ma in ogni periodo dell’anno è un piacere camminare nel centro di Riquewihr e scoprire le bellezze paesaggistiche dell’Alsazia.Colmar3

Il merito è anche del clima, caratterizzato da inverni rigidi con un’aria pura e argentina, e da estati miti con temperature non troppo alte, mai appesantite dall’afa.

Ristorante a Riquewihr

Ribeauvillé

Ribeauvillé (in tedesco Rappoltsweiler) è un comune francese di 4.929 abitanti situato nel dipartimento dell’Alto Reno nella regione dell’Alsazia.

Nel medioevo, i signori di Ribeauvillé erano “re” dei menestrelli e trovatori di tutta l’Alsazia.

La leggenda narra di un signore della città che, incontrando in strada un pifferaio disperato per aver perduto il proprio strumento, attorniato dalla sua famiglia in lacrime terrorizzata dalla fame incombente, gli regalò una borsa di monete, dimenticando subito l’episodio.ROUTE-DE-VIN-ALSACE-001

Qualche giorno dopo arrivò al castello un grande sorprendente corteo, capeggiato dal pifferaio che suonava uno strumento tutto d’oro, composto da tutti i possibili artisti ambulanti: suonatori di trombe e tamburi, menestrelli, domatori di orsi, di cani, di gatti, di scimmie – e insomma tutta la straordinaria corporazione degli artisti ambulanti, che veniva a nominarlo proprio re, in segno di gratitudine per la sua generosità.

Così da allora, tutti gli anni, quelli che oggi chiamiamo musicisti ed artisti di strada convennero a Ribeauvillée per una grande festa. Questa festa dei menestrelli si ripete ancor oggi, la prima domenica di settembre, con un grande corteo folkloristico e festival di musica medioevale.

Castello di Haut-KœnigsbourgChateauduHautKoenigsbourg1

Il castello di Haut-Kœnigsbourg (in francese: château du Haut-Kœnigsbourg; in tedesco: Hohkönigsburg) situato sulla cima del monte Stophanberch (755 m), in Alsazia nel comune di Orschwiller presso Sélestat e Saint-Hippolyte, venne citato per la prima volta nel XII secolo.

Lo Stophanberch o Staufenberg si trova all’incrocio di importanti vie commerciali: del grano e del vino (la route des vins, in direzione N-S) e dell’argento e del sale (in direzione O-E) e nel 1114 Federico II di Svevia ne iniziò la costruzione ben comprendendone l’importanza strategica.

Di proprietà degli Asburgo, passa ai Tierstein (come feudo) nel 1479. Questi lo ricostruirono e munirono di artiglieria per un adeguato sistema difensivo.

Durante la Guerra dei Trent’anni il castello resistette per oltre un mese all’assedio degli svedesi ma, alla fine, cadde, venne saccheggiato ed incendiato.

Dopo oltre due secoli di abbandono, nel 1865 divenne di proprietà della non lontana città di Sélestat, la quale nel 1899 fece dono di queste rovine (peraltro conservatesi molto bene) all’imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern. Dal 1871 infatti l’Alsazia era parte dell’Impero tedesco.

Il restauro venne affidato all’architetto Bodo Ebhart, un esperto di fortificazioni e studioso del medioevo, ed i lavori durarono dal 1900 sino al 1908 mentre le rifiniture continuarono fino al 1918.

Un anno dopo, nel 1919 col trattato di Versailles i beni della corona tedesca passarono alla Francia che divenne così proprietaria di Haut-Kœnigsbourg.chateau-haut-koenigsbourg3

Nel 1936, è uno dei luoghi in cui si svolgono le riprese del film La grande illusione di Jean Renoir.

Cenni architettonici

L’attuale castello è il risultato di una minuziosa opera di recupero architettonico, effettuata da Ebhart secondo le indicazioni dell’imperatore Guglielmo II il quale intendeva fare del castello un museo del medioevo oltre che un simbolo della potenza dell’impero.

I lavori di restauro iniziarono da rilievi fotografici, partendo dalle tracce romaniche ancora presenti, ed Ebhart per la ricostruzione di parti fondamentali (mancanti) studiò l’architettura di castelli analoghi del medesimo periodo storico.

Il risultato della ristrutturazione fu controverso anche se, come effetto finale, il castello ora rende bene l’idea di ciò che doveva essere una roccaforte del XV-XVI secolo.

FRIBURGO

La Friburgo tedesca (ne esiste anche una omonima in Svizzera) è storicamente nota come la capitale della Foresta Nera ed è qui che infatti questa bella cittadina universitaria è situata, nella regione amministrativa di Baden-Württemberg, a circa 40 km dal confine francese e 60 dalla vicina Svizzera.

La sua collocazione ne fa una delle città tedesche di maggiore attrativa turistica e giovanile, e non solo. Gli amanti della natura la prediligono per la sua suggestiva geografia e il suo particolare territorio di origine vulcanica. Non mancate di visitare la selvaggia Foresta Nera che si estende, tra verdi vallate e laghetti romantici, per circa 13.500 km² al confine con la Francia e la Svizzera; o di ammirare la suggestiva valle di Hollental (la Valle dell’Inferno) dove gli amanti del trekking troveranno, tra sentieri e piccole cascate, la direzione per raggiungere il monte Zugspitze, la montagna più alta della Germania, situata al confine con l’Austria.

Terra di origine vulcanica, tutta l’area di Friburgo gode inoltre di un clima mite e solare, pare infatti essa sia la regione più calda della Germania. Tale è la combinazione favorevole tra clima e territorio che Friburgo è anche conosciuta per la sua storica produzione di vini.

Tra i giovani, e in particolare nell’ambiente Erasmus, la bella e solare Friburgo è conosciuta per essere una cittadella universitaria, sicuramente la più popolare in Germania, arrivando ad avere una popolazione universitaria di ben oltre i 25 mila studenti. Ma il numero degli studenti cresce ogni hanno sempre più, visti i nuovi progetti in ambito comunitario e internazionale come il nuovo Erasmus Mundis. Rimasta per ben quattro secoli sotto la corona austriaca, Friburgo ha orientato la propria vita economica e intellettuale attorno alll’Università, che fu appunto fondata nel 1457.

La cittadina in se che conta poco più di 250.000 abitanti offre numerosi siti culturali, storici e architettonici, tra questi l’emblema di Friburgo, la sua Cattedrale (Münster) con il suo alto campanile in stile gotico (116 m) la cui cima si raggiunge con 600 piccoli gradini, l’antico edificio artigianale Kaufhaus o le antiche porte della città o la verde collina Schlossberg; e ancora colorati ristorantini, locali all’aperto e piccole taverne o bars, punto di incontro del mondo universitario, il tutto condito dalla purezza dell’aria e dai profumi della foresta.header_Freiburg-Altstadt-dpa21384689

Di particolare interesse sono, inoltre le tradizioni locali di Friburgo, come il festival del vino nella seconda metà di settembre o il Carnevale (Carneval as Freiburg) celebrato in maniera peculiare con danze nelle strade.

Anche l’urbanistica è una tradizione a Friburgo e questo è in particolare accentuato dai noti Bächle, dei piccoli canalini pieni d’acqua, più comunemente chiamati ‘rivoli’ (larghi circa 30 cm e profondi 5-10 cm), presenti nelle strade pedonali del centro della città; un tempo venivano costruiti come parte del sistema fognario e usati per sopperire alle emergenze portate dal fuoco in caso di incendi. Non si possono poi non notare i caratteristici ‘mosaiken’ di Friburgo, dei disegni a mosaico situati a fronte negozio nella pavimentazione dei marciapiedi che raffigurano l’attività del locale: un mosaico raffigurante una caraffa di birra quindi indica un pub, Gasthau, (che inoltre sono anche rappresentati da delle caratteristiche statue satiriche in legno), un diamante indica la presenza di una gioielleria, una mucca di una macelleria, e così via.

Le attrazioni a Friburgo non mancano e il visitatore ha una vasta scelta attrazioni da ammirare, dalle vellutate colline della Foresta Nera al simbolo cittadino della Cattedrale di Munster che insieme alle tante vive attrazioni culturali, ai bar, i ristoranti o ai club fanno di Friburgo una delle mete più ambite delle Germania e del suo confine con la Francia e la Svizzera.Friburgo,-Alemania

Ristoranti a Friburgo

La cucina dell’Alsazia

L’Alsazia è terra di alta cucina e patria di innumerevoli specialità. Il genio della cucina alsaziana consiste nel saper adoperare gli ingredienti più semplici (uova, patate, cavoli, ecc.) per creare veri e propri capolavori. È una cucina di origine contadina “imborghesita” da creazioni deliziose quali il foie gras, il pâté in crosta e la pasticceria, senza tradire la sua essenza.

-Birra

I birrai alsaziani erano riuniti in corporazione già nel 1268! E oggi la loro passione per la birra è la stessa di allora. Più della metà della birra consumata in Francia viene infatti prodotta in Alsazia.

Le birrerie

-Bibeleskäs

Questo formaggio fresco contadino viene servito con patate saltate. C’è chi lo preferisce su un letto d’aglio, di prezzemolo, di erba cipollina o di cipolla.

-Pretzel

Questo salatino a forma di cuore è il simbolo dei panettieri fin dal XIV secolo. La sua origine è tanto lontana quanto misteriosa.

Baeckeoffe

Pasticcio di patate stufate nel vino bianco alsaziano che associa tre tipi di carne: maiale, manzo e montone. Viene cotto in un piatto speciale sigillato da una pasta salata.

-Carpe (“carpa”)

Allevata negli stagni fin dal XII secolo, viene degustata in vari modi, fra cui le ricette della cucina tradizione ebraica.

Choucroute

Il cavolo grattugiato e messo a salamoiare nelle botti, una volta era l’unica verdura invernale. La choucroute, piatto forte della gastronomia alsaziana, viene consumata in tutte le stagioni, guarnita da salumi o, in versione “light”, pesce.

-Civet (“salmì”)

La lepre e il coniglio trovano in da questa salsa marinata nel vino il condimento perfetto. Come contorno: spätzle, nouilles pasta all’uovo o pflüte (polpettine di patate).

Flammekueche o Tarte flambée

Per molti ristoranti di campagna rappresenta praticamente l’unica scelta. E’ una pasta sottile ricoperta di crema acida, cipolle e lardelli e servita su di un tagliere di legno. È una specie di pizza che si divide fra i convitati e si mangia con le dita. È inutile ordinare il bis: ve ne portano fino a che non dite stop.

-Fleischschneke

I fleischenschneke (“girelle di carne”) vengono preparati mettendo della carne su uno strato di pasta che viene arrotolata, tagliata e bollita nel brodo. Ecco un altro tesoro il cui segreto è custodito dalla cucina alsaziana.

-Foie gras

Il pâté de foie gras d’oca è stato inventato dal cuoco strasburghese Jean-Pierre Clause intorno al 1780, ma un valido contributo era stato dato dai Romani, per aver introdotto il bel volatile in Alsazia, e dagli ebrei, esperti nell’arte dell’ingrassaggio e della conservazione del fegato, che avevano portato con sé dopo la fuga dall’Egitto.

Kougelhopf

Simbolo dell’Alsazia a tavola, questo dolce briosciato ha una forma particolare che invita alla condivisione. Dolce o salato, viene assaporato con uvetta e mandorle, o in versione salata con lardelli e noci.

-Knack

Queste salsicce devono il proprio nome allo schiocco che producono sotto i denti (“knacken” in tedesco). Sempre presenti sulla choucroute, le knack sono l’ospite d’onore di tutte le feste di paese.

-Lewerknepfle (polpette di fegato)

E un piatto delizioso che esprime bene lo spirito della “cucina della nonna”, che sfrutta le frattaglie con creatività.

-Männele (“omino”)

Brioche a forma di omino che viene fatta a dicembre intorno alla festa di S. Nicola. In Alsazia, tutti i momenti importanti del calendario corrispondono a un dolce particolare.

-Matelote

Tranci di pesci d’acqua dolce assortiti, arricchiti da una crema al Riesling e serviti con nouilles.

-Munster

L’invenzione di questo formaggio è attribuita all’abbazia di Munster e risalirebbe al 1339 circa. Il suo odore forte non ha niente a che vedere con il sapore, delicato e gustoso. Il munster si gusta freddo o fuso sulle patate.

-Navets salés (“rape salate”)

Sono rape bianche tagliate in grosse strisce e messe in salamoia come la choucroute. È un piatto invernale che accompagna lo zampetto o le salsicce.

-Pâtes (“pasta”)

Per secoli si è creduto che gli inventori della pasta fossero gli Alsaziani (quando ancora non si conoscevano i Cinesi). Una cosa è certa, la pasta alsaziana, ricca di uova, è unica al mondo.

-Pasticcini

Gli alsaziani vanno pazzi per i pasticcini. Le creazioni contemporanee a base di mousse di frutta si sposano benissimo con quelle classiche: crostate di frutta o al formaggio, brioches, meringhe glassate, ecc…

-Presskopf

Del maiale non si butta niente, dice il proverbio. Questo pâté, anche conosciuto come “fromage de tête” (“formaggio di testa”) ne è l’esempio più lampante.

-Quetsche (“susina”)

La prugna, che nel Sud della Francia si fa seccare, qui ha un altro destino: viene gustata nelle torte, nelle marmellate o nei distillati.

-Raifort (“rafano”)

Il rafano, letteralmente “radice forte”, è una pianta della famiglia della senape. È un condimento che accompagna perfettamente con il suo sapore deciso la carne da lesso.

-Roïgebradeldi

I roïgabrageldi fanno parte del pasto montanaro servito negli agriturismi dei Vosgi. Sono patate cotte a fuoco lento con cipolle e lardelli, a riprova che anche con gli ingredienti più semplici, la cucina può raggiungere vette inaspettate.

-Salade de pommes de terre (“insalata di patate”)

Servita fredda o tiepida, quest’insalata ben condita accompagna knack, prosciutto o spalla affumicata.

-Spätzle

Pasta grossa e irregolare che in altri tempi si faceva in casa. Accompagna perfettamente la lepre in salmì o il coq au vin

.

-Torta di cipolle

E’ un tipico stuzzichino da birreria servito in tutti i winstub. Per le buone forchette fa da antipasto, per gli altri è un delizioso piatto unico.

-Tourte (“pasticcio”)

La tourte vigneronne (“pasticcio del vignaiolo”) è uno dei piatti serviti negli agriturismi. È fatta di carni marinate e messe in una pasta sfoglia, spesso con l’aggiunta di una goccia di Riesling: una vera delizia.

-Schnaps (acquavite)

L’acquavite spesso conclude un buon pasto. Può essere a base di fragole, lamponi, prugne, mirabelle, susine, ciliegie, pere o gewurtztraminer. Dallo schnaps nasce la “Schnapsidea”: termine grazioso che designa l’idea geniale e bislacca che cambierà il mondo.

Vini alsaziani

L’Alsazia è una grande regione vinicola. I suoi vini “DOC“ sono conosciuti per i loro ceppi; ce ne sono 7: Gewurztraminer, Moscato, Pinot bianco, Tokay Pinot Grigio, Pinot Nero, Riesling e Sylvaner. Apprezzati in tutto il mondo, questi grandi bianchi fruttati e leggeri si degustano all’aperitivo e accompagnano a meraviglia la choucroute o il pesce.

Wädele

Piccolo zampetto o spalla di maiale che si serve spesso con la choucroute. È il piatto tipico dei winstub.

Winstubs

Locande che fanno da bere e da mangiare, famose per la loro convivialità. La cucina è tradizionale e l’atmosfera spesso eccezionale.

Acquisti

Vini: ovviamente i già citati Riesling, Gewurztraminer, Sylvaner, Pinot banc e noir nelle cantine o in negozi specializzati

Leccornie: l’Alsazia è famosa per la preparazione del foie gras (fegato d’oca) confezionato in vasi di vetro fatevi consigliare nei negozi. Di ottima qualità è anche il formaggio Munster acquistato confezionato per evitare in pullman odore.

Ceramica: stampi per dolci e boccali sono famosi e splendidamente decorati

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Addobbi natalizi: in quasi ogni cittadina che visiteremo troverete negozi che tutto l’anno vendono decorazioni natalizie di grande pregio e originalità.

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La Romantische Strasse – la strada Romantica-


Rothenburg ob der Tauber Germany 

 

 La Strada romantica (in tedesco Romantische Straße) è uno dei percorsi turistici tedeschi più famosi e frequentati. La strada parte dal Meno, attraversa la Franconia occidentale fino alla Svevia, passa in Alta Baviera ed arriva alle Alpi tedesche. Il percorso è lungo 366 km ed ha come estremità Würzburg e Füssen.

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Nördlingen è un comune tedesco di 20.122 abitanti, situato nel land della Baviera ed appartenente al circondario del Donau-Ries.

Storia

“Nordilinga” venne menzionata in un documento come una “corte reale” nel 898. Nel 1998 Nördlingen ha festeggiato il suo millecentesimo anniversario. La cittadina conserva un impianto medievale con mura e fortificazioni ben conservate. Il centro storico è recintato da mura che sono percorribili a piedi nel cammino di guardia.

Geografia

Nördlingen è situata sulla celebre Strada romantica, ad ovest del parco nazionale dell’Altmühltal e lungo il confine fra la Baviera ed il Baden-Württemberg, a circa 30 km dalla città di Aalen.

Il bordo del cratere si trova vicino al villaggio di Mönchsdeggingen. L’astroblema o cratere meteoritico di Nördlingen, in tedesco Nördlinger Ries, si trova in Germania, ed è uno dei crateri meteorici più conosciuti del mondo.

Il cratere si trova nella parte a Nord del Danubio del distretto di Donau-Ries, nella parte occidentale della Baviera. Il toponimo “Ries” deriva dal nome della provincia romana “Rætia”. Il cratere di Nördlinger Ries si presenta come una depressione quasi perfettamente circolare e il suo aspetto piatto risalta notevolmente sul paesaggio accidentato della Franconia e della Svevia. Inizialmente questa struttura geologica, sulla base delle rocce, in particolare delle sueviti, trovate al suo interno, è stata considerata un antico vulcano, solo nel 1960 si è potuto provare che la sua origine deriva da un impatto meteorico avvenuto circa 15 milioni di anni fa, che ha dato origine anche ad un altro cratere meteorico, il cratere di Steinheim. L’impatto che ha dato origine al Nördlinger Ries ha dato origine anche alle moldaviti. Al cratere è stato dedicato un asteroide, 4327 Ries.

A Nördlingen è stata girata la scena finale (l’ascensore volante) del film “Willy Wonka & the Chocolate Factory” del 1971 diretto da Mel Stuart. Nel museo del cratere Ries della città è possibile ammirare un campione di roccia lunare donato dagli astronauti dell’Apollo 16, come ringraziamento per l’ospitalità durante i giorni di addestramento effettuato a Nördlingen.

Il romantico Mercato di Natale è uno dei più grandi e più suggestivi mercatini di Natale della regione storica di Svevia. Tutto il centro storico della città viene coinvolto nella magia del Natale: le strade principali, la zona pedonale, la piazza e le altre strade e vicoli sono ornati con migliaia di lampadine e luci, mentre il cuore del mercatino si svolgerà sulla piazza e la zona pedonale. Più di 60 casette in legno, bene illuminate e decorate, rendono quasi incantato il centro storico medioevale di Nordlingen. L’illuminazione a lume di candela, l’aroma del vin brulé e un ricco programma di animazione con vari cori e gruppi musicali che inneggiano melodie pre-natalizie vi accompagneranno a piedi attraverso la città vecchia facendovi vivere un’esperienza d’altri tempi. Presepi, e poi presepi ed ancora presepi, concerti e molto di più vi offriranno un quadro interessante ed inedito di un tipico mercato di Natale tedesco.

Una passeggiata attraverso le mura della città, o una visita alla torre di guardia alta 90 metri “Daniel” oppure entrare nella Cattedrale, una delle più vaste chiese gotiche nella Germania meridionale, durante il periodo dell’Avvento assumono una magia particolare e rimarranno ricordi indelebili della nostra gita in Baviera.

Dinkelsbühl è un comune tedesco di 11.584 abitanti, situato nel land della Baviera.

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La cittadina medievale di Dinkelsbühl, antica Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero che sorge, tra Augusta e Würzburg, lungo una sponda del fiume Wörnitz, è una delle principali attrazioni della Strada Romantica (Romantische Straße), la strada turistica più famosa della Germania.

Oggi Dinkelsbühl è uno dei più belli esempi di città medievale della Germania, il centro storico della città (Altstadt) è completamente circondato dalle mura medievali con le loro 18 torri, rimaste praticamente intatte, sulle quali si aprono quattro bellissime porte di accesso.

  Dinkelsbühl fu fortificata, all’inizio del XII secolo, dall’imperatore Enrico V, e nei secoli successivi si sviluppò sia come centro militare che come città mercantile, alla metà del XIV secolo divenne una Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero.

Tra le attrazioni della cittadina da non mancare una passeggiata lungo i camminamenti di ronda delle antiche mura (XIII-XIV secolo) e una visita alle quattro monumentali porte d’accesso alla città: Wörnitzer Tor (XIV secolo), Rothenburger Tor (1390), Segringer Tor (1655), Nördlinger Tor (1400).

L’edificio più interessante della città è senz’altro la chiesa gotica di San Giorgio (Münster St.-Georg), una delle chiese tardo gotiche più belle della Germania meridionale, edificata tra la metà e la fine del XV secolo su progetto di Nikolaus Eseler, la facciata dominata dalla torre romanica e dal portico (entrambi del XIII secolo) è piuttosto severa, mentre l’interno, a tre navate con undici paia di colonne, è un tripudio con volte reticolate a ventaglio. Tra le opere d’arte custodite all’interno della chiesa, una Crocifissione della fine del XV secolo, la fonte battesimale, il pulpito e il tabernacolo del XV secolo, una tavola con i dieci comandamenti del XVI secolo. Dal campanile della chiesa si gode di un bel panorama su tutta la città.

Di notte viene ancora rispettata l’usanza del guardiano notturno che compie la sua ronda nel centro storico illuminato.

Curiosità

Qui nel 1974 venne girato L’enigma di Kaspar Hauser, film del regista tedesco Werner Herzog.

Cosa vedere

La chiesa di Sankt Georg

La chiesa gotica di Sankt Georg si trova in Marktplatz, è stata costruita nel XV secolo e al suo interno ci sono un grande tabernacolo e una magnifica tavola della Crocifissione. Oltre alle tre belle navate, la chiesa vanta una caratteristica volta a botte.

Cattedrale di S. Giorgio  
  6658369   Una delle più belle chiese del tardogotico della Germania meridionale con portale romanico (1220/30), costruita durante gli anni 1448-1499 su progetto di Nikolaus Eselers. Undici paia di pilastri all’interno sostengono una cupola reticolare a stella. Altare maggiore neogotico (1892) con reliquiario ricco di figure (del 1490 circa la scena della crocifissione). Altari laterali riccamente decorati: l’altare di S. Sebastiano (1520 circa) e l’altare della Trinità (1500 circa). La famosa Pietà (quadro di Maria) sull’altare del ciborio (1490) fu meta ambita di numerosi pellegrini nel XVII secolo.
Degne di nota la fonte battesimale ornata di leoni (XV sec.) e le tavole dei dieci comandamenti (1520 circa). Particolare l’ornamento della finestra del coro a sud, detta la “finestra della Bretze”, ossia della ciambella salata, offerta dalla corporazione dei panettieri e bottai. Lapide commemorativa di Nicola di Dinkelsbühl. Monumento a Christoph-von-Schmid. Dalla torre della cattedrale si gode una meravigliosa veduta del centro storico.

Deutsches Haus

Questo edificio a graticcio e dal tetto a timpano è del 1440 e vanta una meravigliosa facciata dipinta e scolpita. Al primo piano del Deutsches Haus si ammira una statua della Vergine.

Le mura di cinta

Quando la città fu salvata da Luigi I di Baviera e annessa al suo regno, il sovrano proibì la distruzione delle mura di cinta. Oggi le torri, le porte e i bastioni sono ben visibili e una passeggiata lungo le mura permette di scoprire gli angoli più nascosti e pittoreschi del meraviglioso centro medievale.

Museo storico

Il piccolo ma interessante museo storico di Dinkelsbuhl illustra la storia della città, in particolar modo del periodo medievale.

Il cammino di ronda

Un modo suggestivo per scoprire l’antica città di Dinkelsbuhl è seguire il cammino di ronda lungo le mura di cinta della città.

Ricca e famosa già nel Medioevo per i suoi commerci, la cittadina coltiva antiche tradizioni artigianali ed artistiche. Molto apprezzata dai pittori per i suoi scenari, è costellata di gallerie d’arte e botteghe dove si possono acquistare degli oggetti come le ceramiche azzurre tipiche della Franconia, quadri, sculture intagliate nel legno e figurine per il presepio. Altrettanto allettante lo shopping gastronomico; si va dall’ottima birra locale Weib’s Bräu ai formaggi tipici e alle Schneckennudeln, i dolci che vengono sfornati nei giorni di festa.

Rothenburg ob der Tauber

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Rothenburg ob der Tauber è una cittadina del Land della Baviera, in Germania, (425 m s.l.m. e circa 12.000 abitanti), posta su un colle che domina il fiume Tauber, conserva un impianto medievale con mura e fortificazioni ben conservate.

Nel territorio comunale, a nord-est, la Tauber accoglie le acque del fiume Altmühl.

Storia

Intorno al 1070 i Conti di Comburg-Rothenburg, che erano anche i proprietari del villaggio di Gebsattel, costruirono sulla sommità della collina, circondata dal fiume Tauber, il castello di Rothenburg, che oggi si chiama Essigkrug (letteralmente “boccale d’aceto”).

Nel 1116 la stirpe dei Conti di Comburg-Rothenburg si estinse. Il conte Heinrich lasciò l’intero suo patrimonio, incluse le proprietà di Gebsattel e Rothenburg, al monastero di Comburg, fondato dalla sua famiglia. Ma l’imperatore Enrico V nominò come erede il nipote Konrad di Hohenstaufen. Konrad, conosciuto come Corrado III e imperatore del Sacro Romano Impero (11381152), nel 1142 scambiò un appezzamento di terreno del convento di Neumünster, vicino a Würzburg, per una parte della collina di Detwang, e vi eresse la “Stauffenburg Rothenburg”.markustor

Markustor e Röderbogen (Porta di Marco ed arco di Röder) a Rothenburg

Nel 1164 morì di malattia un cittadino di Rothenburg, noto per aver accompagnato il suo tutore Federico I Barbarossa in un viaggio che li aveva condotti quasi fino a Roma. All’incirca nel 1170 intorno alla Stauffenburg si eresse anche la città di Rothenburg. Il centro era formato dalla piazza del mercato e dalla chiesa di San Giacomo. Il percorso della prima fortificazione è visibile: cantina vecchia, fossa antica, mercato dei lattai, la Sülzengasse e la Küblergasse. Le mura e le torri sono state costruite nel XIII secolo. Le torri Weisse Turm e Markusturm, con il famoso arco Röderbogen, sono ancora intatte. Tra il 1194 ed il 1254 gli Stauffer conferirono l’amministrazione dei beni al sindaco di Rothenburg. Il consiglio era formato dagli scabini della magistratura. Sorsero le comunità di San Giovanni e dell’Ordine Tedesco presso la chiesa di San Giacomo, ed il monastero dei domenicani, che oggi è un museo. Il suo fondatore fu Lupole di Nordenberg.

La strada cosiddetta degli Stauffer (oggi detta anche “Strada romantica“), fu realizzata all’incirca nel 1250 e tuttora porta da Augusta a Würzburg passando anche da Rothenburg. Fra il 1241 ed il 1242, nell’elenco delle imposte di Rothenburg si menzionarono gli ebrei di Rothenburg. Il Rabbino di Rothenburg Meir ben Baruch era reputato un legale molto esperto.

Nel 1274 Rotheburg ottenne dal Re Rodolfo I d’Asburgo il privilegio di chiamarsi “città imperiale”. Si attestano tre fiere. Negli anni seguenti la città si espanse con la Galgengasse ed il Galgentor, con la Rödergasse ed il portone Rödertor, con la Gebsattlergasse ed il portone Gebsattlertor e con la Klingengasse e il portone Klingentor. I cittadini ed i cavalieri della città costruirono il monastero di San Francesco (vicino al mercato del bestiame, situato nella Herrengasse) e l’ospedale del Santo Spirito. L’Ordine Tedesco iniziò dal 1336 la costruzione della chiesa di San Giacomo, alla quale parteciparono i cittadini. Il pellegrinaggio del Sacro Sangue convoglia tuttora molti pellegrini a Rothenburg.

Nel 1330 fu portata a compimento la costruzione della chiesa San Francesco. Nel 1350 la città ottenne il diritto di percepire imposte e fu messa sotto la tutela dell’Imperatore. Nel 1352 Rothenburg, pagando un riscatto, si liberò da Würzburg e si chiamò in seguito Città Libera Imperiale.

Nel 1356 un terremoto distrusse il “vecchio castello”. La cappella di San Biagio invece resistette e si trova ancora oggi in sito.galgentor

 

Galgentor (Porta della forca) a Rothenburg

Nel 1373 il consiglio municipale ed i cittadini iniziarono la costruzione della chiesa di San Giacomo (St. Jakob). Dopo il contratto concluso con l’Ordine Tedesco nel 1398, la città si assunse la responsabilità della costruzione. La chiesa di San Giacomo divenne la chiesa maggiore della città. Nello stesso tempo si iniziava la costruzione del municipio in stile gotico.

Rothenburg si unì nel 1378 all’alleanza dei comuni della Svevia, comandata dalla città di Ulm.

La città raggiunse la sua fioritura sotto il governo del sindaco Heinrich Toppler (13731408), grazie alle sue abilità diplomatiche e di capitano militare.

Nel Quattrocento Rotheburg divenne la città più popolata della Franconia insieme a Norimberga. Quanto alla popolazione era l’ottava e tale rimase fino all’anno 1802.

Nel 1485, dopo 170 anni, terminò la costruzione della chiesa di San Giacomo, rimasta intatta sino ad oggi.

Nel 1525 Rothenburg prese parte alla Guerra dei contadini e cercò di introdurre la Riforma protestante. Alla fine il Conte Kasimir fu costretto ad arrendersi. Johann Teuschlein e altri capitani furono giustiziati.

Sotto il governo del sindaco Johann Hornburg, nel 1544, fu introdotta la Riforma. Nel 1559 fu emanato un regolamento protestante. Un consiglio formato da tre consiglieri e tre chierici decideva sugli affari della Chiesa. Solamente l’Ordine di San Giovanni (fino al 1809) e l’Ordine Tedesco (comprato dalla città nel 1672) rimasero cattolici, dovendo però rinunciare alle loro chiese di San Giacomo e San Giovanni. Nel 1590 ebbe inizio la ricostruzione della parte orientale del municipio, che si era incendiato nel 1501. Negli anni seguenti, fino all’inizio della guerra dei trent’anni, la città prosperò. Il consiglio e i cittadini costruirono edifici di stile rinascimentale, per esempio la birreria Braumeisterhaus, il granaio, il ginnasio vicino alla chiesa di San Giacomo e la parte nuova dell’ospedale di Santo Spirito.Gerlach Schmiede, Rothenburg ob der Tauber

 

Gerlachschmiede (fucina di Gerlach) a Rothenburg

Durante la guerra dei trent’anni la città dovette contribuire alle spese, disporre approvvigionamenti per le truppe e stanziare gli alloggiamenti invernali per i soldati. Negli anni 1634, 1634 e 1645 Rothenburg fu assaltata. Dal 1632 al 1634 fu alleata con la Svezia. La città fu occupata dai Francesi nel 1645. Rapine e malattie causarono danni gravissimi. Il numero degli abitanti si ridusse in città e in campagna. Costretta dai debiti, Rothenburg vendette ripetutamente valori e beni immobili.

Un assalto dei Francesi nel 1688 causò altri danni gravissimi, mentre la guerra di successione del regno distraeva il paese. La guerra contro la Francia rivoluzionaria (17951797) causò agitazioni nel popolo. La Prussia prese il potere nel 1791 su Ansbach e Bayreuth. Si concluse così un contratto che riguardava l’autonomia di Rothenburg.

A causa dei decreti delle grandi potenze dell’Europa di allora e del Reichstag, la città di Rothenburg passò fra il 1802 ed il 1803 alla Baviera come risarcimento. La Baviera dovette vendere numerosi edifici pubblici e terreni per pagare i debiti dell’impero (ad esempio la cappella della Vergine vicino al mercato del latte, la torre Dicker Turm sulla Stauferburg). Le famiglie che erano membri del consiglio, tranne la famiglia dei “von Staudt”, persero la loro influenza e lasciarono la città.

Costretta da Napoleone, la Baviera nel 1810 dovette cedere la parte occidentale di Rothenburg al Württemberg. Il nuovo confine peggiorò la situazione economica della città e dei dintorni. La situazione si riprese solo dopo la fondazione dell’Impero Tedesco del 1871 grazie al turismo e alla industrializzazione.

Con il 1873 Rothenburg fu connessa alla rete ferroviaria. Dapprima fino a Steinach, per congiungersi al tratto principale da Ansbach a Würzburg, poi a Dombühl per poter viaggiare da Ansbach a Stoccarda. Le strutture furono ampliate dai sindaci Karl Mann (18861908) e Ludwig Siebert (19081919). La popolazione crebbe da 5382 abitanti (nel 1871) a 8612 (nel 1910).

Nel 1881 ci fu il debutto della rappresentazione della storia del Meistertrunk. Rothenburg fu riscoperta dai turisti.

La città fu bombardata e parzialmente distrutta nel 1945 e solamente grazie all’opposizione di un generale americano, Rothenburg fu risparmiata dall’annientamento totale. Negli anni seguenti il centro storico di Rothenburg fu completamente ricostruito con aiuti finanziari nazionali ed internazionali. Il ritorno dei profughi causò l’aumento della popolazione da 8939 abitanti nel 1939 a 11924 nel 1971. Rothenburg è diventata un noto centro turistico. Milioni di persone la visitano ogni anno.

Luoghi d’interesse 

Il centro storico che sorge sul culmine del colle è recintato da mura che sono percorribili a piedi nel cammino di guardia. Sono munite di torri, bastioni e di porte come la Roeder Tor, che, preceduta da bastioni e da due basse torri, è sormontata da un’alta torre, poi la Wurzburger Tor e la Klingen Tor sovrastata da una torre con sporti. Davanti a questa porta è la Wolfgangzkapelle, chiesa del 1475. Un’altra porta è la Burgtor, fortificata e anch’essa sovrastata da una torre che è più alta di tutte le altre, una possente torre di guardia sovrasta anche la porta detta Kobolzeller Tor del XIII secolo.

Nel Burggarten, giardino nello sperone roccioso sul fiume Tauber c’è l’unico resto dell’antica rocca imperiale: la Blasiuskapelle a pianta quadrata e databile fra il XII e il XIII secolo. Stupenda è la veduta sulla valle del fiume con il Topplerschlosschen, grossa torre a graticcio del 1388, il ponte sulla Tauber originariamente del XIV secolo poi rifatto e il santuario tardogotico del 1472-79 detto Kobolzellerkirche.

All’interno della città da notare il Plonlein slargo della strada principale incontro di diverse piccole strade con case a graticcio e la poderosa torre quadrata del secolo XIII sovrastante la porta detta Kobollzeller Tor. Di torri in città ce ne sono diverse come la Kohlturm a pianta quadrata, la rotonda Johanniterturm vicino alla Johanniskirche del 13931403 chiesa del convento giovannita rifatto nel 1718, la Stoeberleinsturm con coronamento a torricelle. Una possente torre di guardia del XIV secolo sovrasta lo Spitalbastei, baluardo interno del 1430 presso il bel complesso ospedaliero del XVI secolo con cortile centrale circondato da diversi edifici fra cui uno lo Ochsenbau del 1554 rifatto dopo che fu colpito da un incendio nel 1921 e adibito ad “Ostello per la gioventù” e la chiesa del 1308.

 

klingentorKlingentor, una delle porte di Rothenburg

Una notevole chiesa è St. Jakob, gotica del XIV-XV secolo che ospita un’altare intagliato e dipinto del 1466 e la celebre ancona della Cena capolavoro di Tilman Riemenschneider del 1505. Altre chiese sono la Franziskanerkirche, antica chiesa francescana del 1285-1309 oggi evangelica e, nel sobborgo di Derwang, c’è la chiesa romanica, oggi evangelica, del X secolo al cui interno è un altro capolavoro di Riemenschneider del 1515: L’ancona della Croce.

Bella è la piazza centrale, detta come in quasi tutte le città tedesche Marktplatz (piazza del mercato), circondata da edifici notevoli fra cui il Municipio (Rathaus) costituito da due parti: una classicheggiante con portico bugnato, altana e torre scalare del 157278 e l’altra gotica del XIII secolo sormontata da un’esile torre del XVI secolo. All’interno dell’edificio del Municipio si può visitare la gotica Kaisersaal, sala imperiale, legata al ricordo della Meistertrunk cioè la “magistrale bevuta” di vino offerta nel 1631 durante la guerra dei Trent’anni dai cittadini al maresciallo svedese Tilly, che ne approfittò abbondantemente e che salvò la città dalla distruzione. A destra del Municipio la Ratstrinkstube del 1466, sul cui fronte il complicato meccanismo di un orologio ad ogni ora, dalle 11 alle 15, mette in movimento diverse figurine riproducenti la scena del Meistertrunk.

Nella piazza spiccano la più bella fontana della città detta St. Georgsbrunnen e la casa detta Fleischhaus con piano inferiore a due navate del XIII secolo e piano superiore a graticcio del secolo XIV che è utilizzata per mostre temporanee. La città è anche dotata di diversi Musei: il Reichsstadtmuseum cioè il museo civico, con reperti archeologici, ricordi storici e dipinti, è sistemato in un convento fondato nel 1288 e ampliato successivamente fino al XVI secolo, interessanti sono gli ambienti conventuali e il chiostro. Il Frankisches Heimatmuseum è sistemato in una casa del 1270 detta Handwerkhaus a graticcio in parte, che è stata per sette secoli sede di diverse corporazioni artigiane, da cui deriva appunto il nome che letteralmente significa casa degli artigiani, di cui sono visibili gli ambienti, i mobili, le balconate e il pozzo dell’inizio del XIV secolo. Singolare è il Kriminal- und Foltermuseum, museo di criminologia e della tortura in cui sono visibili ben 10.000 oggetti originali (documenti, opere grafiche, e strumenti di tortura di tutti i paesi), è quasi d’obbligo per il turista farsi fotografare con la testa infilata nella gogna.

Inizia dalla piazza centrale la più bella strada della città la Herrngasse su cui si affacciano dei pregevoli palazzetti nobiliari alcuni con alti frontoni, di epoca diversa, in mezzo alla strada c’è una fontana barocca. 

Un altro vanto della città si trova nella Herrngasse 1: è il negozio di giocattoli e articoli natalizi fondato nel 1977 dalla famiglia Wohlfahrt che, forte del grande successo ottenuto in Germania, ha aperto alcune filiali all’estero,weihnachtsdorf

non ci si può trattenere dal visitare il Weihnachtsdorf (paese di Natale) di Käthe Wohlfahrt, un enorme negozio a tema natalizio aperto tutto l’anno! 

Entrandovi, ci si immerge in una vera e propria cittàdina, con casette a graticcio ricoperte di neve che ospitano le decorazioni natalizie e gli articoli da regalo, tra musiche e luci.

Uno dei motivi principali per visitare Rothemburg sono le Schneeballen (palle di neve), cioè il dolce tipico della città, facilmente reperibile in una delle tante pasticcerie che s’incontrano nel centro storico. In pratica, si tratta

delle nostre “chiacchiere” – nome variabile da città a città in Italia – di Carnevale, appallottolate e schiacciate prima di essere cotte, quindi ricoperte, nella versione originale, di zucchero a velo. Ciò che le rende ancora più appetitose è che, oltre allo zucchero a velo, possono essere utilizzati zuccherini, cioccolata d’ogni tipo, glassa, mandorle, noccioline, cocco, marzapane e qualsiasi altra cosa possa venire in mente al pasticcere! Una schneeball è una delizia di circa 10 cm di diametro, quindi una vera bomba di gusto, piacere e calorie. Probabilmente non sarete in grado di finirne una da soli, ma garantisco che sarete felici d’averla provata!
E’ impossibile non innamorarsi di questa città e non desiderare di conservarne il ricordo anche al rientro. Per fortuna si possono trovare meravigliosi souvenir che vanno al di là del semplice ricordino di viaggio. Al negozio delle manifatture Leyk, in Untere Schmiedgasse 6, si possono trovare delle deliziose casette di porcellana che riprendono lo stile architettonico di Rothenburg.Sono splendidi soprammobili e decorazioni natalizie che si illuminano di gioia se si pone una candela al loro interno.