Cornovaglia e Inghilterra del sud


 


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La leggenda fa risalire la fondazione di Bath a un certo re di stirpe celtica chiamato Bladud, padre dello shakespeariano re Lear, guarito dalla lebbra dopo un bagno nelle paludi fangose della zona, ma solo nel I secolo d.C. la città, la Aquae Salis romana, divenne una rinomata stazione termale. L’acqua sgorga da una riserva sotterranea naturale a una temperatura di 47°C. Sopra una delle tre sorgenti termali di Bath, tra il I e il V secolo d.C. i Romani edificarono un complesso termale, costituito da un bagno e un tempio dedicato a Sulis, dea celtica identificata dai colonizzatori come Minerva. Gli scavi cominciati a fine ‘800 hanno portato alla luce rilevanti resti dell’imponente struttura e di elementi decorativi, che oggi formano il Roman Baths Museum.

Gli ambienti più interessanti del museo sono il Great Bath (grande bagno) e il King’s Bath (bagno del re). Annesso al Roman Baths Museum è la Pump Room, un elegante ristorante sorto nel ‘700, che alle pareti espone i ritratti dei personaggi più in vista dell’epoca. Quando i Romani lasciarono la Gran Bretagna, le terme vennero abbandonate. La città, come il resto dell’area, venne conquistata dai Sassoni nel 577, che tra l’altro sul luogo dell’attuale abbazia costruirono il primo edificio religioso. Nel Medioevo la località divenne un importante centro manifatturiero della lana, circondato da mura. Nel XVIII secolo tuttavia si decise di tornare alla ricchezza delle acque e di sfruttare economicamente le loro qualità terapeutiche. Da quel momento in poi venne edificata la splendida città tuttora visibile. In epoca vittoriana, quando si impose la moda della vacanza termale, Bath divenne anche famosa per il gioco d’azzardo e la bella vita. Molti degli edifici più belli della città risalgono proprio al ‘700 georgiano.

Architettura

La città è attraversata dal fiume Avon che scorre a circa 15 metri al di sotto del livello stradale. La costruzione dell’attuale centro storico avvenne nel XVIII secolo, in stile Georgiano, per soddisfare il crescente bisogno di benessere e comfort da parte dei visitatori delle terme. Alcuni importanti edifici si trovano raccolti in un breve spazio, in particolare le terme romane, l’Abbazia e Guildhall. L’Abbazia era originariamente una cattedrale normanna che venne poi ricostruita in stile gotico nel secolo XVII. Ulteriori lavori di ristrutturazione vennero poi fatti all’interno nel XIX secolo. L’Abbazia si trova sulla stessa piazza dove sono ubicate le Terme Romane e la Guildhall, ovvero il Municipio della città. La città di Bath è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Altro aspetto caratteristico di Bath è il Royal Crescent con il vicino Circus, ideati da John Wood il Vecchio del suo progettista di dare un aspetto neo-classico e palladiano alla città di Bath e realizzati da John Wood il Giovane tra il 1754 ed il 1774. Essi rappresentano il suo sogno visionario

Bath visse quindi una nuova età dell’oro: gli architetti Wood (padre e figlio) progettarono i palazzi a semicerchio e su terrazze che conferiscono alla località il suo inconfondibile volto, il dottor William Oliver (che ha dato il nome al biscotto Bath Oliver, specialità gastronomica locale) fondano l’ospedale, il Bath General Hospital per assistere i poveri, il giocatore d’azzardo Richard Beau Nash detta le regole della moda per tutto il secolo la città rappresentò il centro di villeggiatura più mondano ed elegante dell’aristocrazia inglese.

Tuttavia anche queste mode finiscono e verso la metà del XIX secolo le terme di Bath decadono nuovamente. Pensate che nel 1978 un decreto del sistema sanitario nazionale britannico poneva fine a Bath come città termale. Questa decisione, a prima vista incomprensibile, fu presa in parte per via degli alti costi di manutenzione degli impianti, in parte per dei dubbi sulla purezza delle acque. Veniva meno la stessa ragion d’essere della città. Per fortuna dal 2003 un nuovo complesso termale, disegnato da Nicholas Grimshaw, in pieno centro storico, con il restauro a regola d’arte degli edifici esistenti. Bath è ritornata a essere la città termale, bellissima, che è sempre stata.

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Fu in questo contesto che la grande scrittrice inglese Jane Austen scrisse due dei suoi romanzi più belli L’Abbazia di Northanger e Persuasione, che hanno lasciato un vivido ritratto della vita sociale di Bath all’inizio del XIX secolo. In questo contesto le famiglie della piccola aristocrazia inglese con figlie in età da marito lasciavano le proprie residenze sparse nella campagna inglese e si trasferivano in appartamenti in affitto nei quartieri più alla moda della città, praticando in bagni termali, stringendo relazioni, combinando matrimoni. Jane Austen soggiornò a Bath dal 1801 al 1806, diventando l’icona letteraria del luogo. Al numero 40 di Gay Street, si trova il Jane Austern Centre che ricrea l’atmosfera dell’epoca della celebre scrittrice, che per qualche mese abitò al numero 25 della stessa via. Furono moltissimi (e ancora lo sono) i personaggi illustri, che visitarono o vissero in questa città termale, compresi molti regnanti europei e non solo. Quasi ogni edificio del centro storico li ricorda con targhe sulle facciate.

 

L’abbazia di Bath

(Chiesa abbaziale di San Pietro e San Paolo) in inglese The Abbey Church of Saint Peter and Saint Paul, Bath o semplicemente Bath Abbey) fu anticamente monastero benedettino della città di Bath, nel Somerset (Inghilterra).IMG_6928

Fondata nel VII secolo e riorganizzata nel X secolo, la chiesa fu ricostruita nel XII e XVI secolo ed è uno dei maggiori esempi di gotico perpendicolare della West Country.

La chiesa, con pianta a croce latina, può contenere circa 1200 persone e viene usata, oltre che per cerimonie religiose, per cerimonie civili, concerti e letture.IMG_6945

Le terme romane di Bath furono costruite ai tempi dell’imperatore Vespasiano, nel 75 d.C., nella città allora chiamata Aquae Sulis. Pare infatti che in questa zona, fin dal 10000 a.C., dal sottosuolo fuoriuscisse acqua calda termale come oggi. Erano conosciute in tutto l’Impero Romano e frequentate da gente di ogni classe sociale. IMG_6961Il complesso comprendeva anche un tempio dedicato all’antica dea celtica dell’acqua e alla dea romana Minerva. IMG_6968Nel 410, con l’abbandono della Britannia da parte delle legioni romane, le terme vennero abbandonate e l’Inghilterra fu invasa dai Sassoni, che conquistarono la città nel 577. La struttura cadde in sfacelo e si allagò. Per arginare l’acqua si mise del pietrisco negli ambienti, che con l’acqua si trasformò in fango nerastro che sommerse le terme.IMG_6972

L’acqua che alimenta le terme di Bath cade dapprima sotto forma di pioggia sulle vicine Mendip Hills. Grazie ad una serie di cunicoli sotterranei, l’acqua percola fino a una profondità compresa tra i 2,700 e i 4,300 metri, dove viene raggiunta una temperatura fra i 69 e i 96 C a causa dell’energia geotermale. L’acqua così immessa si riscalda e attraverso fenditure e porosità naturali riemerge in superficie. Questo processo ricorda molto da vicino quello artificiale dei sistemi geotermici migliorati, che pure sfrutta le succitate proprietà dell’acqua, ma per incrementare la produzione di energia elettrica. Le terme di Bath, quindi, captano 117.000 litri di acqua calda ogni giorno, che sgorga dal suolo a una temperatura di 46 C.

 

Il ponte Pulteney (in inglese: Pulteney Bridge) attraversa il fiume Avon a Bath (Inghilterra). Fu completato nel 1774 e congiunge la città con la più recente cittadina di Bathwick costruita in stile georgiano. Realizzata da Robert Adam in stile Palladiano, è una struttura eccezionale avendo negozi realizzati su entrambi i lati.IMG_6947

Nei primi 20 anni dalla sua costruzione, le modifiche e gli ampliamenti dei negozi furono tali da modificare le facciate. Alla fine del XVIII° secolo fu danneggiato dalle inondazioni, ma venne ricostruito con uno stile simile. Nel corso del secolo successivo vi furono ulteriori modifiche dei negozi che hanno comportato la realizzazione di estensioni a sbalzo nei lati nord e sud del ponte. Nel XX° secolo sono stati effettuati diversi interventi per preservare il ponte e restituirlo parzialmente al suo aspetto originario, migliorando il suo aspetto come attrazione turistica.

Il ponte è lungo 45 metri e largo 18 metri ed è uno dei quattro ponti esistenti al mondo ad avere negozi in tutto il suo pieno arco su entrambi i lati.

Anche se vi sono stati dei progetti di pedonalizzazione, il ponte è ancora usato da autobus e taxi. La parte più fotografata del ponte è quella in cui si scorge la briglia vicina al centro della città, che è un sito patrimonio dell’umanità principalmente per la sua architettura georgiana.

La struttura è stata progettata da Robert Adam: i suoi disegni originali sono conservati nel Sir John Soane’s Museum a Londra.

Il ponte prende il nome da Frances Pulteney, moglie di William Johnstone, ricco avvocato scozzese e membro del Parlamento. Frances era la terza figlia del deputato e funzionario governativo Daniel Pulteney (1684–1731) e prima cugina di William Pulteney, conte di Bath, da cui ereditò numerosi possedimenti a Somerset nel 1764. Ereditò inoltre anche le fortune del fratello più giovane nel 1767, tanto che la famiglia Johnstones cambiò il proprio cognome in Pulteney. La tenuta di campagna di Bathwick, ereditata da Frances e William nel 1767, si trovava di là dal fiume e poteva essere raggiunta solo con un traghetto. William pianificò di realizzare una nuova città, che sarebbe diventata un sobborgo della storica città di Bath, ma prima aveva bisogno di un migliore attraversamento del fiume. L’opera dei Pulteneys è ricordata dalla toponomastica locale: Great Pulteney Street a Bathwick, Henrietta Street e Laura Place, intitolate in ricordo della loro figlia Henrietta Laura Johnstone.

I progetti iniziali per il ponte furono elaborati da Thomas Paty, che stimò un costo di costruzione di 4.569 sterline, senza comprendere i negozi. Una seconda stima di £ 2.389 fu offerta dai costruttori locali John Lowther e Richard Reed e comprendeva la realizzazione di due negozi a ciascuna estremità del ponte, ma il lavoro non iniziò prima dell’inverno in quanto il tempo rese impossibile la costruzione dei pilastri. Nel 1770 i fratelli Robert e James Adam, che stavano lavorando sui progetti per la nuova città di Bathwick, adattarono il progetto originale di Paty. Robert Adam progettò una struttura elegante fiancheggiata da negozi, simile al Ponte Vecchio e al Ponte di Rialto che probabilmente vide durante la sua visita in Italia, rispettivamente a Firenze e Venezia. Il pregetto di Adam si ispira infatti strettamente al progetto abortito di Andrea Palladio per il ponte di Rialto. Il progetto modificato allargava quindi il ponte fino ai 15 metri, rispetto ai 9,1 metri di Paty, superando le obiezioni del consiglio comunale che riteneva il ponte troppo stretto.

La costruzione iniziò nel 1770 e fu completata nel 1774 per un costo di £11.000.

Il Royal Crescent è un importante complesso residenziale, composto da 30 unità abitative a schiera disposte secondo una mezzaluna (in lingua inglese: crescent).rcresc

Esso fu ideato e progettato da John Wood il Giovane e costruito fra il 1767 e il 1774. È il più importante esempio di architettura georgiana che si può incontrare nel Regno Unito. Insieme a suo padre, John Wood il Vecchio, John Wood il Giovane si interessava di occulto e di simboli massonici; forse la creazione del Royal Crescent e del vicino Circus di Bath (in origine chiamato “King’s Circus”) rappresenta il desiderio di realizzare in larga scala un simbolo massonico: dall’alto questo complesso appare infatti come un grande cerchio con una mezzaluna, a formare il simbolo massonico soleil-lune, cioè il Sole e la Luna. Le case del Crescent appartengono a diversi proprietari – la maggior parte sono private, ma una sostanziale minoranza è controllata da un’associazione immobiliare – molte di queste case sono state divise in più appartamenti.

Il Numero 1 del Royal Crescent è un museo, tenuto dalla Bath Preservation Trust, che illustra come i ricchi proprietari dell’epoca abbiano arredato nel tempo una casa-tipo.OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Il Royal Crescent Hotel occupa le unità centrali del Crescent, ovvero i numeri 15 e 16.

Il Royal Victoria Park di fronte al Crescent è una piattaforma usata per il lancio di piccole mongolfiere. I lanci avvengono in estate, di solito nel primo mattino o nel tardo pomeriggio.

La strada è uno dei segni distintivi più conosciuti della Bath georgiana e per molti anni i residenti hanno dovuto sopportare il passaggio di numerosi bus turistici, soprattutto nel periodo estivo. Negli ultimi anni la strada è stata chiusa agli autobus ed alle carrozze.

 

Wells

La deliziosa Wells (10500 abitanti), è la più piccola città d’Inghilterra con una cattedrale, è situata nella contea del Somerset. Il suo nome (well in inglese significa pozzo) deriva da alcune sorgenti naturali che si trovano al suo interno. Le origini medievali di Wells si notano ovunque. La sua Cattedrale (risalente al XII secolo, una delle più belle e note della Gran Bretagna), il Bishop’s Palace (edificio circondato da un fossato e da splendidi giardini, per secoli sede del Vescovado), la Vicar’s Close (ritenuta l’unica strada medievale completa rimasta in Inghilterra) e la Market Place (la piazza del mercato). Grazie al suo aspetto e alla sua particolare atmosfera, Wells è stata usata come location per film, fiction televisive e documentari (Elizabeth, The Golden Age e I pilastri della terra).

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La cattedrale di Wells è la sintesi degli stili del gotico inglese

In Gran Bretagna, dove solo un’insignificante “k” finale distingue il gotico originale dal neogotico vittoriano (Gothic/Gothick) e dove il gotico primitivo ha assunto il nome orgoglioso di Early English, nessuna chiesa gotica suscita un’ammirazione tanto immediata quanto quella della cattedrale di Wells.maxresdefault

Innanzitutto per il contrasto tra l’imponenza di questa e le dimensioni ridotte della cittadina che lo ospita. Ci si stupisce di meno quando si sa che Wells contese a lungo a Bath e a Glastonbury il titolo di sede vescovile; la cattedrale doveva dimostrare i meriti di Wells a ricevere la dignità religiosa (e politica) più importante del Somerset. La rivalità sembra sia dunque all’origine del dispiegarsi di mezzi e ingegni che ha prodotto a Wells la più felice sintesi del gotico inglese.

Tutti gli stili del gotico inglese in un solo edificio

Verso il 1180, quando iniziarono i lavori della cattedrale di Wells, regnava l’Early English (1150-1280 circa): la facciata della cattedrale e le navate dell’interno ne recano i tratti.

Il gotico “Decorated” (1280-1380 circa) segna invece il retrocoro, la cappella absidale e la sala capitolare

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Il gotico “Perpendicular” (1380-1550 circa) ebbe invece minore fortuna: le torri della facciata rimasero incompiute ma il tempo del grande potere dei vescovi era ormai tramontato.

Stupende le trentasei nervature che si dipartono dall’unico pilastro centrale che sorregge la volta della Chapter House, la sala capitolare ottagonale, capolavoro del gotico “perpendicular”.Wells_Cathedral_Chapter_House,_Somerset,_UK_-_Diliff

Spettacolari sono invece gli archi “invertiti” o “a forbice” che sono la caratteristica più sorprendente dell’interno e che sostengono la torre che si alza sulla crociera.

Wells è tradizionalmente ritenuta il centro della zona di produzione del Cheddar, il più popolare tra i formaggi britannici (originario del villaggio di Cheddar), nelle Mendip Hills.

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Cheddar Gorge is a limestone gorge in the Mendip Hills, near the village of Cheddar. The gorge is part of a Site of Special Scientific Interest now called Cheddar Complex.

Il Cheddar è un formaggio a pasta dura, di colore che può variare dal giallo pallido fino all’arancione, dal gusto deciso. Ha origine nel villaggio inglese di Cheddar, nel Somerset, da cui prende il nome. Il Cheddar è il più diffuso formaggio britannico, e contribuisce per oltre il 50% agli 1,9 miliardi di sterline del fatturato annuo dei formaggi inglesi. È molto utilizzato anche negli altri paesi di influenza anglosassone, come l’Australia, gli Stati Uniti e il Canada.2016-08-11_lif_23611583_I1

Dal 2003 il Cheddar è diventato un prodotto a indicazione geografica protetta (IGP) con il nome di West Country farmhouse Cheddar, secondo un disciplinare che ne circoscrive la produzione nelle sole contee inglesi del Somerset, Devon, Dorset e Cornovaglia, da produttori aderenti al consorzio Cheddar Gorge Cheese Company.

Gli abitanti di Wells hanno una grande passione per il buon cibo e i prodotti locali genuini. Nella Market Place si tiene un mercato due volte la settimana, il mercoledì e il sabato. Il mercoledì è il giorno del Farmers’ Market, il mercato degli agricoltori.

Wells sorge all’estremità meridionale della AONB (Area of Outstanding Natural Beauty, in italiano Area di Eccezionale Bellezza Naturalistica) delle Mendip Hills, quindi è la base ideale per una vacanza all’insegna della scoperta della natura e delle attività outdoor. In questa AONB si trova la Cheddar Gorge, la più grande gola della Gran Bretagna.

 

Glastonbury

Glastonbury è una piccola città nel Somerset (Inghilterra), situata 30 miglia a sud di Bristol. Si trova nel distretto di Mendip.

La città è celebre per la sua antica storia, per i resti dell’abbazia, per la Glastonbury Tor e per le numerose leggende e i tanti miti associati con essa. È conosciuta anche per il Glastonbury Festival, un festival di musica pop/rock che si svolge ogni anno nel vicino villaggio di Pilton.IMG_7146.jpg

Storia e mitologia

La leggenda di Giuseppe di Arimatea è legata all’idea che Glastonbury sia stato il luogo di nascita della cristianità nelle isole britanniche e sede della prima chiesa, costruita per custodire il Graal più di 30 anni dopo la morte di Cristo. La leggenda dice anche che in precedenza Giuseppe d’Arimatea aveva visitato Glastonbury insieme a Gesù, quando questi era un fanciullo. Il poeta e pittore inglese William Blake credette in questa leggenda e scrisse un poema che divenne la più popolare canzone patriottica inglese Gerusalemme.

La leggenda racconta che Giuseppe giunse a Glastonbury per nave, approdando ai Somerset Levels, che erano inondati.

Nello sbarcare piantò a terra il suo bastone, che fiorì miracolosamente nel Biancospino di Glastonbury (“Spina Santa”). Questa è la spiegazione mitica dell’esistenza di questo ibrido, che cresce soltanto alcune miglia attorno a Glastonbury. Fiorisce due volte l’anno, una in primavera e un’altra nel periodo di Natale (dipende dal tempo). Ogni anno viene tagliata una spina e inviata alla regina per ornare la sua tavola di Natale.

 

Abbazia di Glastonbury

Glastonbury è oggi un centro religioso e di pellegrinaggio, dove misticismo e paganesimo coesistono, non senza difficoltà.

L’Abbazia di Glastonbury fu una delle più ricche e potenti strutture monastiche del Somerset, in Inghilterra. Sin dal periodo medievale essa venne associata con la leggenda di re Artù e della sua mitica terra, Avalon. Il primo impianto dell’abbazia potrebbe essere stato effettuato dai Bretoni nel VII secolo d.C., probabilmente sui resti di un edificio preesistente. Tuttavia, leggende cristiane più tarde, in pieno periodo medievale, asserirono che l’abbazia era stata fondata da Giuseppe di Arimatea nel I sec.

Come vedremo, la leggenda deriva direttamente dalle vicende narrate da Robert de Boron nel suo ciclo di romanzi su re Artù e sul Santo Graal, leggenda che successivamente i monaci di Glastonbury seppero adeguatamente sfruttare, come vedremo più avanti. Grazie anche all’associazione con questo facoltoso personaggio, da alcuni ritenuto lo zio di Maria, madre di Gesù, sin dal medioevo fiorì in questo luogo un profondo culto della Vergine tanto che l’abbazia ebbe anche l’appellativo di Nostra Signora Santa Maria di Glastonbury, che è tuttora a volte usato.

Secondo la tradizione, dunque, Giuseppe di Arimatea venne spedito in Britannia come missionario per predicare e diffondere il Vangelo. Accolti con benevolenza dal re Arvirago di Siluria, fratello di Carataco il Pendragone, Giuseppe e i suoi dodici seguaci ricevettero dal re 12 hides di terra in Glastonbury (un hide, secondo la terminologia medievale, era una quantità di terra sufficiente a provvedere al fabbisogno di una famiglia per un anno, e nel Somerset esso corrispondeva a 120 acri, circa 48,5 ettari). Qui essi edificarono una primitiva cappella con paglia, fango e canne intrecciate, su modello dell’antico Tabernacolo citato nella Bibbia.

Questa primitiva “cappella di canne” (chiamata in seguito “Old Church”, ossia la “vecchia chiesa”), potrebbe dunque essere stato il primo edificio che i Bretoni trovarono sul posto e sul quale eressero un monastero, a sua volta primo nucleo della futura Lady Chapel. Ai Bretoni, nell’VIII sec., successero i Sassoni, e a questi, nell’XI sec., subentrarono i Normanni. Con la dominazione normanna, l’abbazia aveva già raggiunto una notevole fama e ricchezza, tuttavia la sua fortuna si arrestò in seguito ad un terribile incendio che nel 1184 distrusse gran parte degli edifici monastici.

La cucina dell’abate

La cucina dell’abate (Abbot’s Kitchen), unico edificio interamente sopravvissuto alla distruzione. La sua grandiosità ben dimostra la ricchezza che aveva raggiunto l’abbazia all’apice della sua evoluzione.

Il re Enrico II garantì alla comunità di Glastonbury un atto di rinnovo e cominciò la sua ricostruzione, favorita anche (come vedremo) dal ritrovamento fortuito della tomba di re Artù, che garantì al complesso una rinnovata fama ed un cospicuo afflusso di pellegrini e di denaro. A questo periodo risale la costruzione della Lady Chapel in pietra. In seguito il complesso crebbe ancora fino a diventare una vasta abbazia benedettina, che nel XIV era diventata la seconda per dimensioni ed importanza d’Inghilterra, dopo quella di Westminster a Londra.

Come tante altre abbazie inglesi, anche il destino di Glastonbury fu definitivamente segnato dalla Dissoluzione dei Monasteri operata da Enrico VIII, a partire dal 1536. La Riforma colpì duramente il complesso di Glastonbury, che venne largamente distrutto e l’ultimo dei suoi abati, Richard Whiting (abate dal 1525 al 1539), venne appeso e squartato sul Tor insieme a due dei suoi monaci.

Le rovine che oggi, acquistate nel 1908 dalla diocesi di Bath e Wells, costituiscono una meta turistica frequentata ogni anno da migliaia di visitatori. Alcune prestigiose figure della cristianità bretone furono associate all’abbazia di Glastonbury; in particolare San Patrizio, il primo abate nel V sec., che diventerà il patrono dell’Irlanda, e San Dunstano, abate dal 940 al 946.

La tomba di re Artù

Dopo l’incendio del 1184 la ricostruzione della chiesa procedeva a rilento, soprattutto a causa dei finanziamenti insufficienti. Qualche anno dopo, una “fortuna” inaspettata capitò ai solerti monaci di Glastonbury: secondo quanto racconta il cronista Giraldus Cambrensis, sotto la guida dell’abate Henry de Sullyn, durante uno scavo effettuato sotto il pavimento della cattedrale, venne alla luce un sepolcro interrato del quale nessuno era a conoscenza.

Al suo interno venne ritrovata una cassa di quercia con due scheletri: uno apparteneva a un uomo straordinariamente alto, mentre l’altro era chiaramente quello di una donna minuta, di cui ancora si conservava la folta capigliatura. Insieme alle ossa fu ritrovata una croce di piombo che riportava la seguente iscrizione: “Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia cum uxore sua secunda Wenneveria” (“Qui giace sepolto il famoso re Artù nell’Isola di Avalon con la sua seconda moglie Ginevra”).IMG_7156

Le autorità ecclesiastiche, tuttavia, non gradirono l’accenno a Ginevra come “seconda moglie” di Artù, per cui decretarono che il cartiglio, e l’annessa scoperta, dovevano essere falsi. I monaci, però, non si persero d’animo. Poco tempo dopo rettificarono la loro scoperta, presentando un nuovo cartiglio nel quale era stato tolto ogni riferimento a Ginevra: “Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia” (“Qui giace sepolto il famoso re Artù nell’Isola di Avalon”).

I monaci avevano trovato i resti del leggendario re Artù, ma avevano persino scoperto una prova scritta dell’associazione tra Glastonbury e la mitica terra di Avalon! La cosa, in realtà, non era così ovvia: il cronista Guglielmo di Malmesbury, in proposito, aveva scritto nelle sue “Gesta Regum Anglorum” del 1127 che il corpo di re Artù, dopo la battaglia di Camba, era stato portato ad Avalon per la sepoltura, e non specifica dove si trovasse questa mitica terra. Inoltre, egli asserisce che la sua tomba non poteva essere vista da nessuna parte.

Ad ogni modo, l’espediente dei monaci funzionò, e un notevole afflusso di pellegrini amplificò le entrate dell’abate. Pare, poi, che i monaci ci abbiano preso gusto e alzarono il tiro. Qualche tempo dopo i santi uomini si armarono nuovamente di pale e di vanghe, e scavando in altri punti dell’abbazia s’imbatterono in reliquie ancora più importanti, stavolta i resti di alcuni santi: le ossa di San Patrizio e di San Gildas, e persino i resti di San Dunstano, nonostante fosse già noto che essi riposavano all’interno della Cattedrale di Canterbury da almeno 200 anni!

In breve, tra le reliquie trovate dai monaci e quelle lasciate in consegna dai visitatori, Glastonbury Abbey al tempo della Riforma poteva vantare un corposo tesoro sacro che annoverava, oltre alle reliquie già citate, anche un frammento della veste della Vergine Maria, un frammento della verga di Aronne, un paio di ampolle che erano appartenute a Giuseppe di Arimatea (in cui, si diceva, egli avesse conservato il sangue e il sudore deterso dal corpo di Gesù dopo la deposizione della croce) e persino una pietra del deserto che Gesù aveva rifiutato di trasformare in pane!

La Dissoluzione dei Monasteri nel 1539 pose fine alla prosperità dell’abbazia. Dopo la distruzione degli edifici monastici, tutte le reliquie scomparvero per sempre, inclusa la croce di piombo con l’iscrizione. Tutto ciò che oggi rimane è un cartello e un’area delimitata da una cornice di pietra che segnala il sito nel quale, nel XIII secolo, era stata collocata la tomba di marmo nero contenente i resti di re Artù in una posizione privilegiata davanti all’altare principale.

La Spina Santa

L’abbazia di Glastonbury è legata anche alla leggenda della Santa Spina. Un albero di questa pianta infatti cresce rigoglioso all’interno del giardino abbaziale, e si dice sia stato trapiantato direttamente dall’originale che miracolosamente si sviluppò a partire dal bastone di Giuseppe di Arimatea piantato nel terreno, sulla collina di Wearyall Hill. L’albero di Spina Santa si trova oggi vicino all’ingresso del complesso, nei pressi della Cappella di San Patrizio.IMG_7138

 

La Lady Chapel

La Lady Chapel è l’edificio più a sud del complesso abbaziale e ne costituisce il suo nucleo originario. Secondo una tradizione ben radicata nel Somerset, Giuseppe di Arimatea aveva compiuto diversi viaggi fuori della Palestina, in particolare in Inghilterra, dove importava stagno dalle miniere della Cornovaglia. Si dice che in uno di questi viaggi egli abbia portato con sé il piccolo Gesù, e che egli abbia fatto realizzare una piccola chiesa di fango e rami intrecciati di salice, che Gesù volle dedicare a sua madre Maria. Il nome di Gesù e quello di Maria vennero scritti su una pietra, probabilmente quella di fondazione. Questa pietra venne poi inglobata nelle costruzioni successive, fino alla Lady Chapel del XIII sec. che vediamo ancora oggi, e fu largamente venerata durante il medioevo al pari di una reliquia, costituendo stazione di sosta e di preghiera per i pellegrini. Ancora oggi la pietra si trova incastonata all’esterno della parete sud, dove è ben leggibile l’iscrizione della dedica: “IESUS MARIA”.

Tuttavia, se quanto tramandato su questa pietra costituisce una base di verità, allora essa suscita una serie di inquietanti interrogativi, che portano a domandarsi sulla vera identità di quel Gesù e di quella Maria citati e all’inevitabile conclusione dell’esistenza di una linea di discendenza diretta da Gesù Cristo, la controversa “Linea di Sangue” della cui esistenza questa pietra potrebbe costituire una prova indiretta! Vediamo perché, seguendo le ipotesi e le linee di indagine delineate da Laurence Gardner nel saggio “La Linea di Sangue del Santo Graal”.

Secondo le cronache medievali la vetusta ecclesia, ossia la primitiva capanna di fango e rami, non venne costruita prima dell’anno 63, e venne dedicata a Maria l’anno successivo, come attestano comunemente John Capgrave, William di Malmesbury e John di Glastonbury. Per esempio, nel “De Sancto Joseph ab Arimathea” di Capgrave si afferma che “quindici anni dopo l’Assunzione egli [Giuseppe] si recò da Filippo apostolo tra i Galli”. L’Assunzione della Vergine è comunemente attestata nell’anno 48 e San Filippo, secondo quanto afferma Freculfo, vescovo di Lisieux del IX sec., fu colui che organizzò la missione di predicazione in Inghilterra affidandola a Giuseppe di Arimatea. Per cui la missione di Giuseppe in Inghilterra cominciò nell’anno 63 (48 + 15).

Più avanti, il De Sancto Joseph afferma ancora che la dedicazione della cappella di canne avvenne nel “nel 31° anno dopo la Passione di Nostro Signore”, e cioè nell’anno 64. Quest’informazione si conforma con quanto riporta Guglielmo di Malmesbury, che indica come data di costruzione della capanna l’anno 63.

Giuseppe d’Arimatea era ritenuto parente stretto di Maria, in particolare suo zio, anche se i Vangeli canonici non citano mai questo rapporto di parentela e le altre fonti si limitano a dire che erano parenti. Un rapido calcolo, supponendo che Maria avesse circa 26 anni quando concepì Gesù e che Giuseppe poteva essere almeno una decina d’anni più anziano di lei, porta a supporre che Giuseppe era già piuttosto anziano ai tempi della Crocifissione e che l’inizio della sua nuova vita di predicazione in Britannia avvenne attorno al centesimo anno di età. Considerando, poi, che le cronache lo ritengono in vita per altri venti anni dopo quella data, ne risulta un Giuseppe estremamente longevo e insolitamente attivo.

Come poteva, poi, avere al suo seguito il piccolo Gesù, e far sì che questi dedicasse la chiesa alla propria madre Maria? Gesù, il Cristo, era morto sulla croce 31 anni prima, ma pur volendo ipotizzare che la morte sia stata soltanto inscenata e che Giuseppe di Arimatea, complice, si sia recato da Pilato a reclamarne anzitempo il corpo per portarlo nel sepolcro e “rianimarlo” in gran segreto (come molti, tra cui il citato Gardner e il trio Baigent-Leigh-Lincoln del “Santo Graal”, hanno supposto analizzando le decine e decine di anomalie contenute nei racconti evangelici della Passione), i conti continuano a non tornare. Nessuna cronaca inglese, né storica, né leggendaria, ha mai citato la presenza di un Gesù adulto in Britannia, mentre fioriscono le leggende sulla presenza di un Gesù ancora adolescente.

L’unica spiegazione logica è che il piccolo Gesù non sia il Gesù noto come il Cristo, figlio di Maria e di Giuseppe, ma suo figlio primogenito, Gesù il Giusto (chiamato spesso Gais nei romanzi del Graal), avuto da Maria Maddalena, e che Giuseppe di Arimatea fosse giustamente suo zio (cioè quel Giacomo, “fratello di Gesù”, detto “il Giusto”), e non zio di Maria (alla presunta identità tra Giuseppe di Arimatea e Giacomo il Giusto è dedicato un approfondimento a parte). A questo punto tutto torna: Giacomo il Giusto nacque nel I d.C. e nel 63 d.C. aveva una discreta ma non veneranda età, e poteva benissimo aver campato un’altra ventina di anni predicando in Inghilterra. Dopo la morte di Gesù Cristo poteva aver preso in affidamento il giovane nipote, Gesù Giusto, assumendo il titolo onorifico di Giuseppe “ha Rama Theo” (l’Altezza Divina) come si conveniva nelle successioni davidiche.

Aveva quindi costruito la piccola chiesa di canne e fango e Gesù l’aveva fatta dedicare a sua madre, Maria Maddalena. A ulteriore rinforzo di questa ipotesi, proprio in quell’anno (il 63) la Maddalena moriva nella sua grotta alla Sainte Baume, dove si era ritirata, vicino Aix-en-Provence, secondo quanto riferisce il monaco benedettino Matthew Paris nelle “Chronica Majora”, una raccolta di cronache in sette volumi riccamente illustrata, che attualmente è conservata presso il Corpus Christi College di Cambridge. Un tributo, dunque, tutto dovuto, di un figlio devoto alla madre appena deceduta, molto più credibile di una dedicazione a Maria Vergine a 15 anni dalla sua assunzione e a secoli di distanza prima che il suo culto cominciasse a diffondersi e le chiese cominciassero a venirle dedicate.

Così questa semplice pietra iscritta inserita nel muro dell’edificio, che fu tanto venerata nel periodo medievale, potrebbe costituire quel “Secretum Domini”, il “Segreto del Signore” custodito a Glastonbury, così come citato nel Domesday Book…

Il Chalice Garden-Il giardino del Calice

Nel cuore di Glastonbury, adagiato ai piedi della magica collina del Tor, un luogo fatato e misterioso accoglie il visitatore in una cornice idilliaca di lussureggiante vegetazione e fresche sorgenti di acque curative. È il “Chalice Garden”, il “Giardino del Calice”, ed è riferito al “calice” per eccellenza: il Santo Graal. La leggenda, infatti, narra che Giuseppe di Arimatea, giunto in questi luoghi da Gerusalemme, abbia nascosto nel pozzo scavato ai piedi del colle il calice che aveva portato con sé, quello utilizzato da Gesù durante l’Ultima Cena e nel quale egli successivamente aveva raccolto il sangue di Cristo. Questo calice, una volta entrato in contatto del sangue del Signore, aveva acquisito delle capacità straordinarie, miracolosi poteri di guarigione a chi ne avesse bevuto, diventando il leggendario Graal, protagonista nel Medioevo di una vasta letteratura. Non appena le acque della sorgente di Glastonbury entrarono a contatto con il sacro calice, ne acquisirono i suoi poteri curativi e si tinsero di rosso, come sangue. Anzi, in determinati periodi dell’anno la sorgente sgorga con tale veemenza che il rumore dei suoi fiotti ricorda il battito di un cuore umano.

Questa è la leggenda che sta alla base del Chalice Well. L’acqua della sorgente ha, effettivamente, un colorito rossastro, dovuto all’alto contenuto in ferro, e i visitatori del Giardino ne attingono direttamente con dei bicchieri oppure ne riempiono bottiglie di varie misure che sono vendute per poche decine di penny presso la biglietteria.

Il giardino

La vasca principa deI Giardino del Graal è un posto ideale per la meditazione: sotto i folti alberi e negli spazi appositi il silenzio e la pace sono una regola fondamentale, richiesta ad ogni visitatore e devotamente rispettata. Sono soprattutto tre i luoghi designati per la meditazione: la Corte di Re Artù, la Fontana del Leone e, ovviamente, il Pozzo del Calice.

Subito dopo l’ingresso, sulla destra, si trova una zona più ampia e aperta, nella quale è posta la vasca principale: essa ha una forma particolare, ricalcata sul simbolo della ‘Vesica Piscis’, che qui, come vedremo, ha una presenza massiccia ed una valenza tutta particolare.chal

Proseguendo oltre attraverso il sentiero ricavato nel fitto della ricca vegetazione, si risale La Vasca dei Pellegrini verso la sorgente. L’ambiente che s’incontra subito dopo è la Corte di Re Artù, una zona recintata di forma rettangolare nel quale la sorgente forma una cascatella e si riversa in una piccola piscina rettangolare, chiamata Vasca dei Pellegrini. Questo è uno dei punti più sacri di tutto il giardino qui, infatti, come assicurano gli esperti di geomanzia, si incrociano le due linee di energia principali: quella di “San Michele” e quella di “Santa Maria”. La Vasca, oggi di profondità modesta, era un tempo molto più profonda, ed in essa i pellegrini si immergevano per intero per ottenere la guarigione dai loro mali.

La Fontana del Leone Risalendo ancora la lieve pendenza su cui si adagia il Giardino, si arriva alla Fontana del Leone, così detta perché l’acqua sgorga da una cannella che ha la forma della testa di questo animale. Il leone, oltre ad essere l’animale sacro di Cibele, di Lug e di altri dei o dee legati alla fertilità, è spesso accomunato alle fonti d’acqua e non è infrequente imbattersi in fontane che hanno questa forma nei giardini dei palazzi e persino nelle nostre città. È un simbolismo che ha il suo retaggio nell’antica civiltà egizia, quando le piene del Nilo, che garantivano alla popolazione un altro anno di prosperità e di raccolti, avvenivano sempre nel periodo in cui il sole entrava nella costellazione del Leone, per cui questo animale è diventato simbolo solstiziale.

 

Il Pozzo del Calice

Infine, nella zona più interna e intima del giardino, si apre il Pozzo del Calice, al centro di una depressione di forma circolare ricoperta in cemento, nel quale sono incastonate come gemme conchiglie fossili dalla forma a spirale. Il pozzo è di fatto una struttura in pietra di epoca medievale, che racchiude una sorgente d’acqua. Oggi l’imboccatura del pozzo si trova al livello del suolo, ma in antichità doveva trovarsi in superficie: sono stati i crolli di terra dal “Chalice Hill” e dal Tor che hanno finito per interrarlo.Foto0413

Adiacente al pozzo, a una certa profondità, si apre una camera a forma di pentagono irregolare, la cui funzione è tuttora sconosciuta. La camera, le cui dimensioni presentano rapporti con le unità di misura degli antichi Egizi, data probabilmente al XVI o al XVII secolo, e fu presumibilmente utilizzata per delle cerimonie rituali. Oggi è, ovviamente, inaccessibile ma la sua sommità può essere ancora vista guardando all’interno del pozzo sul lato rivolto verso Chalice Hill.

Il coperchio del pozzo è forse l’immagine più nota associata a questo luogo, divenuta nel tempo un’icona e un simbolo del luogo stesso, a sua volta ispirato ad un simbolo ancora più antico, quello della Vesica Piscis.

Il simbolismo della Vesica Piscis

Il simbolo del Chalice WellLa Vesica Piscis costituisce un motivo ricorrente in tutto il giardino; la sua presenza si può definire massiccia, dato che la troviamo più o meno ovunque: nella cancellata d’ingresso, disegnato con dei sassi nel viottolo di accesso alla cassa, nella forma della vasca principale. L’associazione del Chalice Garden con questo simbolo, tuttavia, ha un’origine recente e risale al 1919, quando un famoso archeologo di Glastonbury, Frederick Bligh Bond, realizzò un coperchio per il pozzo in legno e ferro battuto, forgiato con questa immagine, e ne fece dono al Chalice Well Trust, che gestisce il sito. Bligh Bond lavorava da diversi anni come archeologo interno presso l’abbazia di Glastonbury ed era un esperto di geomanzia e di “energie della terra”. Il significato e la natura duale (maschile/femminile) di questo simbolismo è ampiamente trattata in una sezione apposita di questo sito.

Nel motivo che orna il coperchio del pozzo, la Vesica Piscis è attraversata in tutta la sua lunghezza da una freccia, terminante in un cuore. Essa rappresenta metaforicamente la Sacra Lancia, che, trafiggendo il costato di Gesù, che fece scaturire sangue e acqua, quello stesso sacco e quella stessa acqua dai poteri miracolosi curativi che scaturirono dalla sorgente di Glastonbury dopo l’immersione, in essa, del Santo Graal.

La coppa e la lancia, ovvero il Calice e la Lama, sono i due simboli fondamentali delle energie sessuali, femminile e maschile, e dell’unione sacra (le “nozze regali” tra il Re e la Regina) e, se vogliamo, la sacra unione che è alla base della Linea di Sangue divina simboleggiata dal Graal.

Non è un caso che i due simboli si trovino qui riuniti alla base del colle del Tor. Il pozzo, Vesica Piscis all’ingresso visto come cavità che si apre nel ventre della Madre Terra, con la sua sorgente di acque curative (fonte della vita) e, per di più, dal colore rossastro che potrebbero ricordare quello del sangue, linfa vitale, in particolare del sangue mestruale, che si genera ciclicamente in un periodo di 28 giorni come le fasi della Luna (Iside/Ishtar, la Grande Madre), può facilmente essere assimilato all’organo genitale femminile e rappresentare così il Femminino Sacro. Parallelamente, a breve distanza, si innalza il Tor, il colle magico situato sulla Linea di San Michele, dove covano le energie del drago in attesa di essere domato dall’arcangelo guerriero, e dove svetta solitaria una torre innalzandosi verso il cielo, non è altro che la rappresentazione simbolica dell’organo genitale maschile. È questa duplice presenza, dunque, che rende Glastonbury così speciale e fa di essa luogo designato per le pratiche magiche e le attività di carattere spirituale di ogni tipo.

I tassi e la Santa Spina

Nella parte più ampia del giardino, dove si trova la vasca principale, nello spiazzo tra questa e la Corte di Re Artù, si trovano due maestosi alberi di tasso. Quest’albero, che oggi è presente soprattutto nei cimiteri, aveva carattere sacrale per gli antichi Celti, in particolare per i Druidi, che li piantavano nei luoghi dove svolgevano solitamente le loro cerimonie come silenti sentinelle e guardiani dei loro luoghi sacri. Questi alberi una volta dovevano far parte di un boschetto sacro oppure di un viale cerimoniale.

Esisteva anche un altro viale di questo tipo, delineato da un altro albero sacro, la quercia, che conduceva al Tor. Oggi, nella località di Stonedown, a nord-est del Tor, sopravvivono ancora due vecchie querce, che sono state chiamate Gog e Magog, che si ritiene essere le ultime due sopravvissute di questo antico albero.

Nel folto degli alberi e delle siepi del Giardino del Calice non poteva mancare, infine, la Santa Spina, l’albero generatosi miracolosamente dal bastone di Giuseppe di Arimatea. Nel Giardino del Calice si trovavano tre diversi alberi di Santa Spina. Uno il più grande, si trovava tra i due tassi e la vasca principale Gli altri due, più piccoli, si trovano uno vicino al pozzo e l’altro subito al di sopra della Testa del Leone.

 

Glastonbury Tor

Glastonbury Tor è una collina conica che si trova nell’omonima cittadina. E’ sormontata da una torre a cielo aperto del XIV secolo dedicata a San Michele, e nei secoli ha concentrato su di sé l’attenzione di storici e letterati per il presunto legame con il ciclo arturiano.Glastonbury_Tor

Gli scavi archeologici hanno rivelato che la collina fu un luogo frequentato sia durante l’età del ferro sia nei secoli successivi dai Romani, mentre il tipico terrazzamento risalirebbe addirittura all’epoca neolitica. La prima chiesa monastica, sempre dedicata a San Michele, fu realizzata in legno e distrutta durante un terremoto, nel 1275. Qualche anno dopo, durante il 14° secolo, venne realizzata l’odierna costruzione in pietra, che si erge perfettamente conservata sulla cima dell’altura.

Le credenze riguardo la funzione della collina sono antiche e ben testimoniate. Il luogo sarebbe stato meta di pellegrinaggio per i cattolici dal basso medioevo sino alla riforma protestante, da quando lo scrittore e religioso gallese Giraldus Cambrensis, del XII secolo, associò la collina ad Avalon, la mitica isola dove riposerebbe Re Artù, in attesa che il mondo abbia nuovamente bisogno di lui.Glastonbury.Tor.original.12602

Il “Tor” (parola inglese che significa collina o roccia) venne definita “Ynys yr Afalon” quando vennero scoperte le bare del Re e della Regina Ginevra nel 1191, un evento documentato proprio da Cambrensis, che scrisse come i resti furono poi spostati. Molti studiosi sospettano che questi eventi siano frutto totale della fantasia, concepiti nell’opera di Giraldus volta a dare maggior prestigio e una storia secolare alla collina, accrescendone la fama.

Il Tor è un colle naturale alto circa 160 metri che sovrasta e caratterizza da centinaia di anni il paesaggio.IMG_7166

Glastonbury sorge nel mezzo dei Somerset Levels, una grande palude soggetta a frequenti inondazioni e per migliaia di anni, fino circa al XIII secolo d.C., questo insediamento fu un’isola circondata da un mare interno poco profondo, che si formò in seguito all’innalzamento delle acque dopo l’ultima era glaciale. L’isola era collegata alla terraferma solo da una sottile lingua di terra che si estendeva nella zona di Ponter’s Ball: un fossato lungo circa un chilometro verosimilmente costruito durante l’Età del Ferro. E’ noto che i Levels furono abitati fin da tempi antichissimi, sono state  trovate abbondanti tracce risalenti al neolitico. Durante l’Età del Ferro, nel I millennio a.C., il territorio paludoso dell’isola era disseminato dai famosi Lake Villages, estesi insediamenti umani su palafitte e piattaforme. Tuttavia nella zona dell’Isola non sono mai stati rinvenuti reperti antecedenti al VI sec.d.C. e le tracce dei primi insediamenti umani sul Tor datano intorno proprio a quest’epoca. Questo ha portato alcuni studiosi a ritenere che l’Isola fosse considerata dalle popolazioni paleocristiane un luogo sacro, un vero e proprio santuario naturale al pari di Avebury o Stonehenge e la leggenda narra che Glastonbury sia stata l’Isola di Avalon. Ponter’s Ball rappresenterebbe quindi un “temenos”, ovvero un confine costruito per demarcare l’inizio del territorio sacro. La collina del Tor, dominava tutto questo scenario e sicuramente ha profondamente attratto le popolazioni neolitiche, esperte conoscitrici dei misteri celesti e dei loro riflessi sulla terra. Il Tor è  allineato sulla St.Michael Line, una famosa ley line, o linea energetica, sul cui tracciato giacciono, fra gli altri, il Saint Michael Mount in Cornovaglia, il Tor di Glastonbury e Avebury. Molti dei posti situati su questa linea erano inconfutabili luoghi di culto in epoca neolitica e successivamente su molti di essi furono costruiti santuari cristiani dedicati a San Michele, angelo di luce. Nel mondo celtico precristiano i luoghi collinari erano dedicati a Belenos, dio della luce e del sole, che rappresentava la controparte delle forze ctonie della terra (spesso simboleggiate da un drago o un serpente). L’orientamento dell’asse del Tor con un azimut di 63 gradi fa in modo che a maggio esso sia rivolto verso l’alba: la collina di San Michele, angelo della luce, si trova a vedere sorgere il sole proprio a Beltane, la vigilia di maggio, la grande festa celtica del dio Belenos, lo Splendente. Inoltre, sempre sulla Michael line si trova, poco distante da Glastonbury, il Burrowbridge Mump, una collina conica situata nei Somerst Levels che porta sulla cima i resti di un’antica chiesa dedicata a san Michele, in pratica un piccolo Tor in miniatura. Nei giorni di Samhain e Imbolc, stando sulla cima del Tor, il sole tramonta esattamente su Burrowbridge Mump. In pratica quindi l’allineamento dell’asse del Tor indica l’alba all’inizio di maggio e agosto (beltane e lughnasadh, la metà luminosa dell’anno) e il tramonto a fine ottobre e inizio febbraio (samhain e imbolc, la metà oscura dell’anno). Glastonbury passa un’altra importante ley line, la Mary Line, sul cui percorso si trovano molti luoghi di culto dedicati alla vergine Maria. Essa passa nelle rovine della grande abbazia di Glastonbury, dalla Lady Chapel e risale il pendio del Tor, per incontrarsi con la Michael line, creando secondo alcuni un’incredibile punto di unione fra energie maschili e femminili o comunque fra polarità complementari, capaci di aprire le porte alle percezioni che molti sostengono di aver avuto percorrendo la collina. Il Tor però non è allineato solo con i cross-quarter days solari dell’anno celtico ma possiede anche un importante allineamento lunare. Tracciando una linea retta dalla sommità del Tor fino a Cadbury, località non distante, abitata fin dai tempi neolitici, imponente insediamento romano della britannia sud occidentale e, secondo la leggenda, antica sede di Camelot, si può osservare che il Tor è precisamente orientato con il Northern Major Standstill, cioè il punto più a nord del calare della luna, mentre Cadbury castle è orientato con il Southern Major Standstill, il punto più a sud in cui può calare la luna. Quindi questo significa che , per esempio, guardando la luna piena da Cadbury, questa tramonta nel punto più a nord proprio sopra al Tor e ciò avviene esattamente ogni 19 anni, un ciclo metonico (Il ciclo metonico (che prende il nome dall’astronomo greco Metone) è un ciclo di 19 anni, basato sull’osservazione che 19 anni solari corrispondono (quasi) esattame nte a 235 mesi lunari e a 6940 giorni. Sul ciclo metonico si basano i calendari lunisolari aritmetici, cioè quei calendari, che mantengono il sincronismo sia col corso del sole sia con quello della luna per mezzo di approssimazioni aritmetiche dei moti reali medi dei due astri. Sono “aritmetici”, per esempio, il calendario ebraico e quello ecclesiastico, utilizzato dalla chiesa cattolica per il calcolo della Pasqua)., la durata del periodo dell’istruzione di un druido o una sacerdotessa celtica…. La leggenda vuole che Artù percorra questo sentiero da Cadbury a Glastonbury, detto Sentiero di Caccia di Artù, nelle tempestose notti invernali, ogni 19 anni, presiedendo alla Caccia Selvaggia delle anime, proprio come Gwynn Ap Nudd, il Bianco Figlio della Notte, che abiterebbe il Glastonbury Tor e sarebbe il Signore dell’Altromondo. A Glastonbury esistono molti altri allineamenti sacri come il Landscape Diamond e lo Zodiaco di Glastonbury, nonché le geometrie sacre di Chalice Well e dell’Abbazia. I misteri che circondano il Tor sono molti e fittamente intrecciati con la sua storia. Sappiamo che sul Tor, nel X secolo vi era una piccola cappella, sostituita poi da un’abbazia, più piccola di quella al centro della città ma comunque prospera e dedicata a san Michele. Le cronache dell’epoca ci dicono però che nel 1275 (per la precisione l’11 settembre…) un “terremoto” distrusse la chiesa in cima al Tor, che fu tuttavia ricostruita dai solerti monaci, sebbene seguendo un progetto più piccolo e sobrio. Solo nel XIV secolo fu aggiunta la torre oggi esistente, l’unica che oggi sopravvive dopo la dissoluzione dei monasteri voluta da Enrico VIII nel 1539.

La leggenda narra che santa Brigida e san Patrizio visitarono Glastonbury nel V secolo. Glastonbury in epoca medioevale era considerata la prima chiesa cattolica di Britannia, fondata direttamente da Giuseppe di Arimatea nel 63 d.C., che vi avrebbe costruito la prima cappella nel sito della Lady Chapel, portando con sé dalla Palestina il sacro Graal, che si dice giaccia nei pressi della Fonte Rossa (Chalice Well). William di Malmesbury, uno storico che nel 1130 scrisse il De Antiquitate Glastonie Ecclesie, racconta che Patrizio si sarebbe recato sul Tor, dove a quel tempo sorgeva “un fitto bosco”. Una delle maggiori peculiarità del Tor, è che lungo tutte le sue scoscese pareti, esposte a gelidi e impetuosi venti di nord-ovest, sono state ricavate enorme terrazze concentriche, sette in tutto. Nonostante vari studi, a tutt’oggi esistono pochissimi dati relativi a chi , quando e soprattutto perché ha scavato le terrazze del Tor. E’ noto che i monaci medioevali costruirono alcune piccole terrazze sulle pendici più a sud a scopo agricolo e migliorarono alcune delle terrazze già esistenti sui pendii più alti per ricreare le 7 stazioni della Via Crucis da far percorrere ai pellegrini. Il Tor era la loro Montagna Sacra e la sua ascesa simboleggiava il percorso di elevamento spirituale del pellegrino. E’ evidente che le terrazze non servirono mai a scopi difensivi poiché hanno un perimetro piatto e sono privi di fossati o argini. L’ipotesi più affascinante è che siano state le popolazioni neolitiche a costruire queste opere imponenti, riconoscendo subito nel Tor un luogo sacro e privilegiato, quando ancora Glastonbury non esisteva ma vi era al suo posto un’isola ricoperta di fitti boschi di noccioli, tassi, biancospini e meli, ricca di acqua (la fonte bianca e la fonte rossa, i colori dell’Altromondo celtico) e di risorse naturali e punto di osservazione privilegiato di fenomeni astronomici. Secondo autorevoli studiosi come Nicholas Mann, il Tor fu un’area di attività preistorica e il fulcro d’importanti cerimonie religiose, dal momento che nei dintorni sono assenti monumenti di pari importanza. Altri studiosi come Rahtz , Russell e Ashe, a partire dalla fine degli anni 60 hanno notato che le sette terrazze del Tor costituiscono i resti di un labirinto tridimensionale, con tutta probabilità attribuibile all’era neolitica. Labirinti di questo genere ma di minori dimensioni sono presenti in tutto il mondo e all’interno di civiltà differenti, e sono ritenuti simboli di morte e rinascita, poiché rappresentano il viaggio di discesa e successiva riemersione dal mondo dell’aldilà. Il labirinto di Creta, secondo la tradizione classica, rappresenterebbe anche il viaggio nell’interiorità alla riscoperta del lato selvaggio e ctonio della natura umana. Ciò si sposa perfettamente con le innumerevoli leggende locali che identificano il Tor con l’ingresso dell’Altromondo. Tale apertura si troverebbe su uno dei pendii del Tor, forse contrassegnato da una Tor Burr, una delle grosse pietre ovalari che disseminano e costituiscono l’impalcatura della collina. Varie di queste pietre possono essere osservate sul Tor, ma quella più famosa giace ora accanto all’Abbott’s Kitchen nell’Abbazia: viene chiamata dalla leggenda Pietra Omphalos e sembra che fosse oggetto di culto in tempi antichissimi, potrebbe trattarsi  di una pietra oracolare su cui le sacerdotesse, in particolare nei giorni del mestruo, si sedevano a profetare.

Forse non sapremo mai con esattezza quali e quanti misteri cela questa collina sacra ma le persone che ancora la percorrono hanno esperienze che le cambiano profondamente, aprendo nuove dimensioni al loro modo di percepire la vita e quando anche questo non avvenisse è certo che stare in cima alla collina spazzata dai venti e godere del panorama meraviglioso che spazia la campagna verde smeraldo e talora arriva fino al canale di Bristol è sicuramente un momento unico ed irripetibile per cui vale la pena un viaggio in questo luogo affascinante e carico di enigmi secolari.

Kathy Jones e altre studiose che vivono a Glastonbury si sono inoltre accorte, studiando il paesaggio sacro dell’isola, che su di esso si ritrovano delle forme che possono essere paragonate ad una donna che si distende del paesaggio, con il suo ventre in corrispondenza di Chalice Well ed un seno in corrispondenza del Tor

Oppure, alternativamente, il paesaggio sembra delineare anche una vecchia strega che vola sul dorso di un cigno: la testa del cigno è rappresentata da Wearyall Hill mentre il Tor rappresenterebbe il grembo della Vecchia Saggia.
Il Tor viene dunque interpretato o come il seno abbondante che nutre i figli della Dea (infondo alla base del Tor sgorga la Fonte Bianca, sorprendentemente simile al latte…) o come il ventre ormai non più mestruato della vecchia Crona. Nei tempi antichi le donne anziane in menopausa erano molto rispettate poiché si pensava che trattenessero in loro il sangue magico che le rendeva sagge e potenti. La collina sacra mantiene cosi anche il questo caso il suo dualismo: porta ultraterrena che conduce alla rinascita.

Il festival di Glastonbury

Il festival di Glastonbury, che è chiamato ufficialmente Glastonbury Festival of Contemporary Performing Arts, è un festival musicale e di spettacolo che si tiene a Pilton, a circa 10 km da Glastonbury nel Somerset in Inghilterra. Il festival è conosciuto soprattutto per la sua musica, ma non sono da trascurare gli elementi relativi alla danza, la commedia, il teatro, il circo, il cabaret e altre forme d’arte. Nel 2005, il festival occupava un terreno di 3,70 km² di superficie e 150.000 persone avevano assistito ai 385 spettacoli live.Glastonbury-Festival-Sunset-800x500

Glastonbury è anche conosciuto per l’elevato consumo di droghe illegali da parte dei partecipanti, abitudine creatasi grazie alla sua origine hippie, e per questo tenuto costantemente sotto controllo dalla polizia. Si svolge di regola ogni anno durante l’ultimo week-end di giugno e dura 3 giorni. I biglietti 203.000 per l’edizione del 2019 sono andati esauriti in 36 minuti….Glasto-2019-poster

 

Exeter

Exeter (in cornico Karesk) è una città del Regno Unito, capoluogo della contea inglese del Devon. Antica Isca Dumnoniorum, è nota in cornico come Karesk e in gallese come Caerwysg. Semidistrutta dai bombardamenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, conserva numerose testimonianze di tutta la storia inglese. Il principale monumento che ospita è la sua cattedrale. La città fu fondata dai Romani con il nome di Isca Dumnoniorum nel 50 dopo Cristo. Si trattava della fortezza romana più occidentale in Anglia. Durante il periodo sassone la città (Exanceaster) fu oggetto di diversi attacchi da parte dei vichinghi che la conquistarono brevemente in due occasioni, nell’876 e nel 1001. Fu contro un discendente dei vichinghi, il normanno Guglielmo il Conquistatore, che Exeter si ribellò nel 1067. Guglielmo prontamente mise la città sotto assedio che si arrese dopo soli 18 giorni. La città è ricordata nella storia inglese per il grande contributo di navi che diede per sconfiggere l’Invincibile Armata nel 1588. Il motto stesso della città, Semper Fidelis, deriva da quel periodo. Successivamente, e sino alla fine della Guerra civile inglese, Exeter fu una città assai florida grazie al commercio della lana. All’inizio della Rivoluzione industriale poteva contare sull’energia prodotta dal suo fiume. Successivamente, tuttavia, quando la forza vapore sostituì l’acqua come forza propulsiva nel XIX secolo Exeter si trovò a essere troppo lontana dai rifornimenti di carbone. Per questo motivo la città ebbe un periodo di declino significativo. Ciò nonostante fu aperto un nuovo porto a Topsham, più vicino al mare. Con l’arrivo del treno che la collegava prima a Bristol, poi a Plymouth e a Londra, la città riprese il suo sviluppo.exeter-cathedral-early-evening

La cattedrale di Exeter

La cattedrale di Exeter (cattedrale di San Pietro, in inglese Cathedral Church of Saint Peter)  è la chiesa principale della diocesi anglicana di Exeter, nel Devon (Inghilterra). L’edificio attuale, completato intorno al 1400, presenta caratteristiche peculiari come le antiche misericordie, l’orologio astronomico e la più lunga volta continua d’Inghilterra.  La fondazione della cattedrale di Exeter, dedicata a san Pietro, risale al 1050, quando la sede del vescovo di Devon e Cornovaglia fu trasferita da Crediton per paura di scorribande dal mare. In città esisteva all’epoca un edificio di culto di epoca anglosassone dedicato a Maria e san Pietro, usato dal vescovo Leofrico come sua sede, ma per mancanza di spazio le celebrazioni avvenivano all’aperto, nelle vicinanze del sito dell’attuale cattedrale. Nel 1107 venne nominato vescovo William Warelwast, un nipote di Guglielmo il Conquistatore, dando così impulso alla costruzione di una nuova cattedrale in stile normanno. La fondazione ufficiale avvenne però solo nel 1133, dopo la fine della permanenza di Warelwast nella diocesi. In seguito all’arrivo di Walter Branscombe come vescovo nel 1258, l’edificio in costruzione venne giudicato superato e fu ricostruito in stile gotico decorato, sull’esempio della cattedrale di Salisbury. Tuttavia gran parte della costruzione gotica venne mantenuta, comprese le due massicce torri quadrate e parte delle murature perimetrali. Il materiale usato per la costruzione è tutto locale, come il marmo Purbeck. La nuova cattedrale venne completata intorno al 1400, tranne la sala capitolare e le cappelle per le messe di suffragio. Come la maggior parte delle cattedrali inglesi, quella di Exeter subì la dissoluzione dei monasteri. Ulteriori danni si verificarono durante la guerra civile inglese, con la distruzione dei chiostri. Dopo la restaurazione di Carlo II, John Loosemore costruì un nuovo organo a canne. La sorella di Carlo II Enrichetta Anna Stuart fu battezzata nella cattedrale nel 1644. Durante l’età vittoriana la chiesa subì alcuni restauri operati da George Gilbert Scott. exeter-cathedral-sideIl 4 maggio 1942, un bombardamento colpì la città, con una bomba che colpì e distrusse tra l’altro la cappella di San Giacomo della cattedrale. Fortunatamente molti preziosi oggetti conservati nella chiesa erano stati rimossi preventivamente prima dell’attacco. Successivi lavori di restauro della parte ovest dell’edificio portarono alla luce parti di strutture precedenti, inclusi alcuni resti della città romana e dell’originaria cattedrale normanna.extint

 

Torquay

Si trova sul Canale della Manica, a circa 35 km a sud di Exeter e a circa 61 km a nord-est di Plymouth e confina con la vicina cittadina di Paignton nell’ovest della baia. La popolazione di Torquay è di 63998 abitanti, come risulta dal censimento del 2001; per numero di abitanti è il terzo insediamento urbano del Devon. Se l’area di Torbay, di cui Torquay occupa un terzo, fosse riconosciuta come una unica entità, risulterebbe essere la 45esima città del Regno Unito, con una popolazione appena inferiore a quella di Brighton, località a cui è stato attribuito lo status di città nel 2000. Durante la sessione estiva la popolazione raggiunge un picco di 200.000 abitanti.IMG_3252

Originariamente l’economia di tale centro si basava sulla pesca e l’agricoltura, ma dall’inizio del XIX secolo in poi si è sviluppata una fiorente attività turistica in ragione della favorevole posizione sul mare. I primi a utilizzare la località a tale fine furono gli ufficiali della Marina britannica di stanza nel porto militare lì allestito in ragione del conflitto contro la Francia di Napoleone; successivamente fu frequentato assiduamente dall’aristocrazia e dall’alta borghesia vittoriana. Rinomata per il clima salubre, la cittadina ha guadagnato l’appellativo di English Riviera, con paragoni a Montpellier.

Tra i personaggi più famosi nati a Torquay figurano anche l’esploratore Richard Francis Burton (1821-1890) e la notissima scrittrice di letteratura poliziesca

Agatha Christie (1890-1976).

Agatha Mary Clarissa Miller nasce nel 1890 a Torquay, in Inghilterra da padre americano.Agatha_Christie_3

Quando la piccola è ancora in tenera età, la famiglia si trasferisce a Parigi dove la futura scrittrice intraprende fra l’altro studi di canto.

Orfana di padre a soli dieci anni, viene allevata dalla madre (oltre che dalla nonna), una donna dotata di una percezione straordinaria e di una fantasia romantica spesso non collimante con la realtà. Ad ogni modo, il padre della Christie non era certo un esempio di virtù familiari, essendo un uomo più dedito al cricket e alle carte che alla famiglia. Ad ogni modo, l’infanzia della Christie sarebbe una normale infanzia borghese se non fosse per il fatto che non andò mai a scuola. Anche della sua educazione scolastica si incaricò direttamente la madre, nonché talvolta le varie governanti di casa.

Inoltre, nell’adolescenza fece molta vita di società fino al matrimonio, nel 1914, con Archie Christie che in seguitò diventerà uno dei primi piloti del Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale. La Christie aveva sviluppato intanto una forte passione per la musica e infatti, divenuta un poco più consapevole circa il proprio futuro, aspira fortemente a diventare una cantante lirica. Purtroppo (o per fortuna, dal punto di vista della storia della letteratura), non ottiene molti riscontri in questa veste, cosa che la persuade a tornare in Inghilterra. Agatha in questo periodo inizia la sua attività di scrittrice con biografie romanzate con lo pseudonimo di Mary Westmacott che, però, vengono ignorate sia dal pubblico che dalla critica.

L’idea per il suo primo romanzo giallo, “Poirot a Styles Court”, le venne lavorando in un ospedale, come assistente nel dispensario, a contatto con i veleni.

Il primo successo arrivò, nel 1926, con “Dalle nove alle dieci”. Dopo la morte della madre e l’abbandono del marito (di cui dopo il divorzio conservò il cognome per ragioni unicamente commerciali), Agatha scompare e, dopo una ricerca condotta in tutto il paese, viene ritrovata ad Harrogate nell’Inghilterra settentrionale sotto l’effetto di un’amnesia. Per due o tre anni, sotto l’effetto di una forte depressione, scrisse romanzi decisamente inferiori alle sue opere più riuscite, fino a che un viaggio in treno per Bagdad le ispirò “Assassinio sull’Orient Express” e la fece innamorare di Max Mallowan che sposò nel 1930.

Nel 1947 il suo successo è ormai talmente radicato che la Regina Mary, al compimento dei suoi ottant’anni, chiede alla scrittrice, come regalo di compleanno, la composizione di una commedia. La Christie, assai lusingata della richiesta, stende il racconto “Tre topolini ciechi”, che la Regina dimostrò in seguito di gradire moltissimo. Anche il pubblico ha sempre dimostrato di essere molto attaccato alle sue opere. Tradotti in 103 lingue, in alcuni casi è diventata talmente popolare da sfiorare il mito. In Nicaragua, ad esempio, venne addirittura emesso un francobollo con l’effigie di Poirot. Nel 1971 le viene assegnata la massima onorificenza concessa dalla Gran Bretagna ad una donna: il D.B.E. (Dama dell’Impero Britannico).

Nel Natale del 1975 nel romanzo “Sipario” la Christie decise di far morire l’ormai celeberrimo investigatore Hercule Poirot mentre, il 12 gennaio 1976, all’età di 85 anni, muore anche lei nella sua villa di campagna a Wallingford. E’ sepolta nel cimitero del villaggio di Cholsey nel Oxfordshire. Secondo un rapporto dell’UNESCO, Agatha Christie in vita guadagnò circa 20 milioni di sterline, cioè poco più di 23 milioni di euro.

A tutt’oggi, Agatha Christie è una certezza per gli editori che pubblicano i suoi romanzi, essendo uno degli autori più venduti al mondo.
Tintagel

Tintagel è un villaggio situato sulla costa settentrionale della Cornovaglia, all’interno della AONB (Area of Outstanding Natural Beauty, in italiano Area di Eccezionale Bellezza Naturalistica) della contea.  Sulla penisola di fronte al villaggio sorgono le rovine di un castello, legate sia alla storia che alla leggenda. Il Castello di Tintagel è senza dubbio una delle mete più affascinanti e suggestive della Gran Bretagna. Questa fortezza Normanna a picco sul mare fu costruita nel XIII secolo (si suppone che precedentemente il sito fosse occupato da una comunità monastica) ma ebbe vita breve, perché era già avviata al declino appena un secolo dopo la sua fondazione. Il Castello di Tintagel è collegato al mito di Re Artù,  perché secondo una leggenda questo è il luogo dove il sovrano fu concepito grazie a un sortilegio del Mago Merlino, che permise a Uther Pendragon di sedurre sua madre. Un’altra leggenda lo connette invece al mito di Tristano, uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Nei pressi delle rovine ci sono due tunnel. Il più lungo viene chiamato Merlin’s Cave (Caverna di Merlino): si dice che l’antico mago cammini ancora al suo interno, e che a volte si senta addirittura la sua voce! L’atmosfera che aleggia su Tintagel è davvero unica. Verremo trasportarti indietro nel tempo e renderemo quasi reali le favole che ci raccontavano su Re Artù. E quando ritorneremo con i piedi per terra, saremo nuovamente rapiti dai fantastici panorami che si ammirano dalle vestigia del castello. Tintagel si trova circa 60 km a nord-est di Truro.IMG_3254

 

Il castello di Tintagel

Il castello di Tintagel (in inglese: Tintagel Castlein lingua cornica: Kastell Dintagell, che significa “forte della costrizione”) è un castello medievale della cittadina di Tintagel, nel nord della Cornovaglia (Inghilterra sud-occidentale), di cui oggi rimangono soltanto delle rovine.IMG_3254

Il sito era già occupato in epoca romano-britannica, come dimostrano ritrovamenti di questo periodo. Fu poi abitata in età altomedievale, quando, probabilmente, fu una delle residenze del sovrano della Dumnonia. Dopo che la Cornovaglia era stata assorbita dal regno d’Inghilterra, tra il 1227 e il 1240 un castello sarebbe stato costruito per volere dell’re Riccardo, che poi cadde in rovina, mentre secondo un’altra teoria era stato iniziato già edificato nel 1131 da Reginaldo di Cornovaglia.

Negli anni Trenta del XX secolo gli scavi hanno portato alla luce tracce significative di un importante insediamento del tardo periodo romano. Il castello è stato per molto tempo associato con le leggende arturiane.

Tale connessione iniziò con l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth nel XII secolo, che indicò Tintagel come luogo del concepimento di Artù. Goffredo racconta  la storia secondo Uther Pendragon, con l’aiuto di Merlino, assume le sembianze del duca di Cornovaglia, Gorlois, giacendo così con sua moglie Igraine, concependo Artù. La leggenda non trova però riscontro, dato che è appurato che l’edificio dove sarebbe nato o vissuto Re Artù è sorto evidentemente vari secoli dopo. Sul luogo, pare sorgesse invece in origine un monastero del VI-IX secolo oppure un’altra fortezza oppure ancora un insediamento commerciale del VI secoloIMG_4978

Le rovine del castello, meta turistica sin dalla metà del XIX secolo, sono oggi gestite dall’English Heritage

 

Re Artù

Se esiste una leggenda che ancor oggi suscita incantevole fascino, senza dubbio, è quella del mitico Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’origine del racconto, come lo conosciamo oggi, si perde nei secoli. I bardi britannici, a partire dal VII secolo d.C., cantavano alla corte dei loro signori le gesta del grande re Artù.IMG_3257

Questo impavido e nobile condottiero è davvero esistito?

Da tempo noti studiosi si sono messi sulle tracce del mito e alcuni di essi sono certi di aver individuato la verità storica dietro re Artù.

Andiamo con ordine.

Innanzitutto, il motivo che spinge a rifiutare la storicità di re Artù è il suo magico mondo; conosciamo bene la leggenda che difatti è intrisa di racconti e figure incredibili, ovvero non reali, (Mago Merlino, la spada magica, la Dama del Lago, per citarne qualcuno). Dove finisce la leggenda e inizia la “storia” di Re Artù? Le fonti consultate dagli studiosi iniziano proprio dai canti dei bardi britannici.

Questi racconti orali, a partire dal XII secolo hanno iniziato ad avere il loro supporto scritto; diversi autori ne hanno trattato l’argomento fino al XV secolo. Di volta in volta questi racconti acquisivano dettagli in più, diventando veri e propri romanzi. I romanzi arturiani (il cosiddetto ciclo bretone) dal XII secolo al XV secolo denotano però un sovrano medievale, non più il sovrano dell’età tardo romana. Questo vale anche nelle raffigurazioni: Re Artù si veste e combatte in modo medievale, ma la leggenda parla chiaro: l’eroe unificò la Britannia nei suoi secoli bui. L’Artù della leggenda opera quindi negli anni della caduta dell’Impero romano e lotta contro le invasioni dei barbari angli, pitti e sassoni che, da ogni parte, minacciavano la delicata stabilità della Britannia. Il condottiero doveva aver quindi operato negli anni tra la fine del V e l’inizio del VI secolo.

È probabile che un uomo, magari di stirpe nobile, abbia sentito il dovere e l’esigenza di agire contro i barbari e le loro razzie?

Cosa ci dicono le fonti?

Gli annali degli Anglosassoni (ormai riuniti in un solo popolo) parlano (ovviamente) delle loro vittorie e gli stessi tacciono in merito a una loro potente arretrata in seguito a una vittoria dei Britanni. Questo vuoto nella cronaca è però raccontato dal monaco Gildas il Saggio, del VI secolo: nel suo De Excidio et conquistu Britanniae racconta che da ogni parte la Britannia è sotto minaccia barbara a causa dei signori incapaci di agire contro gli invasori Gildas a un certo punto parla dell’importante e fondamentale vittoria dei britanni contro gli anglosassoni: la battaglia di Badon Hill.

È questa la battaglia assente nella Cronaca Anglosassone

Da questa battaglia nascerebbe il mito di re Artù. Gildas scrive della battaglia di Badon Hill in un tempo in cui era viva la memoria dei fatti: furono tre giorni di combattimento in cui la cavalleria britannica, educata alla romana, ebbe la meglio. Questa frenata agli anglosassoni è documentata da ritrovi archeologici che attestano un lungo periodo di pace. Fu Artù il condottiero di Badon Hill? Ammesso che non esista la storicità di re Artù, senza dubbio è esistito un condottiero capace di unire la Britannia e dare una frenata agli invasori esteri.

Gildas e Beda il Venerabile, l’altra fonte in cui compare la battaglia di Badon Hill, non nominano il condottiero; a farlo è un’altra fonte di cui si dispone: lo storico Nennio nella sua Historia Brittonum parla della battaglia e del suo condottiero e lo nomina, senza indugio, come Artù. Nennio è ritenuto dagli storici una fonte poco credibile per l’inserimento nella sua opera di molti temi mitologici, ma è lo stesso Nennio ad avvertire il lettore: sente l’esigenza di mettere per iscritto fatti che potrebbero essere dimenticati ma lascia a noi il compito di scremare la verità dalla fantasia.

Quando parla di re Artù lo fa con gli occhi di uno storico e il racconto non è mai stravolto dall’intrusione di elementi fantastici, anzi racconta semplicemente che il condottiero Artù guidò la battaglia e la vittoria dei Britanni contro gli anglosassoni. Niente altro. Oltre a Nennio, vi è un’altra fonte storica che cita il condottiero come Artù: gli Annali del Galles. Per molti la risposta alla storicità del condottiero Artù sta nel nome stesso del mitico re. In celtico la parola arth significa orso e la dea della caccia Artio, spesso veniva rappresentata nelle sembianze di un orso.

Forse il condottiero di Badon Hill aveva sul suo stendardo l’immagine di un orso?

Ammesso questo, non si andrebbe a identificare un uomo ben preciso, sebbene alcuni lo individuerebbero nel condottiero Aureliano Ambrosio e altri nel comandante Lucio Artorio Casto. Ciò che allontanerebbe l’ipotetica storicità del re di Camelot dai due candidati e il periodo storico in cui essi vissero: Lucio Artorio Casto opera nel II secolo quindi lontano dai fatti che interesserebbero re Artù. Ambrosio Aureliano, visse intorno al 475 e, sebbene avesse riunito i popoli britanni contro i barbari invasori, ebbe una vittoria effimera perché già nel 477 (e nel 485 e ancora nel 495) la Cronaca anglosassone registra una nuova ondata di sassoni, quindi una sconfitta di Aureliano.

Il mosaico della Cattedrale di Otranto dove si legge la scritta “Rex Arturus”:

Grazie al condottiero di Badon Hill (516 d.C.) si ha invece un periodo di pace durato più o meno una generazione, non soltanto un paio di anni. Ritornando a Gildas, questi nel suo libro, a un tratto, si scaglia contro il sovrano Cuneglasus (suo contemporaneo) chiamandolo orso, e nella sua invettiva, sotto metafora, gli dice di non comportarsi come si addice a una persona del suo rango al comando com’è di un qualcosa di molto importante, quasi sacro, che un tempo era appartenuto all’orso. È questa la chiave secondo lo storico Graham Philips per svelare il mistero: Cuneglasus era chiamato orso da Gildas perché aveva ereditato quell’appellativo dal suo predecessore nonché padre:

Usanza celtica, infatti, era quella di dare alle personalità più importanti nomi di animali che ne denotassero tratti del carattere e della personalità. Questi nomi venivano poi tramandati nelle generazioni. È probabile che Gildas si fosse rivolto a Cuneglasus chiamandolo con l’appellativo che aveva ereditato dal padre: Artù quindi sarebbe stato l’appellativo di Owain Ddantgwyn, re del Powys.

Per alcuni studiosi non ci sarebbero più dubbi: re Artù è la figura storica realmente esistita del re Owain. Per molti altri accademici, invece, l’individuazione di un unico personaggio dietro re Artù resta confusa. L’ipotesi accettata è quella che la figura del mitico re raccolga in sé l’operato di condottieri che realizzarono le imprese attribuite a re Artù: dall’unione di personaggi storici e leggendari avrebbe preso forma il vero re Artù, quello che oltre i secoli, a prescindere dalle lotte tra gli accademici, ancora regna nella nostra memoria.

 Re Artù e il Sacro Graal

La tradizione medioevale narra di un grande re dei Britanni che sconfigge i nemici Sassoni, unifica il proprio paese, fonda l’Ordine dei Cavalieri della Tavola Rotonda e costituisce un governo ideale a Camelot (la reggia di Artù è stata identificata da alcuni studiosi con la fortezza neolitica di Cadbury, ai confini tra il Somerset e il Dorset, da altri con il castello di Greenan, a nord di Glasgow).

Per alcuni studiosi, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi; per altri un dio del pantheon celtico, forse il simbolo della terra stessa (Art = roccia, da cui Earth ), poi trasformato dalla leggenda in un essere umano. C’è invece chi ritiene che sia esistito veramente: nel VI secolo d.C. fu forse il re o il capo di una tribù britannica impegnata nella resistenza contro gli invasori Sassoni. Purtroppo dell’Artù storico – se mai c’è stato – si conosce ben poco: lo stesso nome “Arthur”, in inglese, non fornisce indicazioni sulla sua origine. Potrebbe derivare dal latino Artorius  (in tal caso Artù era forse un Comes Britanniarum , ovvero un rappresentante locale dell’Impero Romano), dal gaelico Arth Gwyr (“Uomo Orso”), o ancora dal già citato Art (Roccia  in irlandese).

Un principe britanno chiamato “Arturius, figlio di Aedàn mac Gabrain Re di Dalriada” è citato dall’agiografo Adomnan da Iona nella “Vita di San Colombano” (VIII° secolo); nella “Historia brittonum” (IX° secolo) lo storico Nennio racconta che il dux bellorum Artorius era il comandante dei Britanni durante la battaglia contro i sassoni al Mons Badonis (Bath?); gli “Annales Cambriae” (X° secolo) descrivono la sua morte e quella del traditore Medraut (“Mordred”) nella battaglia di Camlann nell’ “anno 93” (539 d.C.?); ma altri storici dell’epoca, tra cui Gildas e il Venerabile Beda, non fanno alcun cenno a un condottiero chiamato Artù. All’Artù storico sono stati attribuiti convenzionalmente una data di nascita e di morte (475-542 d.C.), ma c’è chi lo identifica con personaggi più antichi. Arthur diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi intorno al 600 d.C. Nell’XI° secolo era considerato dagli inglesi un eroe nazionale, e le sue imprese – diffuse dalle canzoni dei Bardi – erano note non solo in Gran Bretagna, in Irlanda, nel nord della Francia, ma anche nella lontana Italia: lo dimostra un bassorilievo sulla “Porta della Pescheria” del Duomo di Modena realizzato intorno al 1120 (e cioè con almeno dieci anni di anticipo sul ciclo di narrazioni scritte cui dette l’avvio Chretien de Troyes, il più grande scrittore medioevale di romanzi arturiani, originario della Champagne, attivo tra il 1130 e il 1190).

L’Artù celtico-britannico era un personaggio che i romani avrebbero definito “un barbaro”: un re robusto e coraggioso quanto rozzo e incolto. La sua notorietà internazionale impose quella che oggi definiremmo un’operazione di “rinnovamento dell’immagine” allo scopo di nobilitare la sua figura e farne il signore di Camelot.

Fu l’inglese Geoffrey di Monmouth a dare il via al processo che avrebbe trasformato Re Artù da monarca “barbaro” a simbolo messianico di Re-Sacerdote e i suoi cavalieri in un perfetto modello per le istituzioni cavalleresche medioevali (la Tavola Rotonda). Tra il 1130 e il 1150, nell’“Historia Regum Britanniae”, nelle “Prophetiae Merlini” e nella “Vita Merlini”, Geoffrey tracciò una precisa quanto fantasiosa genealogia del sovrano, recuperò e interpretò in chiave cristiana (e non più celtica) Merlino e gli altri comprimari, e pose alcuni capisaldi del futuro ciclo, battezzando, per esempio, “Avalon” il sepolcro da cui Artù sarebbe risorto ” quando l’Inghilterra avrebbe avuto ancora bisogno di lui “.

Escalibur

La spada denominata Escalibur, il cui nome è stato recentemente interpretato da insigni celtisti come una sorta di crasi delle parole latine, ossia ensis caliburnus, cioè la “spada calibica” , cioè forgiata dai Calibi (antica e mitica popolazione della Scizia, di cui si dice, scoprirono il ferro e ne portarono l’uso fra gli uomini).

Massimo Valerio Manfredi, storico del mondo antico e scrittore di successo, nel suo ultimo romanzo “L’ultima legione”, che ruota intorno ad un gruppo di soldati romani lealisti che si assumono il compito di far fuggire e portare in salvo in Britannia l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, deposto nel 476 d.C. da Odoacre, insieme al suo precettore Meridius Ambrosinus, immagina che Romolo Augusto rifugiatosi in Britannia divenga re con il nome di Pendragon e abbia un figlio di nome Artù, mentre in Meridius Ambrosinus adombra Myrdin o Merlino. Quanto a Escalibur il suo significato sarebbe “Cai.Iul.Caes.Ensis Caliburnus”, cioè la spada Calibica di Giulio Cesare, che, ritrovata casualmente da Romolo e portata in Britannia sarebbe stata scagliata lontano dallo stesso Romolo (Pendragon) in segno di pace, si sarebbe conficcata in una roccia e qui, esposta alle intemperie, avrebbe finito per lasciar leggere solo alcune lettere dell’iscrizione, e cioè: E S CALIBUR.

Il Santo Graal

Il termine Graal deriva dal latino Gradalis, con cui si designa una tazza, un vaso, un calice, un catino. Questi oggetti nella mitologia sono i simboli del grembo fecondo della Grande Madre, la Terra, e portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il “Calderone di Dagda”, portato nel mondo materiale dai Tuatha De Danaan rappresentanti ultraterreni del “piccolo popolo” (il magico popolo degli abitatori dei boschi, fate, streghe, gnomi e folletti). Molti eroi celtici hanno avuto a che fare con magici calderoni. La tradizione cristiana annovera almeno due sacri contenitori: il Calice dell’Eucarestia e – sorprendentemente – la Vergine Maria. Nella ” Litania di Loreto”, antica preghiera dedicata a Maria, essa è descritta come Vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ovvero “vaso spirituale, vaso dell’onore, vaso unico di devozione”: nel grembo (vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta.

Forse, quando, alla fine del XII° secolo, Chretien de Troyes decise di introdurre nella materia arturiana il motivo del “Vaso Sacro “, lo fece perché era al corrente dei miti celtici del Calderone e l’argomento gli sembrò particolarmente in tema. Forse esisteva già una tradizione orale sul Graal e Chretien si limitò a metterla per iscritto. Forse (è l’ipotesi più probabile) elaborò in termini cristiani le antiche leggende sui contenitori sacri. Il Graal arturiano fu descritto per la prima volta da Chretien intorno al 1190 in “Perceval le Gallois ou le Compte du Graal”. La parola “Graal” è utilizzata con il significato generico di coppa e fa parte di un gruppo di oggetti egualmente dotati di poteri mistici, ma non ha comunque alcuna associazione con il sangue di Gesù. Solo nel successivo “Joseph d’Arimathie – Le Roman de l’Estoire dou Graal”, un testo arturiano del cosiddetto “Ciclo della Vulgata” (dove però Re Artù non compare) scritto da Robert de Boron intorno al 1202, il Graal viene descritto come il calice dell’Ultima Cena, in cui Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso.

Perché il calice fu portato proprio in Inghilterra? I sostenitori della sua esistenza materiale avanzano delle ipotesi piuttosto ardite. Durante gli anni sconosciuti della sua vita, prima della predicazione, Gesù avrebbe soggiornato per un certo periodo in Cornovaglia e avrebbe ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido. Dopo la crocefissione, Giuseppe d’Arimatea, discepolo e forse zio di Gesù, avrebbe voluto riportarla al donatore ulteriormente santificata dal sangue di Cristo; il Druido in questione era Merlino, trait d’union tra la religione celtica e quella cristiana (lo stesso che ritroviamo cinquecento anni dopo quale consigliere di Artù?). Comunque sia, le peripezie subite dal Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra variano in modo considerevole a seconda delle varie fonti. Ad ogni modo, secoli dopo, il Graal è, di fatto, perduto. Sulla Britannia si abbatte una maledizione chiamata dai Celti Wasteland (“La terra desolata”), uno stato di carestia e devastazione sia fisica che spirituale.

Per annullare il Wasteland – spiega Merlino ad Artù – è necessario ritrovare il Graal, simbolo della purezza perduta. Uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, Parsifal, ispirato da sogni e presagi, superando una serie di prove, rintraccia Corbenic, il Castello del Graal e giunge al cospetto della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande “Che cos è il Graal? Di chi esso è servitore?”, contravvenendo così al suggerimento evangelico “Bussate e vi sarà aperto”. Il Graal scompare di nuovo. Dopo che il cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende. Finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito e il Wasteland finisce. Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo (o d’aria). Il Graal viene riportato in medio oriente da Parsifal e Galaad. Per secoli non se ne sente più parlare, finché, verso la fine del XII° secolo, esso torna improvvisamente alla ribalta. Come mai? Cos’aveva ridestato l’interesse nei confronti di un mito apparentemente dimenticato? La maggior parte degli studiosi concordano nel ritenere le Crociate l’avvenimento scatenante. A partire dal 1095 molti cavalieri cristiani si erano recati in Terra Santa ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del luogo: sicuramente qualcuna di esse parlava del Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri. Grazie ai Crociati, la leggenda raggiunse l’Europa e vi si diffuse. C’è anche chi ritiene che il Graal sia stato rintracciato dai Cavalieri Templari (v. articolo in fondo alla pagina) e riportato nel vecchio continente. In tal caso vi si troverebbe ancora. Innumerevoli i probabili luoghi in cui sarebbe stato nascosto, molti anche in Italia, Torino, a Castel del Monte, nella nicchia del “Sacro Volto” a Lucca, nella cattedrale di Modena, sul cui portale sono riprodotti i cavalieri di Re Artù, nella cattedrale di Otranto, ove si trova un mosaico raffigurante Artù a cavallo di un gatto selvatico.Uno dei luoghi più accreditati sarebbe la cappella di Rosslyn, costruita proprio dai discendenti dei Templari più di cinque secoli fa in terra di Scozia e resa celebre dal famoso thriller esoterico di Dan Brown “Il Codice da Vinci”, ma prima di lui anche dai ricercatori britannici Knight e Lomas nell’affascinante indagine dal titolo “La chiave di Hiram”.

Non in tutte le tradizioni il Graal è un calice, infatti esso è stato associato anche a un libro scritto da Gesù Cristo alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio .

Intorno al 1210, nel poema “Parzival”, il tedesco Wolfram Von Eschenbach conferì al Graal ulteriori connotazioni, non più una coppa, bensì ” una pietra del genere più puro (…) chiamata lapis exillis. Se un uomo continuasse a guardare( la pietra) per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe”. Il termine lapis exillis è stato interpretato come “Lapis ex coelis”, ovvero pietra caduta dal cielo: e, difatti, Wolfram scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione.

Dunque non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l’ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l’abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. La tradizione sull’esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona dell’Asia, del Nord Africa e dell’Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la “Lampada di Aladino”, il “Vello d’Oro”, l’”Arca dell’Alleanza”).

Lo scrittore inglese Graham Hancock in “Il mistero del sacro Graal. Alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza” (1995) ipotizza che il Graal simboleggi l’Arca dell’Alleanza, costruita dall’antico popolo israelitico per contenere le tavole dei Dieci Comandamenti, venerata nei secoli come simbolo della presenza di Dio sulle terra, dotata di poteri straordinari, inspiegabilmente scomparsa dal Tempio di Salomone nel sesto secolo prima di Cristo, senza lasciare traccia, ma che forse si trova attualmente in Etiopia ad Axum.

Ad ogni modo il Graal, con qualunque cosa si identifichi materialmente, è un oggetto materiale e spirituale insieme.

Per gli antropologi è un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli. Per gli esoteristi Renè Guenon e Julius Evola, il Graal è il cuore di Cristo, potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un esponente. Per gli alchimisti rappresenta la conoscenza e la sua ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell’Elisir di lunga vita. Per Carl Gustav Jung è un archetipo dell’inconscio. Ci credeva e lo fece cercare anche Hitler per il quale era uno strumento magico con cui ottenere il potere assoluto. Per gli autori di romanzi di fantascienza e i fautori dell’ipotesi extraterrestre è un’apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri della fusione nucleare.

E per i giornalisti Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln è ancora un altra cosa. Infatti una delle possibili etimologie di Graal comprende l’attributo “San”: “San Graal” sarebbe l’errata trascrizione di “Sang Real”, ovvero “Sangue Reale” e designerebbe una dinastia (per l’occultista inglese, Dion Fortune, quella dei sacerdoti di Atlantide). La stirpe di cui i ricercatori Baigent, Leigh e Lincoln avrebbero scoperto l’esistenza, dopo un’appassionata ricerca, sarebbe quella di Gesù. Salvatosi dalla crocefissione, avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata la dinastia francese dei Merovingi. L’ipotesi, descritta in “The Holy Blood and the Holy Grail” (Il mistero del Graal, 1982) non si ferma qui. Certe misteriose carte rinvenute nel 1892 dal parroco Berenger Saunière dietro l’altare della chiesa di Rennes-Le-Chateau sarebbero state il punto di partenza per il ritrovamento di altri documenti i quali proverebbero che, lungi dall’essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli eredi diretti di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un’antica società iniziatica denominata Il “Priorato di Sion”. Come i “Superiori Sconosciuti” di Agharti, i membri del Priorato – di cui sono stati Gran Maestri, tra gli altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga, Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau – costituiscono una “Sinarchia” o governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce sulle scelte (politiche o d’altro genere) dei governi ufficiali. Purtroppo – fanno rilevare Baigent, Leigh e Lincoln nel seguito di “The Holy Blood and the Holy Grail”, intitolato “The Messianic Legacy” (L’eredità messianica, 1986) – negli ultimi tempi il “Priorato” si è parzialmente corrotto e alcune sue frange mantengono stretti contatti con la Mafia, la P2 e altre associazioni deviate.

Conclusioni

Il Graal è un oggetto materiale e spirituale insieme. Non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l’ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l’abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. In qualche modo ignoto Gesù ne è entrato in possesso.
Le varie leggende a proposito del Graal concordano nel conferirgli un’origine ultraterrena. Per la tradizione cristiana, il Graal rappresenta l’evangelizzazione del mondo barbaro operata dai missionari, stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un sacerdote, Merlino. Per gli esoteristi Renè Guenon e Julius Evola il Graal è il cuore di Cristo, potente simbolo della Religione Primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un esponente; per gli alchimisti rappresenta la conoscenza, e la sua ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell Elisir di lunga vita.

 

La Cornovaglia

La Cornovaglia (cornico Kernow, inglese Cornwall) è una contea inglese e la più piccola non metropolitana, ubicata nella zona sud-occidentale della Gran Bretagna, all’estremità dell’omonima, lunga e vasta penisola, che si protende verso l’Atlantico. Dal punto di vista strettamente geografico la Penisola della Cornovaglia è molto più estesa dell’omonima contea, che infatti costituisce solo la sua estremità più occidentale, mentre l’intera penisola comprende anche l’intera contea del Devon ed una buona parte di quella di Somerset.

La contea di Cornovaglia è una delle sei nazioni celtiche. La lingua locale, oggi riportata in uso, seppur marginalmente, da alcuni appassionati, è imparentata con il gallese ed ancor di più con il bretone.

Il centro amministrativo e l’unica city è Truro, mentre la capitale storica è Bodmin. Comprese le isole Scilly, che si trovano a 45 chilometri dalla costa, la Cornovaglia si estende su una superficie di 3.563 chilometri quadrati. La popolazione supera i 500.000 abitanti. Il turismo è una parte importante dell’economia locale, anche se è la zona più povera del Regno Unito e che fornisce il contributo più basso all’economia nazionale

La storia della Cornovaglia cominciò con le popolazioni pre-romane, che includevano individui di lingua celtica, che si sarebbero sviluppate nel brittonico e nella cornico. Dopo un periodo di dominazione romana, la Cornovaglia tornò indipendente sotto la guida di capi celtici. Dopo aver avuto un’autonomia parziale dal regno d’Inghilterra, fu incorporata nella Gran Bretagna e infine nel Regno Unito. La Cornovaglia compare anche in opere pseudo-storiche o leggendarie come la Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.

Cornovaglia pre-romana

La Cornovaglia e il vicino Devon erano ricchi di stagno, che fu estratto abbondantemente durante l’Età del Bronzo da popolazioni associate con la cultura del vaso campaniforme. Lo stagno è necessario per produrre il bronzo dal rame, e, a partire dal 1600 a.C., la parte occidentale della Britannia si trovò all’interno di un’importante corrente commerciale di esportazione dello stagno in Europa. Ne seguì una grande prosperità (vedi cultura di Wessex).

Evidenze archeologiche che attestano una rottura con la cultura precedente, attorno al XII secolo a.C., hanno fatto ipotizzare a un movimento migratorio o a una vera e propria invasione nella Britannia meridionale. Attorno al 750 a.C. nell’isola iniziò l’Età del Ferro, durante la quale, grazie all’introduzione di attrezzi di ferro e asce, si svilupparono le pratiche agricole. La costruzione di fortezze in collina raggiunse l’apice in questo periodo. Tra il 900 e il 500 a.C. la cultura e i popoli celtici si diffusero in tutte le isole britanniche. La prima menzione che si ha nelle fonti classiche della Cornovaglia viene da uno storico greco della Sicilia, Diodoro Siculo (circa 98–ca. 30 a.C.) che probabilmente cita o parafrasa il geografo greco di IV secolo Pitea di Marsiglia, che veleggiò verso la Britannia. Secondo Strabone erano i fenici a commerciare con gli abitanti della Cornovaglia.

La Cornovaglia continuò a fungere da principale fornitore di stagno per le civiltà mediterranee, tant’è che i romani chiamavano le isole britanniche con il nome di “isole dello stagno”, mutuando questa definizione dai mercanti fenici che commerciavano con la Britannia attraverso le colonie cartaginesi in Spagna. Esiste una forte convinzione locale secondo cui alcuni abitanti della Cornovaglia discenderebbero da coloni fenici.

Quando fecero la loro comparsa le fonti classiche la Cornovaglia era abitata da tribù di lingua celtica. I romani conoscevano l’area come Cornubia, nome correlato con le parole Kernow o Curnow (parole corniche per Cornovaglia). Si è anche ipotizzato che questo nome potrebbe derivare dalla tribù celtica dei Cornovi, che, stando ai romani, vivevano nelle odierne contee dello Staffordshire settentrionale, del Shropshire e del Cheshire, nelle Midlands Occidentali.

Un popolo con questo nome è conosciuto dai romani nell’area tra il Powys e il Shropshire, che si trovano nelle odierne Galles e Inghilterra.

Una teoria poco probabile suggerisce che un contingente fu inviato nella parte sud-occidentale del paese per regnare la terra e bloccare gli invasori irlandesi, teoria però smentita da Philip Payton nel suo libro Cornwall – A History, 1996. Una situazione simile ci fu nel Galles settentrionale. Tuttavia, non esistono prove a supporto di questo movimento verso ovest e il toponimo cornico di Durocornavium (forse Tintagel), riportato da Tolomeo farebbe pensare che lì ci fosse una tribù indipendente denominata “Cornovi” o “gente del corno”. Forse erano una sub-tribù del più grande popolo dei dumnoni, che, a quel tempo, occupava gran parte del territorio occidentale dell’isola.

Cornovaglia romana

Durante la dominazione romana, la Cornovaglia rimase un po’ fuori dalle principali correnti della romanizzazione. Le principali strade costruite dai conquistatori non si estendevano più a ovest di Isca Dumnoniorum (Exeter). Inoltre, lo stagno britannico fu ampiamente soppiantato da quello economicamente più conveniente che proveniva dalla Spagna. È anche possibile che la Cornovaglia non sia mai stata conquistata dai romani e che non cadde mai sotto il loro diretto controllo.

Secondo Léon Fleuriot, comunque, la regione rimase strettamente integrata con i territori vicini grazie alle vie di comunicazione marittime. Secondo Fleuriot, la strada che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel serviva, al tempo dei romani, come una conveniente via per i commerci tra la Gallia (soprattutto l’Armorica) e le aree occidentali della Britannia (Fleuriot 1982:18).

Dopo l’abbandono della zona da parte dei Romani la zona rimase relativamente autonoma fino ad essere  conquistata da popolazioni inglesi provenienti da nord. Monaci provenienti dall’Irlanda cercarono di evangelizzare il territorio costruendovi dei monasteri o semplici missioni; tra di essi spicca la figura di San Colombano evangelizzatore d’Europa.

410-936

Dopo il ritiro dei romani dall’isola, gli Anglosassoni conquistarono gran parte della Britannia orientale, mentre la Cornovaglia restò sotto il controllo dei sovrani romano-britannici locali e delle élite celtiche. Sembra che la Cornovaglia fosse una divisione della tribù dei Dumnoni (il cui centro tribale era nel Devon), anche se all’inizio non ci fu una vera e propria distinzione tra il regno di Cornovaglia e il regno di Dumnonia. Infatti, i loro nomi appaiono ampiamente interscambiabili con il latino Dumnonia per Cornovaglia e l’anglosassone Cornweal per indicare gli abitanti, cioè i gallesi del Corno” , perché il prefisso Corn-, che veniva dal celtico, significava proprio corno, indicando, ovviamente, la conformazione geografica della zona e forse anche la presenza della popolazione pre-romana dei cornavi.

È probabile che almeno fino alla metà dell’VIII secolo i sovrani della Dumnonia furono gli stessi della Cornovaglia. Nella leggenda arturiana Gorlois (Gwrlais in gallese), l’omonimo protagonista ha il titolo di “duca di Cornovaglia”, anche se non ci sono prove sufficienti a supporto di ciò. Potrebbe essere stato un sovrano secondario nella Cornovaglia. Ci fu, di certo, almeno un re, Mark di Cornovaglia. Dopo aver perduto quello che oggi è il Devon, i sovrani britannici furono definiti re di Cornovaglia, oppure i re dei gallesi occidentali.

Questo periodo è anche conosciuto come l’età dei santi (vedi cristianesimo celtico), in cui ci fu anche un revival dell’arte celtica che si diffuse dall’Irlanda e dalla Scozia in Gran Bretagna, in Bretagna e oltre. Santi come Piran, Meriasek o Geraint esercitarono una forte influenza religiosa e politica, riuscendo a mettere in stretta relazione la Cornovaglia con l’Irlanda, la Bretagna, la Scozia e il Galles, dove molti di loro si erano formati o avevano costruito monasteri. Alcuni di questi santi furono spesso strettamente legati ai sovrani locali e in alcuni casi certi santi furono anche re. Un regno di Cornovaglia emerse attorno al VI secolo, come regno dipendente dalla Dumnonia (di cui poi prese il posto). La situazione politica era molto fluttuante, ragion per cui molti re sembrano aver esteso la loro sovranità anche al di là del canale di Bretagna.

Nel frattempo i sassoni del Wessex si stavano rapidamente avvicinando da est e stavano schiacciando il regno della Dumnonia. Nel 721 furono sconfitti a “Hehil” (vedi Annales Cambriae), anche se persero ben presto la maggior parte dei loro territori. Nell’838, nella battaglia di Galford, “gli uomini della Cornovaglia”, alleatisi coi danesi, furono sconfitti da Egbert del Wessex (vedi Cronache anglosassoni)

Gli Annales Cambriae ricordano che in un’altra battaglia, combattuta attorno all’875, un re Doniert o Dungarth di Cerniu (Cornovaglia) annegò e che da questo momento la Cornovaglia fu soggetta del suo regno sul fiume Tamar, massacrando molti di quelli ancora presenti a est. Non si sa se il confine rimase al Tamar o no.

936-1485

La Cornovaglia finì sotto il controllo inglese, seppure con una certa autonomia, dai sassoni prima e dai normanni poi. Il cornico continuò a essere parlato, specie nell’area centro-occidentale del paese, diventando una lingua con le proprie particolarità.

I normanni deposero l’ultimo eorlderman di Cornovaglia, Cadoc, nel 1066, sostituendolo con uno dei loro sostenitori, Roberto, conte di Mortain. Molti di coloro che in Cornovaglia ebbero il potere dai normanni erano bretoni che parlavano bretone e che crearono una successione di earl di Cornovaglia (dal 1068 al 1336). Nel 1336 Edoardo, il principe Nero divenne “duca di Cornovaglia”. Nel XIV secolo emerse una letteratura cornica che aveva il suo centro nel Glasney College (la terza più antica università britannica).

 

Periodo dei Tudor e degli Stuart

La tendenza generale alla centralizzazione amministrativa sotto la dinastia Tudor cominciò a insidiare la condizione speciale della Cornovaglia. Per esempio, sotto i Tudor, le leggi non furono più diverse per l’Inghilterra e per la Cornovaglia. Nel 1497, tra i minatori della Cornovaglia, esplose una ribellione contro l’innalzamento delle tasse voluta da Enrico VII per fare guerra alla Scozia e che si diffuse in tutto il paese. I ribelli marciarono su Londra, guadagnando continui sostenitori, ma furono sconfitti nella battaglia di Deptford Bridge.

Nel 1549 esplose la Rivolta del libro di preghiere, che si opponeva all’introduzione, dopo la Riforma protestante del libro unico di preghiere. All’epoca, infatti, la Cornovaglia era principalmente cattolica. L’introduzione di questo libro con l'”Atto di uniformità” creò particolare scontento in questa regione, perché il testo era solo in inglese, mentre all’epoca molti cattolici parlavano il cornico e non l’inglese. Si pensa che durante questa rivolta sia stato ucciso circa il 20 per centro della popolazione della Cornovaglia. Ciò fu uno dei fattori che più ha contribuito al declino del cornico.

La Cornovaglia svolse un ruolo significativo durante la guerra civile inglese, dato che in un sud-ovest generalmente parlamentarista era una zona fedele alla corona. Per tre volte le forze parlamentari invasero la regione, dove furono anche combattute le due battaglie di Lostwithiel (1642 e 1644). Va anche ricordato l’assedio del Castello di Pendennis, a Falmouth. La difesa della Cornovaglia di Jonathan Trelawny, vescovo di Exeter, che era uno dei sette vescovi imprigionati da Giacomo II nel 1688, fu commemorata nella ben nota “Canzone degli uomini dell’ovest”.

L’attività estrattiva (1800-1900)

I secoli diciottesimi e diciannovesimi hanno visto un fiorire dell’industria estrattiva in Cornovaglia e nel Devon. L’aspetto del territorio è stato completamente modificato da questa nuova fonte industriale e l’UNESCO, nel 2006, ne ha riconosciuta l’importanza aggiungendo il territorio ai Patrimoni dell’umanità con il nome di Paesaggio minerario della Cornovaglia e del Devon occidentale.

 

Cose da fare in Cornovaglia…

  1. Visitare Port Isaac

Probabilmente Port Isaac è il villaggio di pescatori più filmato di tutta la Cornovaglia, però la fama cinematografica e televisiva non gli ha tolto la genuinità tipica dei paesini costieri britannici. Gli appassionati di film e telefilm riconosceranno in questo luogo Port Wenn, dove Doc Martin fa il medico condotto, oppure la location del film “L’Erba di Grace”.IMG_3251

  1. Mangiare il Cornish Pasty

Non si può dire di aver conosciuto davvero la Cornovaglia senza aver mai assaggiato un Cornish Pasty, il celeberrimo fagottino di pasta cotto al forno, ripieno di manzo tritato e verdure, la cui origine si perde nei lontani tempi in cui questa era una terra di pirati e contrabbandieri. Il Cornish Pasty è uno dei capisaldi della gastronomia britannica, perciò non comprarlo al supermercato ma cercalo in uno dei tanti posti dove la preparano ancora in modo tradizionale.

 

  1. Andare alla ricerca dei fantasmi

In Gran Bretagna i fantasmi sono un classico: visitando i luoghi più infestati della Cornovaglia avrai certamente l’occasione di incontrane qualcuno e di fare esperienze soprannaturali. Una delle zone più famose in questo senso è la bellissima Chapel Street, la via più antica di Penzance, dove gli spettri dimorano al The Regent, una ex casa di tolleranza risalente a 400 anni fa.

  1. Scoprire gli antichi monumenti

La Cornovaglia è una terra abitata fin dalla preistoria. Qui troverai numerosi siti archeologici e non avrai che l’imbarazzo della scelta tra standing stone (megaliti), stone circle (circoli di pietre) e altre vestigia dalle lontane origini e dagli scopi misteriosi. Il monumento antico più famoso della Cornovaglia è forse la strana pietra forata chiamata Men-an-Tol.

  1. Visitare Saint Ives

Saint Ives è considerata un po’ come la Saint-Tropez della Gran Bretagna e durante la stagione estiva si riempie di barche a vela, turisti e mondanità. Oppure puoi visitarla in settembre, quando la sua vita ritorna alla normalità. In ogni stagione Saint Ives regala emozioni davvero magiche.

 

  1. Cercare il tuo panorama preferito

La Cornovaglia è una terra meravigliosa fatta di promotori, scogliere a picco sull’oceano Atlantico e splendide spiagge. Perché non prendersi il tempo per andare alla ricerca del paesaggio migliore? C’è chi dice che sia The Rumps (dalle parti di Polzeath), oppure la brughiera di Bodmin. A te la scelta: sappi che in Cornovaglia ogni panorama è il migliore che esista, devi solo trovare il tuo preferito.

 

  1. Passare una giornata in spiaggia

Porthcurno Beach

In estate la Cornovaglia è una destinazione perfetta per andare in spiaggia e potrai anche immaginare di essere un villeggiante d’inizio ‘900. Qui ci sono spiagge per tutti gusti, dall’ampia distesa sabbiosa alla caletta nascosta. Ad esempio possiamo consigliarti Porthcurno Beach, che si trova ai piedi di grandi scogliere, oppure Kynance Cove, forse il luogo più fotografato della regione. Non scordare la protezione solare.IMG_4971

  1. Bere una birra al Rashleigh Inn

La Gran Bretagna è la patria dei pub e la Cornovaglia non fa eccezione. Il Rashleigh Inn di Polkerris sorge in una bellissima zona e si trova praticamente in riva al mare: infatti è soprannominato the inn on the beach (la locanda sulla spiaggia). È uno dei pub più famosi della regione, dove troverai ottima birra e un ampio menu con pesce e specialità locali.

 

St Michael’s Mount

St Michael’s Mount (Monte di San Michele) è un’isoletta situata davanti al paese di Marazion, lungo la costa meridionale della Cornovaglia. La sua particolarità sta nel fatto che si tratta di una cosiddetta isola tidale, che durante la bassa marea è collegata alla terraferma. Sicuramente avrai notato la similitudine con l’omonimo Mont Saint-Michel, altra celebre isola tidale che si trova in Normandia. In effetti le due località sono storicamente collegate, visto che nel XI secolo l’isola della Cornovaglia fu donata da re Edoardo il Confessore all’ordine monastico dell’isola francese.IMG_3656

St Michael’s Mount non è solo una curiosità geografica. Infatti qui sorgono un vero e proprio villaggio, un magnifico castello (residenza della famiglia St Aubyn) costruito sulla cima del monte, e una chiesa medievale risalente al XV secolo. Inoltre quest’isola è particolarmente nota per i suoi giardini, nei quali crescono anche piante di habitat subtropicali grazie al particolare microclima locale donato dalla Corrente del Golfo e dalla conformazione rocciosa del luogo.

Potrai raggiungere St Michael’s Mount a piedi durante la bassa marea, attraversando la stradina che la collega alla terraferma, oppure in barca quando c’è l’alta marea. Esplora il pittoresco villaggio e il suo porticciolo, visita il suo castello, ammira i suoi incredibili giardini e lasciati avvolgere dalla sua atmosfera unica: questa è una tappa imperdibile per ogni viaggiatore che si reca in Cornovaglia.IMG_3256

Land’s End (in cornico Penn an Wlas) è un capo della penisola di Penwith, nella contea della Cornovaglia (Inghilterra), celebre per essere il punto più a sud-ovest d’Inghilterra e della Gran Bretagna. Si trova a 1400 chilometri di distanza dall’estremo nord-est dell’isola (John o’ Groats), situato in Scozia.

Land’s End è il punto più occidentale della terraferma d’Inghilterra. Fa parte del territorio della parrocchia civile di Sennen. Non risulta anche il punto più occidentale di tutta l’isola della Gran Bretagna in quanto Corrachadh Mòr, in Scozia, si trova 36 km più a ovest.

Le Longships, un gruppo di isolotti rocciosi, sorgono a pochi chilometri di distanza al largo di Land’s End, mentre le Isole Scilly si trovano circa 45 km a sud-ovest; si suppone che la mitica isola perduta di Lyonesse (a cui si fa riferimento nella letteratura Arturiana) fosse ubicata tra le Scilly e la terraferma.

L’area del promontorio è stata designata quale Important Plant Area da parte dell’organizzazione Plantlife, in ragione delle rare specie botaniche.

Storia

Nell’anno 1987 Peter de Savary acquistò Land’s End per quasi 7 milioni di sterline da David Goldstone. Egli fece costruire due nuovi edifici e gran parte dello sviluppo dell’attuale parco a tema si deve alla sua iniziativa; nel 1991 vendette sia Land’s End sia John o’ Groats all’uomo d’affari Graham Ferguson Lacey. Gli attuali proprietari hanno acquistato Land’s End nel 1996, costituendo una società denominata Heritage Attractions Limited. Le attrazioni e il parco a tema includono un campo giochi per bambini; due volte la settimana nel mese di agosto vengono organizzati spettacoli pirotecnici. Nei pressi sorge il Land’s End Hotel.

Nel mese di maggio 2012, Land’s End è stato al centro dell’attenzione mondiale in quanto punto di partenza della staffetta della torcia olimpica dei Giochi della XXX Olimpiade

St.Ives

St. Ives è una cittadina di mare molto pittoresca che si trova sulla costa settentrionale della Cornovaglia che nel 2007 è stata nominata dal quotidiano inglese The Guardian come la miglior città rivierasca d’Inghilterra.

Un luogo suggestivo, dove l’andamento della marea batte un tempo a parte. Quando le barche restano in secca St. Ives si trasforma in una cartolina bizzarra, con i legni inclinati conficcati nella sabbia assetati di acqua. Questo luogo è particolarmente amato dagli artisti per il piccolo porto, le spiagge sabbiose, i profondi dirupi, ma soprattutto per la sorprendente luce che la avvolge.IMG_3255

La piccola località nacque sulla fortunata pesca alle sardine che diede una certa prosperità relativa al luogo. Solo dopo, solo nel novecento, arrivarono gli artisti in cerca di risposte e ispirazioni da quel pittoresco connubio.

La via principale di St. Ives è Fore Street parallela al lungomare. Nei pressi della Fore Street si trova l’atelier della scultrice Barbara Hepwort, esponente di spicco dell’astrattismo insieme a Henry Moore e Ben Nicholson negli anni Trenta. Dopo la scomparsa della scultrice, morta in un incendio scoppiato nel suo laboratorio nel 1975, il luogo e il giardino sono stati trasformati nel Barbara Hepworth Museum & Sculpture Garden.

Nella zona nord dell’abitato si trova la St. Ives Tate. Si avete letto bene, in questo villaggio si trova una sede distaccata della Tate Gallery di Londra. Aperta nel 1993 in un moderno edificio caratterizzato da ampie vetrate, progettato dagli architetti Evans e Shalev, la Tate di St. Ives espone opere di Ben Nicholson, Barbara Hepwort, Naum Gabo, Terry Frost e di altri artisti locali.

Nella periferia di St. Ives si può visitare il Leach Pottery, dedicato ai lavori d’ispirazione giapponese di uno dei più rappresentativi ceramisti inglesi, Bernard Leach. Le spiagge di St. Ives e quelle nelle immediate vicinanze sono molto belle: Porthmeor sulla costa settentrionale frequentata molto dai surfisti; la piccola baia di Porthgwidden; la lunga spiaggia di Porthminster a sud,  Carbis Baya a sud-ovest, adatta alle famiglie.

Da visitare il caratteristico villaggio di Zennor, dove lo scrittore inglese D.H. Lawrence scrisse “Women in Love”, raggiungibile anche a piedi, seguendo la costa, in circa tre ore di passeggiata (agevole).

TATE GALLERY

Porthmeor Beach – St. Ives – Cornwall – TR26 1TG

Tel: +44 1879 796226

E-mail: information@tate.org.uk

Orari di visita:

Novembre-febbraio da martedì a domenica h 10.00-16.30

marzo-ottobre tutti i giorni h 10.00-17.30

Barbara Hepworth Museum & Sculpture Garden

Barnoon Hill – St Ives – Cornwall – TR26 1AD

Tel: +44 1879 796226

Orario di visita:

novembre-febbraio da martedì a domenica h 10.00-16.30

Marzo-ottobre tutti i giorni h 10.00-17.30

 

Tra Tor e Cavalli del Dartmoor National Park

Il Parco Nazionale di Dartmoor occupa quasi tutta la parte occidentale del Devon. E’ una regione collinare, ricca di leggende e di storia. Il nome Dartmoor è associato ai pony, l’animale simbolo del parco, che compare sul logo del Dartmoor National Park, qui vive ancora allo stato brado. Il fiume Dart attraversa il parco, al quale dà il nome, ed ha qui le proprie sorgenti.IMG_5217

Questa zona, anticamente riserva di caccia reale, si estende su 945 km2 ed è tra le più piovose d’Europa. I suoi due punti più alti sono l’High Willhays (621 m) e lo Yes Tor (619 m). Circa il 15% della superficie totale è usata per le esercitazioni militari dal Ministero della Difesa ed è quindi di difficile accesso. Quest’area è stata dichiarata parco nazionale nel 1949. Caratteristiche del paesaggio sono i Tor, imponenti rilievi granitici che si innalzano nella brughiera in forme spesso bizzarre.

In molte località i massi vennero radunati, in periodo preistorico, per costituire delle tombe megalitiche, tumuli e cerchi di pietre. Le impressionanti similitudini tra i circa 80 cerchi e file di pietre disseminati sull´altopiano di Dartmoor e Stonehenge, distante 180 km a est, suggeriscono che questi monumenti potrebbero essere opera dello stesso “popolo”, inoltre, l´allineamento delle pietre con i solstizi d´estate e d´inverno sembra identica a quella di Stonehenge. Gran parte di questo territorio è ricoperto dalla brughiera costantemente spazzata dal vento e cosparsa di arbusti, soprattutto ginestra ed erica, tradizionalmente riservata a pascolo ad eccezione della zona sud-orientale, che offre un paesaggio meno selvaggio con valli boscose e villaggi di case col tetto di paglia.
Pur essendo un parco nazionale vi si trovano piccole città, molti edifici e chiese, anche se l’architettura più famosa è il carcere di massima sicurezza di Princetown. In una località vicina a Tavistock, Crowndale, in passato uno dei maggiori produttori di rame, qui nacque il famoso pirata Sir Francis Drake.

 

Dozmary pool

Uno strano lago formato nel periodo post-glaciale che si trova a circa 17 km dal mare in Cornovaglia, l’unico lago naturale di acqua dolce della Cornovaglia. Si trova nel Bodmin Moor a circa 300 metri sul livello del mare.

La leggenda dice che questo è il famoso lago dove fu gettata la spada Excalibur che la Dama del Lago prese. Si diceva anche che il lago non avesse fondo e portasse, tramite una serie di tunnel direttamente al mare.

Bambina inglese trova la sua spada Excalibur in un lago leggendario.

La piccola Matilda Jones ha ritrovato Excalibur nel lago inglese dove la spada fu restituita alla Dama del Lago. Leggi la simpatica storia del ritrovamento.

Si chiama Matilda Jones ed è la bambina protagonista di una vera e propria favola mediatica. La sua famiglia non immaginava di certo che una tranquilla giornata al lago li avrebbe trasformati nei protagonisti di un nuovo capitolo della saga di Re Artù. Matilda ha solo 7 anni e ha avuto la fortuna di trovare la sua Excalibur sul fondo del leggendario lago Dozmary Pool, in Cornovaglia.

Daily Mail

Matilda Jones con la spada ritrovata

Secondo la leggenda la Dama del Lago donò ad Artù la sua Excalibur, la spada il cui nome significa “in grado di tagliare l’acciaio”. Dopo essere stato ferito a morte nella battaglia di Camlann, Artù ordinò al cavaliere Sir Bedivere di restituire la spada alla sua precedente proprietaria. Sembra che il cavaliere abbia assolto il suo compito gettando Excalibur nel Lago Dozmary Pool. Dopo il lancio, una misteriosa mano è fuoriuscita dalle acque del lago per portare sul fondo la spada.

Mentre faceva il bagno, Matilda si è accorta proprio di un luccichio sul fondo del lago. La bambina ha subito avvertito i genitori e il padre, Paul Jones, ha raccontato che inizialmente hanno pensato tutti a un errore. Poi Paul si è tuffato e ha recuperato la spada lunga 1,20 metri. Matilda sarà dunque la nuova proprietaria di Excalibur. E che la spada sia sua non c’è da dubitarne, dato che è alta esattamente quanto la sua nuova proprietaria. La futura regina d’Inghilterra?

 

Salisbury

Salisbury fa parte di quel suggestivo percorso turistico del sud ovest dell’Inghilterra che comprende anche Stonehenge, che dista solo 14 chilometri.  La città che ha circa 42000 abitanti, a soli 140 km da Londra è celebrata in molti antichi libri e in vecchie canzoni. Bagnata dalle acque del Nadder, del Bourne e dell’Avon, Salisbury è famosa in tutto il mondo per la sua bellissima cattedrale, la più alta del Regno Unito, costruita nel 1220. Originata da una roccaforte romana conosciuta con il nome di Old Sarum, Salisbury diventò più avanti un importante centro commerciale anche grazie alla costruzione di varie infrastrutture come il ponte sul fiume Avon e da qui l’edificazione di un importante mercato, il Market Square, nel XIII secolo.IMG_6146

Si ritiene che Old Sarum sia stato primo luogo visitato in Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore dopo la battaglia di Hastings nel 1066.

Salisbury offre numerosi monumenti da ammirare, primo tra tutti la famosa Salisbury Catheadral. La Cattedrale di Salisbury, edificata in ben 38 anni tra il 1220 e il 1266, è una chiesa perfettamente conservata in stile Gotico primitivo, con un’unica addizione nella ‘Tower’edificata inizialmente nel 1285-1290 e continuata con l’aggiunta della guglia prima del 1315 (di ben 123 metri). La cattedrale viene descritta come unica tra le cattedrali evangeliche del medioevo nel Regno Unito, fonte di forti pellegrinaggi dall’Inghilterra e dal resto d’Europa. Al suo interno, il visitatore rimane estasiato dalla grandezza e dall’imponente semplicità secolare della sua navata a ricordare la potenza di Dio, che termina nella bellissima Trinity Chapel. Nella stessa navata sul lato sud troviamo la scultorea tomba del Vescovo Joscelyn e quindi proseguendo, il reliquiario di Saint Osmund, la Tomba diWilliam Longespée Conte di Salisbury a cui si deve l’edificazione della Cattedrale stessa, le varie tombe di Sir Richard Mompesson, di Edward Seymor e di Lady Catherine Grey, mentre nella parte del transetto a nord, si ammira la maestosa statua di Sir Richard Colt Hoare.

Da non perdere altri pezzi rari della cattedrale, il suo magnifico orologio, conosciuto per essere il più antico orologio funzionante dell’Inghilterra e d’Europa, l’Altare Alto (The High Altar) nella Trinity Chapel a Est con la bellissima finestra conosciuta con il nome di Prisoner of Conscience del Gabriel Loire, l’Icona del Sudan nella cappella di St Edmund, le magnifiche decorazioni della volta nella parte nord della cappella di Audley, e altre ancora. Dall’annesso Chiostro si accede a un altro sito, splendido per la sua imponenza storica e architettonica. Si tratta della Sala Capitolare edificata tra il 1263 e il 1284, in perfetto stile gotico, ospitante un rarissimo documento, le quattro copie originali della Magna Carta del 1215.

La città di Kingsbridge descritta né “I pilastri della terra” è immaginaria, nonostante in Gran Bretagna esistano vari luoghi con questo nome.

Ken Follett colloca la sua Kingsbridge più o meno dove oggi sorge la cittadina di Marlborough, a nord di Salisbury e Winchester, nel sud dell’Inghilterra.

Per descrivere l’architettura della cattedrale di Kingsbridge, Ken Follett si ispira alle cattedrali di Salisbury e Wells.

L’opera compiuta assomiglierà strutturalmente alla cattedrale di Salisbury, con file di alte finestre dai bellissimi vetri decorati e aguzzi pinnacoli che svettano diritti verso il cielo.

Nei dintorni della Cattedrale troviamo diversi e bellissimi edifici isolati dalla cinta muraria e dalle sue antiche porte. La parte all’interno delle mura viene denominata ‘The Close’e qui si trovano il Museo di Salisbury & South Wiltshire annoverato tra i monumenti storici dell’Inghilterra (Grade 1) e conosciuto a livello internazionale, il quale ospita importanti collezioni archeologiche (tra cui alcuni reperti provenienti dalla vicina Stonehenge e Old Sarum roccaforte romana da cui ha preso origine Salisbury, anche detta per questo New Sarum), opere d’arte di notevole bellezza e documenti di storia locale. Nell’interessante Galleria dei Costumi (Costume Gallery) troviamo una ricca collezione di costumi e tessili della zona. Il Museo del Reggimento Reale del Duca di Edinburgo (Museum of the Duke of Edinburgh’s Royal Regiment) edificato in onore delle famose Giubbe Rosse. Si ammirano inoltre gli splendidi palazzi d’epoca, come la Mompesson House e la Malmesbury House, il College of Matrons e il Palazzo Vescovile.

Salisbury conosciuta nel mondo intero per la sua Cattedrale offre altri importanti monumenti storici al visitatore, tra questi ricordiamo il Guildhall, il municipio settecentesco, i palazzi d’epoca medievale di Port e Russel, la Chiesa di St. Thomas’s del XV secolo che ospita il bellissimo dipinto del Giudizio Universale, del XV secolo, il famoso edificio conosciuto con il nome di The Old George Mall, la bella libreria d’antiquariato chiamata The Beach’s Bookshop situata in una casa del XIV secolo, il Mitre Corner del XV secolo, l’antico King’s Arms Hotel, il Red Lion Hotel e il Trinity Ospital, fondato nel 1379.

Nel vecchissimo pub The Haunch of Venison fino a non molto tempo fa si trovava la mano mummificata di un baro che era stato scoperto (è stata rubata di recente). Nello stesso pub Winston Churchill e Dwight Eisenhower si incontrarono in una piccola stanzetta sul retro mentre pianificavano lo sbarco in Normandia.

 

Winchester

Nella Contea dell’Hampshire, a sud-ovest rispetto a Londra, sorge Winchester, cittadina di circa 40.000 abitanti fondata dagli antichi romani. Il periodo di massimo splendore di Winchester fu senza dubbio l’età medievale, intorno all’anno mille, quando fu la capitale del regno di Wessex e venne scelta per ospitare le cerimonie di incoronazione dei re. Nonostante gli antichi fasti siano superati, ne rimane un vivo ricordo grazie alle numerose testimonianze storiche che accolgono il visitatore, pronte a lasciarlo a bocca aperta e a gettarlo in un vero e proprio viaggio nel passato.

Un vero e proprio capolavoro architettonico, ineguagliata o quasi nell’intera Gran Bretagna, è la maestosa Winchester Cathedral, edificata in più riprese e realizzata in impeccabile ed elegante stile gotico-normanno.  Iniziata nel lontano 1079, la Cattedrale porta i segni del passaggio Normanno specialmente nella cripta e nel transetto, mentre la grande navata venne ristrutturata nel XIV secolo, diventando la più lunga navata di Cattedrale in stile gotico. Oltre alle numerose opere d’arte, gelosamente custodite da questo imponente scrigno millenario, la chiesa comprende all’interno un’importante biblioteca, visitabile insieme al resto dell’edificio ogni giorno dell’anno, dalle 8.30 del mattino alle 6 del pomeriggio, mentre le visite guidate sono dal lunedì al sabato e si svolgono dalle 10 alle 15. La visita guidata è compresa nel prezzo del biglietto d’ingresso, che costa 5 pounds per gli adulti, 4 pounds per gli studenti, ed è gratuito per i ragazzini al di sotto dei 16 anni.

Dal lunedì al venerdì, fatta eccezione per il mercoledì e i periodi delle vacanze scolastiche, il coro della cattedrale può essere ascoltato intorno alle 17.30. Un’altra affascinante attrattiva è il Great Hall, ovvero ciò che rimane del leggendario castello fatto erigere da Guglielmo il Conquistatore e che oggi ospita la celebre e ambitissima Tavola Rotonda di Re Artù (almeno così dicono). Situato in cima all’High Street e mantenuto in buono stato dall’Hampshire County Council, il castello è stato in passato uno dei più imponenti dell’Inghilterra e oggi è sicuramente il più bello che sia sopravvissuto al logorio dei secoli.

Il maniero è visitabile ogni giorno dell’anno dalle 10 alle 17, tranne nel giorno di Natale e del Boxing Day, e su richiesta è possibile usufruire di una visita guidata. La storia ricca e appassionante di Winchester viene ripercorsa nel City Museum, un museo che riporta in vita la città dall’epoca romana sino al regno di Re Alfredo, che la scelse come sede del potere, e ancora proseguendo fino al periodo Anglo-Sassone e Normanno, per terminare con la graziosa cittadina che Winchester era già divenuta nel XVIII secolo.

Gli amanti della scienza e della tecnologia non potranno farsi scappare l’Intech Science Centre, un centro scientifico con ben 90 diverse attrazioni esposte e attività dedicate a tutta la famiglia. Oltre ad assistere agli esperimenti scientifici e a rimanere stupiti di fronte a qualche miracolo della tecnica, qui ci si può rilassare nell’area picnic o dei negozi, o si possono organizzare feste e varie attività ricreative. All’interno del centro, nel marzo del 2008 è stato aperto il più grande Planetario del Regno Unito, visitabile unitamente al resto delle esposizioni pagando un biglietto di 2 pounds.

Da vedere poi è il St.Cross Hospital, tra le prime istituzioni di carità del paese che ancora oggi, come in passato, offre cure e ospitalità ai più bisognosi. La bellissima costruzione, incastonata nel verde di un sereno scenario degno di un dipinto, comprende edifici del 1132, una sala medievale, una torre del XV secolo e un chiostro risalente all’età dei Tudor.

Tra i festival e gli eventi a cui Winchester fa da sfondo ricordiamo il May Fest, quattro giorni pulsanti di musica, canti e balli nelle strade e nei locali. Il festival si svolge verso la metà del mese di maggio ed ha ospitato, di anno in anno, ospiti sempre più famosi e importanti. La maggior parte dei concerti è gratuita e diverse esibizioni si svolgono nella Guildhall, nelle Lawrence’s Church, nella High Street o nella piazza. L’Art and Mind Festival si svolge a metà giugno e dura un paio di giorni, durante i quali si sperimentano i più bizzarri rapporti tra le varie forme d’arte, lasciando ampio spazio alla fantasia e alla creatività, scegliendo di anno in anno un tema diverso e sempre più stimolante.

In luglio si tengono il Winchester Hat Fair, che dura tre giorni e consiste in una variegata e colorita rassegna di esibizioni di artisti di strada, e il Winchester Festival, che celebra la bellezza di teatro, letteratura, pittura e musica in dieci giorni di festa e spettacoli.

 

Cosa mangiare e bere

La Cornovaglia propone un’ottima cucina, con prodotti freschi e locali. Si passa dal pesce fresco, che viene pescato proprio in queste acque, alla carne allevata fra le vaste vallate. Non perdetevi i tortini Stargazy che sono ripieni di pesce, originari della cittadina di Mousehole.

Il Cornish Pasty

E’ considerato un piatto unico molto sostanzioso e diffuso come street food un po’ ovunque in Inghilterra. Tuttavia il fagottino ripieno di carne, cipolle e patate è molto più che semplice cibo da strada, è in grado di raccontare la storia e il vissuto di un’intera comunità.

Cornish Pasty

Considerato il piatto maggiormente rappresentativo della Cornovaglia, il Cornish Pasty è un fagottino di pasta frolla salata, di sfoglia o di pane a forma di mezzaluna e riempito con carne, patate, cipolle e rutabaga o navone, più conosciuta come rapa svedese perché diffusa nel nord Europa. Una volta chiuso, viene condito con sale e pepe prima di essere cotto in forno.

Vagamente simile alle plaziche rumene e austriache, il cornish pasty ricorda anche le panadas sarde e – secondo alcuni – potrebbe derivare dalla palacinta, un tipico alimento dei legionari romani.

Cornish Pasty, storia e ricetta

Il nome cornish pasty è stato utilizzato per la prima volta nel 1860 ma le sue origini sono molto più antiche nonostante le informazioni in tal senso siano poche e incerte.

Nel 2006, un ricercatore del Devon ha scoperto la prima ricetta codificata risalente al 1510, in cui era calcolato il costo di un pasticcio di selvaggina; ciò ha fatto presumere che la prima data precisa sul cornish pastry fosse questa e non il 1746 come si riteneva fino a quel momento.

In realtà i pasties sono menzionati nei libri di cucina tradizionale di varie epoche e non solo in essi. Le prime ricette pare risalgano al 1300 ma riferimenti importanti si trovano già in una carta risalente al XIII secolo, rilasciata da Enrico III alla città di Great Yarmouth. In essa si legge come la città fosse tenuta a inviare annualmente al sovrano, per il tramite del signore del castello di East Carlton, 100 aringhe cotte e posizionate all’interno di 24 pasticci. È inoltre documentato che, nel 1465, circa 5500 pasticci di cervo furono serviti a una grande festa organizzata in onore di George Neville, arcivescovo di York e cancelliere d’Inghilterra.

Di certo c’è che inizialmente i pasties venivano serviti nelle mense dei reali e consumati unicamente dalla nobiltà. A questo riguardo disponiamo della testimonianza di un panettiere che, in una lettera degli inizi del 1500 destinata a Jane Seymour – terza moglie di Enrico VIII – si dice speranzoso che il pasticcio inviato a corte sia giunto intatto a differenza di quanto accaduto in precedenza.

Dalle mense reali alla merenda dei minatori

Solo in seguito, tra il XVII e XVIII secolo, i pasties divennero popolari anche presso le classi meno abbienti e soprattutto tra i minatori che nel 1800 affollavano le miniere di rame e di stagno della contea. Essi, infatti, li adottarono come cibo quotidiano perchè costituivano un pasto semplice e completo allo stesso tempo, facile da trasportare e da mangiare con le mani, in grado di garantire il giusto apporto di proteine, verdure e carboidrati, utile a supportare un lavoro faticoso. Posizionando poi il pasticcio sulla pala posta a sua volta sopra una candela, lo si poteva scaldare agevolmente.

Le mogli dei minatori erano solite farcirli generosamente con un ripieno di carne da una parte e di fragole dall’altra, in modo da avere il dolce e il salato nello stesso pasto. Quando erano ancora in uso i forni comuni, ogni pasty veniva inciso con le iniziali del minatore cui era destinato, per evitare confusione nel momento in cui venivano sfornati e, soprattutto, litigi tra gli uomini all’ora di pranzo.

Tanti ripieni dolci e salati

Il termine pasty, in realtà, è da considerarsi il nome generico riferito a una tipologia di pietanza. I ripieni, infatti, possono variare e, se oggi vengono generalmente riempiti con patate, cipolle, verdure di stagione e carne di manzo a cui alcuni aggiungono una noce di burro, le prime ricette includono carne di cervo e vitello, oltre al manzo.

Solo tra il XVII e XVIII secolo si diffonderà una versione più simile a quelle in uso oggi con un ripieno di maiale e mele, pollo tikka oppure di sole verdure così da accontentare anche i vegetariani. Non mancano neppure le versioni dolci con mele e fichi o banana e cioccolato, molto comuni in alcune aree della Cornovaglia.

Versione dolce del Cornish Pasty

Un fagotto goloso da chiudere con cura

Chiuderli bene per non far uscire il ripieno è sempre stata considerata un’operazione particolarmente importante. Soprattutto nel passato la perizia nel racchiudere gli ingredienti all’interno del fagottino di pasta e l’accurata sigillatura di essa, derivavano dalla necessità di garantire ai propri compagni un pasto caldo in grado di rendere meno aspre le lunghe ore trascorse sottoterra.

Una bontà tra tradizione e superstizione

Come spesso accade, non mancano superstizioni e credenze anche intorno all’umile pasto dei minatori, tramandate attraverso i secoli e accettate alla fine come rituali.

Tra queste si racconta che il Diavolo non avrebbe mai attraversato il fiume Tamar in Cornovaglia per paura di diventare parte del ripieno di un Pasty dopo che gli era giunta voce dell’inclinazione delle donne della Cornovaglia a trasformare qualsiasi cosa in un gustoso ripieno per i fagottini di carne.

È poi diffusa una seconda leggenda, di cui però esistono due versioni, e riguarderebbe l’abitudine dei minatori a gettar via l’ultimo boccone del Pasty. La prima versione racconta che essi lanciassero l’ultimo boccone agli Knockers, gli spiriti delle miniere, così da calmare le loro ire ed evitare il loro sopraggiungere. Si credeva che questi causassero il caos e la sfortuna a meno che non fossero corrotti con piccole quantità di cibo. Per lungo tempo si ritenne che le iniziali incise sui pasticci facessero in modo che i Knockers potessero distinguere coloro che lasciavano ad essi un pezzetto del fagottino da quelli che, invece, non lo facevano.

La seconda versione della leggenda, verosimilmente la più concreta, invece, vuole che l’ultimo boccone di Pasty non fosse mangiato dai minatori per proteggersi dall’arsenico, un potente veleno presente nelle miniere. I minatori erano soliti consumare il loro pasto con le mani sporche e, proprio per questo motivo fosse loro consuetudine tenere il fagottino dai bordi, gettando l’ultimo pezzetto, l’unico che era entrato in contatto con le mani, così da evitare la contaminazione da arsenico.

L’economia della Cornovaglia ha ruotato per lungo tempo intorno alle miniere di rame e stagno. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, l’attività estrattiva entrò in crisi e molti minatori si videro costretti a emigrare, portando con sé oltre alle loro conoscenze e al loro saper fare anche la ricetta dei Pasties che presero perciò a diffondersi anche in altre regioni del pianeta. Oggi, infatti, essi sono diffusi in Australia, Stati Uniti, Argentina e Messico.

Un pasticcio tutelato a livello europeo con l’IGP

The Cornish Pasty Association l’associazione che tutela il famoso fagottino, nell’agosto del 2003 ha ottenuto lo status di protezione europea (IGP) per il Cornish Pasty, il che significa che solo i pasticci fatti in Cornovaglia, secondo una ricetta e modi tradizionali, possono essere definiti legalmente pasticci della Cornovaglia.

Come tutti i prodotti protetti, affinché esso possa essere venduto con il nome Cornish Pasty, oltre a dover essere prodotto unicamente in Cornovaglia, deve rispettare alcune norme precise. Secondo l’IGP, in particolare, un Cornish Pasty deve avere le seguenti caratteristiche:

  • la forma a D, arricciato da una parte e non in cima;
  • Includere tra gli ingredienti manzo crudo, rape o patate, cipolle tagliate a cubetti e una leggera spolverata di sale e pepe a condirlo;
  • La sfoglia deve essere dorata e mantenere la sua forma anche una volta che il pasticcio è stato cotto ed è stato fatto raffreddare.

Il tipo di pasta, invece, non è definito e se oggi si usa indifferentemente la briseè, la sfoglia o la pasta di pane, in origine sappiamo con certezza che si utilizzava un impasto composto da farina di orzo, ideale per garantire una maggiore consistenza.

Ricetta dei Cornish Pasty (per 4 persone)

Cornish Pasty appena sfornati

Ingredienti per la pasta

  • 500 gr di farina
  • 125 gr di burro
  • 125 gr di strutto
  • 2 cucchiaini di sale
  • latte qb
  • 1 uovo per spennellare i Pasties prima della cottura

In alternativa, potrete anche scegliere di acquistare un rotolo di pasta briseè già pronta all’uso. In questo caso dovrete semplicemente preoccuparvi di ricavare 4 dischi con un diametro di circa 10 o 15 cm oppure 8 dischi dal diametro inferiore.

Ingredienti per il ripieno

  • 500 gr di carne di manzo a cubetti
  • 200 gr di patate e/o 200 gr di patate o 1 rutabaga
  • 1 cipolla tritata non troppo finemente
  • 250 ml di brodo di carne
  • 2 cucchiai da minestra di olio d’oliva
  • sale e pepe qb
  • erbe miste: salvia, timo e rosmarino, qb (facoltativo)
  • 1 cucchiaio da minestra di Worcestershire Sauce (facoltativo)

Procedimento

  • In un ampio tegame rosolare con l’olio di oliva la cipolla tritata e lasciar cuocere per 5 o 6 minuti.
  • Aggiungere la carne tagliata a cubetti, insaporirla con sale e pepe, unirvi il brodo e, eventualmente, la Worcestershire Sauce e il trito di erbe aromatiche.
  • Nel frattempo scottare in acqua salata le patate e sgocciolarle con l’uso di una schiumarola. Se utilizzate anche le rape o la rutabaga, tuffarle nella medesima acqua di cottura delle patate e sbianchite qualche minuto.
  • Unire le verdure a tocchetti al composto di carne e cuocere fino alla riduzione completa del brodo. Spegnere il fuoco e lasciar riposare il pasticcio di carne e verdure.
  • Intanto, a mano o utilizzando un mixer o una planetaria, mescolare la farina al sale, unire il burro e lo strutto e a filo aggiungere anche il latte.
  • Lavorate il composto fino a ottenere un impasto che si stacchi dal contenitore usato.
  • Dividere l’impasto in 8 porzioni o in 4 (se vorrete realizzare dei fagottini più grandi) e, con l’uso di un mattarello, stendete la pasta così da ricavare dei dischi che andrete a farcire con il pasticcio di carne e verdure, cotto precedentemente.
  • Chiudete ciascun disco così da formare un fagottino a forma di mezzaluna, sigillarne i bordi pizzicando il lato aperto o chiudete il Pasty con la tecnica a “spighetta”.
  • Spennellate con l’uovo sbattuto e lasciate riposare in frigorifero per circa 30 minuti.
  • Cuocere in forno preriscaldato a 200° per circa 20 minuti, successivamente abbassate la temperatura a 180° e proseguite la cottura per altri 20 minuti. Sfornare appena la superficie dei Pasties sarà dorata.
  • I Pasties si mangiano caldi o freddi. Naturalmente appena usciti dal forno sono una vera delizia.

Il Cornish cream Tea

Devon e Cornovaglia si contendono la paternità di una specialità golosa e particolare, il cream tea. Vi spiego di che cosa si tratta e come gustarlo.

In effetti, se non si ha idea di che cosa sia il cream tea, è facile immaginare che si tratti di tè a cui si è aggiunta della panna. Se poi si ricorda che è una tipica specialità inglese, il gioco è fatto: tutti sanno che oltremanica si suole offrire il tè con il latte. Ebbene, se anche voi avete pensato a qualcosa di simile, siete fuori strada. Il tè c’è, ma se ne sta garbatamente per i fatti suoi.

Il cream tea è  più che altro un’usanza culinaria pomeridiana, molto in voga in Cornovaglia e nel Devon, benché anche a Londra lo si possa ordinare senza troppe difficoltà. Oltre all’immancabile tazza di tè, vi verrà servito uno scone con, a parte, marmellata di fragole e clotted cream. Quest’ultima, tradotta alla lettera, sarebbe della panna rappresa. Per consistenza, aspetto e sapore si avvicina molto al nostro mascarpone. Se invece non avete mai avuto il piacere di assaggiare uno scone, ricordatevi di provarne uno la prossima volta che visitate la Gran Bretagna (ma anche in Irlanda si trovano). Per motivi a me ignoti, gran parte dei dizionari rendono la parola con “focaccina” oppure con “pasticcino”. Sinceramente lo scone non si avvicina né all’una né all’altro. E’ una sorta di panino piuttosto secco e friabile, alto almeno tre dita, dal sapore non particolarmente definito e guarnito di uvetta. Lo si mangia anche da solo, più che altro per raggiungere un senso di sazietà, visto che sa di poco. La poca personalità dello scone si sposa a meraviglia con gli altri due ingredienti, decisamente più interessanti dal punto di vista del gusto, del cream tea. Insomma: anche l’umile scone riesce a farsi apprezzare.

Una volta ottenuti scone, clotted cream e marmellata, bisogna armarsi di coltello, tagliare lo scone a metà nel senso della larghezza (come per preparare un panino) e poi spalmare gli altri due ingredienti. Qui, però, inizia il vero dilemma: i puristi del Devon sostengono che prima si debba mettere uno strato di marmellata e poi la panna, mentre in Cornovaglia si giura che è tutto il contrario, cioè prima la panna e poi la marmellata. Dal punto di vista del risultato finale non cambia molto, quanto a praticità credo che il metodo proposto nel Devon sia un tantino più pratico. D’altra parte, la foto che vi presento è stata scattata in Cornovaglia, ma con tutta evidenza la signora che ci ha servito il cream tea doveva essere del Devon!

Eseguita l’operazione di cui sopra, finalmente non resta che versare il tè, sistemarsi comodamente sulla seggiola e sorseggiare la prelibata bevanda gustando anche lo scone così guarnito. Ogni ospite riceve uno scone, cioè due metà, e vi assicuro che è più che abbastanza.

Se vi state chiedendo qual è l’origine di questa merenda, ebbene nessuno lo sa! Infatti, a Tavistock (Devon) si ricorda con orgoglio che già nell’XI secolo i monaci della locale abbazia solevano mangiare pane, panna e marmellata. Non mi sembra che questi benedettini fossero particolarmente originali perché credo che a nessuno di noi verrebbe mai in mente di indagare dove e quando sia nata quella leccornia che è pane, burro e marmellata. Vero è, d’altro canto, che l’abbazia di Tavistock aveva numerosi possedimenti in Cornovaglia e questo spiegherebbe la ragione per la quale il cream tea è particolarmente diffuso nelle due regioni. La locuzione “cream tea“, invece, è assai più recente perché la si trova citata in alcuni romanzi solo a partire dal XX secolo. Forse, semplicemente, un’antica tradizione tornò di moda per una qualche ragione… i corsi e i ricorsi storici ci sono anche in cucina!

In ogni caso, un viaggio in Cornovaglia (ma anche nel Devon) non può concludersi senza una pausa pomeridiana a base di cream tea. Anche perché, anche quando il tempo è uggioso, i colori decisi e il gusto dolce e delicato di questa merenda sono capaci di mettere chiunque di buon umore.

La Birra Inglese

Beh, il primo pensiero va all’immagine del “Pub”, la “public house”, dove gli anglosassoni si ritrovano per socializzare, conoscere, acculturarsi e ovviamente consumare cibo e bevande.. una su tutte la birra.

In inglese si usa la parola “bier” per tradurre il concetto generico, ma poi ci si affida molto agli stili di birra per definire e riconoscere il prodotto principe di tutti i pubs.

Quella che più viene usata in vari stili è la Ale. Con questa parola si indica un tipo di birra ad alta fermentazione. A differenza di altre tradizioni brassicole europee, è il prodotto più tipico e riconosciuto nel Regno Unito, insomma la birra di casa.

In Gran Bretagna e in Irlanda si usa consumare di più la birra in fusti (cask), piuttosto che in bottiglia. In questo modo, con la presenza di lieviti vivi nel prodotto, la birra continua a maturare nelle cantine dei pubs, fino al momento di essere consumata.

La Birra Inglese ha una tradizione importante, molto diversa dagli altri paesi. Circa quaranta anni fa, fu fondato il “CAMRA”, Campaign for Real Ale, un’associazione di consumatori che voleva tutelare la qualità della birra tradizionale inglese, a dispetto della nascita e sempre più forte distribuzione di birre commerciali e poco piacevoli da parte dell’industria. Oggi il Camra conta più di 120 mila iscritti e ha ottenuto leggi a beneficio delle piccole birrerie tradizionali che riconoscono le birre di qualità come “Real Ale”, birre vere e ne favoriscono la conoscenza e lo sviluppo.Raven Ale

Tipicamente, le birre inglesi (quelle “real”) si bevono a temperature più alte di quelle usate per le birre a bassa fermentazione, per comprenderne a pieno gusto e personalità. Il metodo di spillatura “a pompa”, cioè che inserisce aria dentro al fusto, aiuta ad alleggerire il sapore spesso intenso e a renderle “vive”.

Gli stili delle birre anglosassoni sono ormai famosi nel mondo e rappresentano di solito le varie regioni di produzione, nonché il carattere e la personalità di coloro che le producono.

In Inghilterra, punto di partenza, per la tradizione brassicola anglo-sassone, abbiamo la più grande varietà di stili e tendenze. Questo dovuto anche al fatto che gli ambienti di produzione e le possibilità di materie prime variavano molto di regione in regione. Gli stili più riconosciuti anche oggi sono parole molto usuali per chi almeno una volta ha visitato un pub inglese: Pale Ale, Bitter, Lager, Porter, Ipa.

Con Pale Ale si intende una birra “pallida” ad alta fermentazione, insomma la birra chiara, prodotta con la tradizione inglese, di solito di grado alcolico contenuto e molto equilibrata e rotonda.

Con Bitter e con tutte le sue varianti (XB – Extra Bitter, Special Bitter ecc.) si intende invece una birra dove i luppoli hanno prevalenza di gusto e rendono la birra amarognola e leggermente secca.

Con IPA – India Pale Ale si intendono quelle birre, adesso molto di moda, che erano una volta prodotte per le Indie, le colonie più lontane dell’impero britannico, che venivano volutamente rese leggermente più alcoliche e amare, per la perdita di gusto e freschezza che causava il trasporto verso le colonie.

Con Porter si intendono invece le birre scure, cremose e intense, precursori dello stile Stout, più tipico dell’Irlanda.

Con Lager invece si intendono quelle birre, prodotte con bassa fermentazione, più vicine alla tradizione germanica e sicuramente prodotte all’inizio per soddisfare un pubblico più estero che anglosassone.

Tradizione simile ma con le dovute differenze si hanno in Irlanda, regno della birra Stout. Questa birra particolare nasce da una versione più forte (stout) della Porter inglese. Una su tutte quella prodotta da Arthur Guinness a Dublino, famosa in tutto il mondo. Si producono anche ottime Ales, caratterizzate da una estrema morbidezza e rotondità, dovute al fatto che non si utilizzano luppoli nella loro produzione. Una novità nel panorama irlandese, è la Irish Red Ale, una ale dai malti affumicati più di carattere.

In Scozia invece, per tradizione (e penso per necessità di temperatura esterna!) si producono birre più strutturate e corpose. La Scotch Ale, originariamente “strong ale” è una birra tipicamente corposa, abbastanza alcolica e carica di sapori, inventata e riproposta da John Martin, mastro birraio scozzese, trasferitosi in Belgio. Grazie alle attività del Camra recentemente si vengono a scoprire altri stili più vecchi e tradizionali.

Lo stile “Barley Wine”, che da un tipo di birra molto forte, di solito quasi sciropposa e poco beverina, piuttosto luppolata, con un finale dolce e maltato; lo stile “Mild Ale”, che da una birra scura, molto beverina, delicata e saporita nonostante la gradazione leggera; lo stile “Olde Ale”, che da una birra ambrata o scura, dolciastra, ma di forte gradazione.

Grazie dell’attenzioneLuca

Insomma, un mondo tutto da scoprire e da assaggiare…! In ogni pub la troverete diversa…..

 

 

 

 

 

 

a MonicaNon sempre le nuvole offuscano il cielo: a volte lo illuminano

Sei la voglia di vivere


Bath

La leggenda fa risalire la fondazione di Bath a un certo re di stirpe celtica chiamato Bladud, padre dello shakespeariano re Lear, guarito dalla lebbra dopo un bagno nelle paludi fangose della zona, ma solo nel I secolo d.C. la città, la Aquae Salis romana, divenne una rinomata stazione termale. L’acqua sgorga da una riserva sotterranea naturale a una temperatura di 47°C. Sopra una delle tre sorgenti termali di Bath, tra il I e il V secolo d.C. i Romani edificarono un complesso termale, costituito da un bagno e un tempio dedicato a Sulis, dea celtica identificata dai colonizzatori come Minerva. Gli scavi cominciati a fine ‘800 hanno portato alla luce rilevanti resti dell’imponente struttura e di elementi decorativi, che oggi formano il Roman Baths Museum.

Gli ambienti più interessanti del museo sono il Great Bath (grande bagno) e il King’s Bath (bagno del re). Annesso al Roman Baths Museum è la Pump Room, un elegante ristorante sorto nel ‘700, che alle pareti espone i ritratti dei personaggi più in vista dell’epoca. Quando i Romani lasciarono la Gran Bretagna, le terme vennero abbandonate. La città, come il resto dell’area, venne conquistata dai Sassoni nel 577, che tra l’altro sul luogo dell’attuale abbazia costruirono il primo edificio religioso. Nel Medioevo la località divenne un importante centro manifatturiero della lana, circondato da mura. Nel XVIII secolo tuttavia si decise di tornare alla ricchezza delle acque e di sfruttare economicamente le loro qualità terapeutiche. Da quel momento in poi venne edificata la splendida città tuttora visibile. In epoca vittoriana, quando si impose la moda della vacanza termale, Bath divenne anche famosa per il gioco d’azzardo e la bella vita. Molti degli edifici più belli della città risalgono proprio al ‘700 georgiano.

Architettura

La città è attraversata dal fiume Avon che scorre a circa 15 metri al di sotto del livello stradale. La costruzione dell’attuale centro storico avvenne nel XVIII secolo, in stile Georgiano, per soddisfare il crescente bisogno di benessere e comfort da parte dei visitatori delle terme. Alcuni importanti edifici si trovano raccolti in un breve spazio, in particolare le terme romane, l’Abbazia e Guildhall. L’Abbazia era originariamente una cattedrale normanna che venne poi ricostruita in stile gotico nel secolo XVII. Ulteriori lavori di ristrutturazione vennero poi fatti all’interno nel XIX secolo. L’Abbazia si trova sulla stessa piazza dove sono ubicate le Terme Romane e la Guildhall, ovvero il Municipio della città. La città di Bath è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Altro aspetto caratteristico di Bath è il Royal Crescent con il vicino Circus, ideati da John Wood il Vecchio del suo progettista di dare un aspetto neo-classico e palladiano alla città di Bath e realizzati da John Wood il Giovane tra il 1754 ed il 1774. Essi rappresentano il suo sogno visionario

Bath visse quindi una nuova età dell’oro: gli architetti Wood (padre e figlio) progettarono i palazzi a semicerchio e su terrazze che conferiscono alla località il suo inconfondibile volto, il dottor William Oliver (che ha dato il nome al biscotto Bath Oliver, specialità gastronomica locale) fondano l’ospedale, il Bath General Hospital per assistere i poveri, il giocatore d’azzardo Richard Beau Nash detta le regole della moda per tutto il secolo la città rappresentò il centro di villeggiatura più mondano ed elegante dell’aristocrazia inglese.

Tuttavia anche queste mode finiscono e verso la metà del XIX secolo le terme di Bath decadono nuovamente. Pensate che nel 1978 un decreto del sistema sanitario nazionale britannico poneva fine a Bath come città termale. Questa decisione, a prima vista incomprensibile, fu presa in parte per via degli alti costi di manutenzione degli impianti, in parte per dei dubbi sulla purezza delle acque. Veniva meno la stessa ragion d’essere della città. Per fortuna dal 2003 un nuovo complesso termale, disegnato da Nicholas Grimshaw, in pieno centro storico, con il restauro a regola d’arte degli edifici esistenti. Bath è ritornata a essere la città termale, bellissima, che è sempre stata.

Jane Austen

Fu in questo contesto che la grande scrittrice inglese Jane Austen scrisse due dei suoi romanzi più belli L’Abbazia di Northanger e Persuasione, che hanno lasciato un vivido ritratto della vita sociale di Bath all’inizio del XIX secolo. In questo contesto le famiglie della piccola aristocrazia inglese con figlie in età da marito lasciavano le proprie residenze sparse nella campagna inglese e si trasferivano in appartamenti in affitto nei quartieri più alla moda della città, praticando in bagni termali, stringendo relazioni, combinando matrimoni. Jane Austen soggiornò a Bath dal 1801 al 1806, diventando l’icona letteraria del luogo. Al numero 40 di Gay Street, si trova il Jane Austern Centre che ricrea l’atmosfera dell’epoca della celebre scrittrice, che per qualche mese abitò al numero 25 della stessa via. Furono moltissimi (e ancora lo sono) i personaggi illustri, che visitarono o vissero in questa città termale, compresi molti regnanti europei e non solo. Quasi ogni edificio del centro storico li ricorda con targhe sulle facciate.

 

L’abbazia di Bath

(Chiesa abbaziale di San Pietro e San Paolo) in inglese The Abbey Church of Saint Peter and Saint Paul, Bath o semplicemente Bath Abbey) fu anticamente monastero benedettino della città di Bath, nel Somerset (Inghilterra).

Fondata nel VII secolo e riorganizzata nel X secolo, la chiesa fu ricostruita nel XII e XVI secolo ed è uno dei maggiori esempi di gotico perpendicolare della West Country.

La chiesa, con pianta a croce latina, può contenere circa 1200 persone e viene usata, oltre che per cerimonie religiose, per cerimonie civili, concerti e letture.

Le terme romane di Bath furono costruite ai tempi dell’imperatore Vespasiano, nel 75 d.C., nella città allora chiamata Aquae Sulis. Pare infatti che in questa zona, fin dal 10000 a.C., dal sottosuolo fuoriuscisse acqua calda termale come oggi. Erano conosciute in tutto l’Impero Romano e frequentate da gente di ogni classe sociale. Il complesso comprendeva anche un tempio dedicato all’antica dea celtica dell’acqua e alla dea romana Minerva. Nel 410, con l’abbandono della Britannia da parte delle legioni romane, le terme vennero abbandonate e l’Inghilterra fu invasa dai Sassoni, che conquistarono la città nel 577. La struttura cadde in sfacelo e si allagò. Per arginare l’acqua si mise del pietrisco negli ambienti, che con l’acqua si trasformò in fango nerastro che sommerse le terme.

L’acqua che alimenta le terme di Bath cade dapprima sotto forma di pioggia sulle vicine Mendip Hills. Grazie ad una serie di cunicoli sotterranei, l’acqua percola fino a una profondità compresa tra i 2,700 e i 4,300 metri, dove viene raggiunta una temperatura fra i 69 e i 96 C a causa dell’energia geotermale. L’acqua così immessa si riscalda e attraverso fenditure e porosità naturali riemerge in superficie. Questo processo ricorda molto da vicino quello artificiale dei sistemi geotermici migliorati, che pure sfrutta le succitate proprietà dell’acqua, ma per incrementare la produzione di energia elettrica. Le terme di Bath, quindi, captano 117.000 litri di acqua calda ogni giorno, che sgorga dal suolo a una temperatura di 46 C.

 

Il ponte Pulteney (in inglese: Pulteney Bridge) attraversa il fiume Avon a Bath (Inghilterra). Fu completato nel 1774 e congiunge la città con la più recente cittadina di Bathwick costruita in stile georgiano. Realizzata da Robert Adam in stile Palladiano, è una struttura eccezionale avendo negozi realizzati su entrambi i lati.

Nei primi 20 anni dalla sua costruzione, le modifiche e gli ampliamenti dei negozi furono tali da modificare le facciate. Alla fine del XVIII° secolo fu danneggiato dalle inondazioni, ma venne ricostruito con uno stile simile. Nel corso del secolo successivo vi furono ulteriori modifiche dei negozi che hanno comportato la realizzazione di estensioni a sbalzo nei lati nord e sud del ponte. Nel XX° secolo sono stati effettuati diversi interventi per preservare il ponte e restituirlo parzialmente al suo aspetto originario, migliorando il suo aspetto come attrazione turistica.

Il ponte è lungo 45 metri e largo 18 metri ed è uno dei quattro ponti esistenti al mondo ad avere negozi in tutto il suo pieno arco su entrambi i lati.

Anche se vi sono stati dei progetti di pedonalizzazione, il ponte è ancora usato da autobus e taxi. La parte più fotografata del ponte è quella in cui si scorge la briglia vicina al centro della città, che è un sito patrimonio dell’umanità principalmente per la sua architettura georgiana.

La struttura è stata progettata da Robert Adam: i suoi disegni originali sono conservati nel Sir John Soane’s Museum a Londra.

Il ponte prende il nome da Frances Pulteney, moglie di William Johnstone, ricco avvocato scozzese e membro del Parlamento. Frances era la terza figlia del deputato e funzionario governativo Daniel Pulteney (1684–1731) e prima cugina di William Pulteney, conte di Bath, da cui ereditò numerosi possedimenti a Somerset nel 1764. Ereditò inoltre anche le fortune del fratello più giovane nel 1767, tanto che la famiglia Johnstones cambiò il proprio cognome in Pulteney. La tenuta di campagna di Bathwick, ereditata da Frances e William nel 1767, si trovava di là dal fiume e poteva essere raggiunta solo con un traghetto. William pianificò di realizzare una nuova città, che sarebbe diventata un sobborgo della storica città di Bath, ma prima aveva bisogno di un migliore attraversamento del fiume. L’opera dei Pulteneys è ricordata dalla toponomastica locale: Great Pulteney Street a Bathwick, Henrietta Street e Laura Place, intitolate in ricordo della loro figlia Henrietta Laura Johnstone.

I progetti iniziali per il ponte furono elaborati da Thomas Paty, che stimò un costo di costruzione di 4.569 sterline, senza comprendere i negozi. Una seconda stima di £ 2.389 fu offerta dai costruttori locali John Lowther e Richard Reed e comprendeva la realizzazione di due negozi a ciascuna estremità del ponte, ma il lavoro non iniziò prima dell’inverno in quanto il tempo rese impossibile la costruzione dei pilastri. Nel 1770 i fratelli Robert e James Adam, che stavano lavorando sui progetti per la nuova città di Bathwick, adattarono il progetto originale di Paty. Robert Adam progettò una struttura elegante fiancheggiata da negozi, simile al Ponte Vecchio e al Ponte di Rialto che probabilmente vide durante la sua visita in Italia, rispettivamente a Firenze e Venezia. Il pregetto di Adam si ispira infatti strettamente al progetto abortito di Andrea Palladio per il ponte di Rialto. Il progetto modificato allargava quindi il ponte fino ai 15 metri, rispetto ai 9,1 metri di Paty, superando le obiezioni del consiglio comunale che riteneva il ponte troppo stretto.

La costruzione iniziò nel 1770 e fu completata nel 1774 per un costo di £11.000.

Il Royal Crescent è un importante complesso residenziale, composto da 30 unità abitative a schiera disposte secondo una mezzaluna (in lingua inglese: crescent).

Esso fu ideato e progettato da John Wood il Giovane e costruito fra il 1767 e il 1774. È il più importante esempio di architettura georgiana che si può incontrare nel Regno Unito. Insieme a suo padre, John Wood il Vecchio, John Wood il Giovane si interessava di occulto e di simboli massonici; forse la creazione del Royal Crescent e del vicino Circus di Bath (in origine chiamato “King’s Circus”) rappresenta il desiderio di realizzare in larga scala un simbolo massonico: dall’alto questo complesso appare infatti come un grande cerchio con una mezzaluna, a formare il simbolo massonico soleil-lune, cioè il Sole e la Luna. Le case del Crescent appartengono a diversi proprietari – la maggior parte sono private, ma una sostanziale minoranza è controllata da un’associazione immobiliare – molte di queste case sono state divise in più appartamenti.

Il Numero 1 del Royal Crescent è un museo, tenuto dalla Bath Preservation Trust, che illustra come i ricchi proprietari dell’epoca abbiano arredato nel tempo una casa-tipo.

Il Royal Crescent Hotel occupa le unità centrali del Crescent, ovvero i numeri 15 e 16.

Il Royal Victoria Park di fronte al Crescent è una piattaforma usata per il lancio di piccole mongolfiere. I lanci avvengono in estate, di solito nel primo mattino o nel tardo pomeriggio.

La strada è uno dei segni distintivi più conosciuti della Bath georgiana e per molti anni i residenti hanno dovuto sopportare il passaggio di numerosi bus turistici, soprattutto nel periodo estivo. Negli ultimi anni la strada è stata chiusa agli autobus ed alle carrozze.

 

Wells

La deliziosa Wells (10500 abitanti), è la più piccola città d’Inghilterra con una cattedrale, è situata nella contea del Somerset. Il suo nome (well in inglese significa pozzo) deriva da alcune sorgenti naturali che si trovano al suo interno. Le origini medievali di Wells si notano ovunque. La sua Cattedrale (risalente al XII secolo, una delle più belle e note della Gran Bretagna), il Bishop’s Palace (edificio circondato da un fossato e da splendidi giardini, per secoli sede del Vescovado), la Vicar’s Close (ritenuta l’unica strada medievale completa rimasta in Inghilterra) e la Market Place (la piazza del mercato). Grazie al suo aspetto e alla sua particolare atmosfera, Wells è stata usata come location per film, fiction televisive e documentari (Elizabeth, The Golden Age e I pilastri della terra).

La Cattedrale di Wells

La cattedrale di Wells è la sintesi degli stili del gotico inglese

In Gran Bretagna, dove solo un’insignificante “k” finale distingue il gotico originale dal neogotico vittoriano (Gothic/Gothick) e dove il gotico primitivo ha assunto il nome orgoglioso di Early English, nessuna chiesa gotica suscita un’ammirazione tanto immediata quanto quella della cattedrale di Wells.

Innanzitutto per il contrasto tra l’imponenza di questa e le dimensioni ridotte della cittadina che lo ospita. Ci si stupisce di meno quando si sa che Wells contese a lungo a Bath e a Glastonbury il titolo di sede vescovile; la cattedrale doveva dimostrare i meriti di Wells a ricevere la dignità religiosa (e politica) più importante del Somerset. La rivalità sembra sia dunque all’origine del dispiegarsi di mezzi e ingegni che ha prodotto a Wells la più felice sintesi del gotico inglese.

Tutti gli stili del gotico inglese in un solo edificio

Verso il 1180, quando iniziarono i lavori della cattedrale di Wells, regnava l’Early English (1150-1280 circa): la facciata della cattedrale e le navate dell’interno ne recano i tratti.

Il gotico “Decorated” (1280-1380 circa) segna invece il retrocoro, la cappella absidale e la sala capitolare.

Il gotico “Perpendicular” (1380-1550 circa) ebbe invece minore fortuna: le torri della facciata rimasero incompiute ma il tempo del grande potere dei vescovi era ormai tramontato.

Stupende le trentasei nervature che si dipartono dall’unico pilastro centrale che sorregge la volta della Chapter House, la sala capitolare ottagonale, capolavoro del gotico “perpendicular”.

Spettacolari sono invece gli archi “invertiti” o “a forbice” che sono la caratteristica più sorprendente dell’interno e che sostengono la torre che si alza sulla crociera.

Wells è tradizionalmente ritenuta il centro della zona di produzione del Cheddar, il più popolare tra i formaggi britannici (originario del villaggio di Cheddar), nelle Mendip Hills.

Il Cheddar è un formaggio a pasta dura, di colore che può variare dal giallo pallido fino all’arancione, dal gusto deciso. Ha origine nel villaggio inglese di Cheddar, nel Somerset, da cui prende il nome. Il Cheddar è il più diffuso formaggio britannico, e contribuisce per oltre il 50% agli 1,9 miliardi di sterline del fatturato annuo dei formaggi inglesi. È molto utilizzato anche negli altri paesi di influenza anglosassone, come l’Australia, gli Stati Uniti e il Canada.

Dal 2003 il Cheddar è diventato un prodotto a indicazione geografica protetta (IGP) con il nome di West Country farmhouse Cheddar, secondo un disciplinare che ne circoscrive la produzione nelle sole contee inglesi del Somerset, Devon, Dorset e Cornovaglia, da produttori aderenti al consorzio Cheddar Gorge Cheese Company.

Gli abitanti di Wells hanno una grande passione per il buon cibo e i prodotti locali genuini. Nella Market Place si tiene un mercato due volte la settimana, il mercoledì e il sabato. Il mercoledì è il giorno del Farmers’ Market, il mercato degli agricoltori.

Wells sorge all’estremità meridionale della AONB (Area of Outstanding Natural Beauty, in italiano Area di Eccezionale Bellezza Naturalistica) delle Mendip Hills, quindi è la base ideale per una vacanza all’insegna della scoperta della natura e delle attività outdoor. In questa AONB si trova la Cheddar Gorge, la più grande gola della Gran Bretagna.

 

Glastonbury

Glastonbury è una piccola città nel Somerset (Inghilterra), situata 30 miglia a sud di Bristol. Si trova nel distretto di Mendip.

La città è celebre per la sua antica storia, per i resti dell’abbazia, per la Glastonbury Tor e per le numerose leggende e i tanti miti associati con essa. È conosciuta anche per il Glastonbury Festival, un festival di musica pop/rock che si svolge ogni anno nel vicino villaggio di Pilton.

Storia e mitologia

La leggenda di Giuseppe di Arimatea è legata all’idea che Glastonbury sia stato il luogo di nascita della cristianità nelle isole britanniche e sede della prima chiesa, costruita per custodire il Graal più di 30 anni dopo la morte di Cristo. La leggenda dice anche che in precedenza Giuseppe d’Arimatea aveva visitato Glastonbury insieme a Gesù, quando questi era un fanciullo. Il poeta e pittore inglese William Blake credette in questa leggenda e scrisse un poema che divenne la più popolare canzone patriottica inglese Gerusalemme.

La leggenda racconta che Giuseppe giunse a Glastonbury per nave, approdando ai Somerset Levels, che erano inondati.

Nello sbarcare piantò a terra il suo bastone, che fiorì miracolosamente nel Biancospino di Glastonbury (“Spina Santa”). Questa è la spiegazione mitica dell’esistenza di questo ibrido, che cresce soltanto alcune miglia attorno a Glastonbury. Fiorisce due volte l’anno, una in primavera e un’altra nel periodo di Natale (dipende dal tempo). Ogni anno viene tagliata una spina e inviata alla regina per ornare la sua tavola di Natale.

 

Abbazia di Glastonbury

Glastonbury è oggi un centro religioso e di pellegrinaggio, dove misticismo e paganesimo coesistono, non senza difficoltà.

L’Abbazia di Glastonbury fu una delle più ricche e potenti strutture monastiche del Somerset, in Inghilterra. Sin dal periodo medievale essa venne associata con la leggenda di re Artù e della sua mitica terra, Avalon. Il primo impianto dell’abbazia potrebbe essere stato effettuato dai Bretoni nel VII secolo d.C., probabilmente sui resti di un edificio preesistente. Tuttavia, leggende cristiane più tarde, in pieno periodo medievale, asserirono che l’abbazia era stata fondata da Giuseppe di Arimatea nel I sec.

Come vedremo, la leggenda deriva direttamente dalle vicende narrate da Robert de Boron nel suo ciclo di romanzi su re Artù e sul Santo Graal, leggenda che successivamente i monaci di Glastonbury seppero adeguatamente sfruttare, come vedremo più avanti. Grazie anche all’associazione con questo facoltoso personaggio, da alcuni ritenuto lo zio di Maria, madre di Gesù, sin dal medioevo fiorì in questo luogo un profondo culto della Vergine tanto che l’abbazia ebbe anche l’appellativo di Nostra Signora Santa Maria di Glastonbury, che è tuttora a volte usato.

Secondo la tradizione, dunque, Giuseppe di Arimatea venne spedito in Britannia come missionario per predicare e diffondere il Vangelo. Accolti con benevolenza dal re Arvirago di Siluria, fratello di Carataco il Pendragone, Giuseppe e i suoi dodici seguaci ricevettero dal re 12 hides di terra in Glastonbury (un hide, secondo la terminologia medievale, era una quantità di terra sufficiente a provvedere al fabbisogno di una famiglia per un anno, e nel Somerset esso corrispondeva a 120 acri, circa 48,5 ettari). Qui essi edificarono una primitiva cappella con paglia, fango e canne intrecciate, su modello dell’antico Tabernacolo citato nella Bibbia.

Questa primitiva “cappella di canne” (chiamata in seguito “Old Church”, ossia la “vecchia chiesa”), potrebbe dunque essere stato il primo edificio che i Bretoni trovarono sul posto e sul quale eressero un monastero, a sua volta primo nucleo della futura Lady Chapel. Ai Bretoni, nell’VIII sec., successero i Sassoni, e a questi, nell’XI sec., subentrarono i Normanni. Con la dominazione normanna, l’abbazia aveva già raggiunto una notevole fama e ricchezza, tuttavia la sua fortuna si arrestò in seguito ad un terribile incendio che nel 1184 distrusse gran parte degli edifici monastici.

La cucina dell’abate

La cucina dell’abate (Abbot’s Kitchen), unico edificio interamente sopravvissuto alla distruzione. La sua grandiosità ben dimostra la ricchezza che aveva raggiunto l’abbazia all’apice della sua evoluzione.

Il re Enrico II garantì alla comunità di Glastonbury un atto di rinnovo e cominciò la sua ricostruzione, favorita anche (come vedremo) dal ritrovamento fortuito della tomba di re Artù, che garantì al complesso una rinnovata fama ed un cospicuo afflusso di pellegrini e di denaro. A questo periodo risale la costruzione della Lady Chapel in pietra. In seguito il complesso crebbe ancora fino a diventare una vasta abbazia benedettina, che nel XIV era diventata la seconda per dimensioni ed importanza d’Inghilterra, dopo quella di Westminster a Londra.

Come tante altre abbazie inglesi, anche il destino di Glastonbury fu definitivamente segnato dalla Dissoluzione dei Monasteri operata da Enrico VIII, a partire dal 1536. La Riforma colpì duramente il complesso di Glastonbury, che venne largamente distrutto e l’ultimo dei suoi abati, Richard Whiting (abate dal 1525 al 1539), venne appeso e squartato sul Tor insieme a due dei suoi monaci.

Le rovine che oggi, acquistate nel 1908 dalla diocesi di Bath e Wells, costituiscono una meta turistica frequentata ogni anno da migliaia di visitatori. Alcune prestigiose figure della cristianità bretone furono associate all’abbazia di Glastonbury; in particolare San Patrizio, il primo abate nel V sec., che diventerà il patrono dell’Irlanda, e San Dunstano, abate dal 940 al 946.

La tomba di re Artù

Dopo l’incendio del 1184 la ricostruzione della chiesa procedeva a rilento, soprattutto a causa dei finanziamenti insufficienti. Qualche anno dopo, una “fortuna” inaspettata capitò ai solerti monaci di Glastonbury: secondo quanto racconta il cronista Giraldus Cambrensis, sotto la guida dell’abate Henry de Sullyn, durante uno scavo effettuato sotto il pavimento della cattedrale, venne alla luce un sepolcro interrato del quale nessuno era a conoscenza.

Al suo interno venne ritrovata una cassa di quercia con due scheletri: uno apparteneva a un uomo straordinariamente alto, mentre l’altro era chiaramente quello di una donna minuta, di cui ancora si conservava la folta capigliatura. Insieme alle ossa fu ritrovata una croce di piombo che riportava la seguente iscrizione: “Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia cum uxore sua secunda Wenneveria” (“Qui giace sepolto il famoso re Artù nell’Isola di Avalon con la sua seconda moglie Ginevra”).

Le autorità ecclesiastiche, tuttavia, non gradirono l’accenno a Ginevra come “seconda moglie” di Artù, per cui decretarono che il cartiglio, e l’annessa scoperta, dovevano essere falsi. I monaci, però, non si persero d’animo. Poco tempo dopo rettificarono la loro scoperta, presentando un nuovo cartiglio nel quale era stato tolto ogni riferimento a Ginevra: “Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia” (“Qui giace sepolto il famoso re Artù nell’Isola di Avalon”).

I monaci avevano trovato i resti del leggendario re Artù, ma avevano persino scoperto una prova scritta dell’associazione tra Glastonbury e la mitica terra di Avalon! La cosa, in realtà, non era così ovvia: il cronista Guglielmo di Malmesbury, in proposito, aveva scritto nelle sue “Gesta Regum Anglorum” del 1127 che il corpo di re Artù, dopo la battaglia di Camba, era stato portato ad Avalon per la sepoltura, e non specifica dove si trovasse questa mitica terra. Inoltre, egli asserisce che la sua tomba non poteva essere vista da nessuna parte.

Ad ogni modo, l’espediente dei monaci funzionò, e un notevole afflusso di pellegrini amplificò le entrate dell’abate. Pare, poi, che i monaci ci abbiano preso gusto e alzarono il tiro. Qualche tempo dopo i santi uomini si armarono nuovamente di pale e di vanghe, e scavando in altri punti dell’abbazia s’imbatterono in reliquie ancora più importanti, stavolta i resti di alcuni santi: le ossa di San Patrizio e di San Gildas, e persino i resti di San Dunstano, nonostante fosse già noto che essi riposavano all’interno della Cattedrale di Canterbury da almeno 200 anni!

In breve, tra le reliquie trovate dai monaci e quelle lasciate in consegna dai visitatori, Glastonbury Abbey al tempo della Riforma poteva vantare un corposo tesoro sacro che annoverava, oltre alle reliquie già citate, anche un frammento della veste della Vergine Maria, un frammento della verga di Aronne, un paio di ampolle che erano appartenute a Giuseppe di Arimatea (in cui, si diceva, egli avesse conservato il sangue e il sudore deterso dal corpo di Gesù dopo la deposizione della croce) e persino una pietra del deserto che Gesù aveva rifiutato di trasformare in pane!

La Dissoluzione dei Monasteri nel 1539 pose fine alla prosperità dell’abbazia. Dopo la distruzione degli edifici monastici, tutte le reliquie scomparvero per sempre, inclusa la croce di piombo con l’iscrizione. Tutto ciò che oggi rimane è un cartello e un’area delimitata da una cornice di pietra che segnala il sito nel quale, nel XIII secolo, era stata collocata la tomba di marmo nero contenente i resti di re Artù in una posizione privilegiata davanti all’altare principale.

La Spina Santa

L’abbazia di Glastonbury è legata anche alla leggenda della Santa Spina. Un albero di questa pianta infatti cresce rigoglioso all’interno del giardino abbaziale, e si dice sia stato trapiantato direttamente dall’originale che miracolosamente si sviluppò a partire dal bastone di Giuseppe di Arimatea piantato nel terreno, sulla collina di Wearyall Hill. L’albero di Spina Santa si trova oggi vicino all’ingresso del complesso, nei pressi della Cappella di San Patrizio.

 

La Lady Chapel

La Lady Chapel è l’edificio più a sud del complesso abbaziale e ne costituisce il suo nucleo originario. Secondo una tradizione ben radicata nel Somerset, Giuseppe di Arimatea aveva compiuto diversi viaggi fuori della Palestina, in particolare in Inghilterra, dove importava stagno dalle miniere della Cornovaglia. Si dice che in uno di questi viaggi egli abbia portato con sé il piccolo Gesù, e che egli abbia fatto realizzare una piccola chiesa di fango e rami intrecciati di salice, che Gesù volle dedicare a sua madre Maria. Il nome di Gesù e quello di Maria vennero scritti su una pietra, probabilmente quella di fondazione. Questa pietra venne poi inglobata nelle costruzioni successive, fino alla Lady Chapel del XIII sec. che vediamo ancora oggi, e fu largamente venerata durante il medioevo al pari di una reliquia, costituendo stazione di sosta e di preghiera per i pellegrini. Ancora oggi la pietra si trova incastonata all’esterno della parete sud, dove è ben leggibile l’iscrizione della dedica: “IESUS MARIA”.

Tuttavia, se quanto tramandato su questa pietra costituisce una base di verità, allora essa suscita una serie di inquietanti interrogativi, che portano a domandarsi sulla vera identità di quel Gesù e di quella Maria citati e all’inevitabile conclusione dell’esistenza di una linea di discendenza diretta da Gesù Cristo, la controversa “Linea di Sangue” della cui esistenza questa pietra potrebbe costituire una prova indiretta! Vediamo perché, seguendo le ipotesi e le linee di indagine delineate da Laurence Gardner nel saggio “La Linea di Sangue del Santo Graal”.

Secondo le cronache medievali la vetusta ecclesia, ossia la primitiva capanna di fango e rami, non venne costruita prima dell’anno 63, e venne dedicata a Maria l’anno successivo, come attestano comunemente John Capgrave, William di Malmesbury e John di Glastonbury. Per esempio, nel “De Sancto Joseph ab Arimathea” di Capgrave si afferma che “quindici anni dopo l’Assunzione egli [Giuseppe] si recò da Filippo apostolo tra i Galli”. L’Assunzione della Vergine è comunemente attestata nell’anno 48 e San Filippo, secondo quanto afferma Freculfo, vescovo di Lisieux del IX sec., fu colui che organizzò la missione di predicazione in Inghilterra affidandola a Giuseppe di Arimatea. Per cui la missione di Giuseppe in Inghilterra cominciò nell’anno 63 (48 + 15).

Più avanti, il De Sancto Joseph afferma ancora che la dedicazione della cappella di canne avvenne nel “nel 31° anno dopo la Passione di Nostro Signore”, e cioè nell’anno 64. Quest’informazione si conforma con quanto riporta Guglielmo di Malmesbury, che indica come data di costruzione della capanna l’anno 63.

Giuseppe d’Arimatea era ritenuto parente stretto di Maria, in particolare suo zio, anche se i Vangeli canonici non citano mai questo rapporto di parentela e le altre fonti si limitano a dire che erano parenti. Un rapido calcolo, supponendo che Maria avesse circa 26 anni quando concepì Gesù e che Giuseppe poteva essere almeno una decina d’anni più anziano di lei, porta a supporre che Giuseppe era già piuttosto anziano ai tempi della Crocifissione e che l’inizio della sua nuova vita di predicazione in Britannia avvenne attorno al centesimo anno di età. Considerando, poi, che le cronache lo ritengono in vita per altri venti anni dopo quella data, ne risulta un Giuseppe estremamente longevo e insolitamente attivo.

Come poteva, poi, avere al suo seguito il piccolo Gesù, e far sì che questi dedicasse la chiesa alla propria madre Maria? Gesù, il Cristo, era morto sulla croce 31 anni prima, ma pur volendo ipotizzare che la morte sia stata soltanto inscenata e che Giuseppe di Arimatea, complice, si sia recato da Pilato a reclamarne anzitempo il corpo per portarlo nel sepolcro e “rianimarlo” in gran segreto (come molti, tra cui il citato Gardner e il trio Baigent-Leigh-Lincoln del “Santo Graal”, hanno supposto analizzando le decine e decine di anomalie contenute nei racconti evangelici della Passione), i conti continuano a non tornare. Nessuna cronaca inglese, né storica, né leggendaria, ha mai citato la presenza di un Gesù adulto in Britannia, mentre fioriscono le leggende sulla presenza di un Gesù ancora adolescente.

L’unica spiegazione logica è che il piccolo Gesù non sia il Gesù noto come il Cristo, figlio di Maria e di Giuseppe, ma suo figlio primogenito, Gesù il Giusto (chiamato spesso Gais nei romanzi del Graal), avuto da Maria Maddalena, e che Giuseppe di Arimatea fosse giustamente suo zio (cioè quel Giacomo, “fratello di Gesù”, detto “il Giusto”), e non zio di Maria (alla presunta identità tra Giuseppe di Arimatea e Giacomo il Giusto è dedicato un approfondimento a parte). A questo punto tutto torna: Giacomo il Giusto nacque nel I d.C. e nel 63 d.C. aveva una discreta ma non veneranda età, e poteva benissimo aver campato un’altra ventina di anni predicando in Inghilterra. Dopo la morte di Gesù Cristo poteva aver preso in affidamento il giovane nipote, Gesù Giusto, assumendo il titolo onorifico di Giuseppe “ha Rama Theo” (l’Altezza Divina) come si conveniva nelle successioni davidiche.

Aveva quindi costruito la piccola chiesa di canne e fango e Gesù l’aveva fatta dedicare a sua madre, Maria Maddalena. A ulteriore rinforzo di questa ipotesi, proprio in quell’anno (il 63) la Maddalena moriva nella sua grotta alla Sainte Baume, dove si era ritirata, vicino Aix-en-Provence, secondo quanto riferisce il monaco benedettino Matthew Paris nelle “Chronica Majora”, una raccolta di cronache in sette volumi riccamente illustrata, che attualmente è conservata presso il Corpus Christi College di Cambridge. Un tributo, dunque, tutto dovuto, di un figlio devoto alla madre appena deceduta, molto più credibile di una dedicazione a Maria Vergine a 15 anni dalla sua assunzione e a secoli di distanza prima che il suo culto cominciasse a diffondersi e le chiese cominciassero a venirle dedicate.

Così questa semplice pietra iscritta inserita nel muro dell’edificio, che fu tanto venerata nel periodo medievale, potrebbe costituire quel “Secretum Domini”, il “Segreto del Signore” custodito a Glastonbury, così come citato nel Domesday Book…

Il Chalice Garden-Il giardino del Calice

Nel cuore di Glastonbury, adagiato ai piedi della magica collina del Tor, un luogo fatato e misterioso accoglie il visitatore in una cornice idilliaca di lussureggiante vegetazione e fresche sorgenti di acque curative. È il “Chalice Garden”, il “Giardino del Calice”, ed è riferito al “calice” per eccellenza: il Santo Graal. La leggenda, infatti, narra che Giuseppe di Arimatea, giunto in questi luoghi da Gerusalemme, abbia nascosto nel pozzo scavato ai piedi del colle il calice che aveva portato con sé, quello utilizzato da Gesù durante l’Ultima Cena e nel quale egli successivamente aveva raccolto il sangue di Cristo. Questo calice, una volta entrato in contatto del sangue del Signore, aveva acquisito delle capacità straordinarie, miracolosi poteri di guarigione a chi ne avesse bevuto, diventando il leggendario Graal, protagonista nel Medioevo di una vasta letteratura. Non appena le acque della sorgente di Glastonbury entrarono a contatto con il sacro calice, ne acquisirono i suoi poteri curativi e si tinsero di rosso, come sangue. Anzi, in determinati periodi dell’anno la sorgente sgorga con tale veemenza che il rumore dei suoi fiotti ricorda il battito di un cuore umano.

Questa è la leggenda che sta alla base del Chalice Well. L’acqua della sorgente ha, effettivamente, un colorito rossastro, dovuto all’alto contenuto in ferro, e i visitatori del Giardino ne attingono direttamente con dei bicchieri oppure ne riempiono bottiglie di varie misure che sono vendute per poche decine di penny presso la biglietteria.

Il giardino

La vasca principa deI Giardino del Graal è un posto ideale per la meditazione: sotto i folti alberi e negli spazi appositi il silenzio e la pace sono una regola fondamentale, richiesta ad ogni visitatore e devotamente rispettata. Sono soprattutto tre i luoghi designati per la meditazione: la Corte di Re Artù, la Fontana del Leone e, ovviamente, il Pozzo del Calice.

Subito dopo l’ingresso, sulla destra, si trova una zona più ampia e aperta, nella quale è posta la vasca principale: essa ha una forma particolare, ricalcata sul simbolo della ‘Vesica Piscis’, che qui, come vedremo, ha una presenza massiccia ed una valenza tutta particolare.

Proseguendo oltre attraverso il sentiero ricavato nel fitto della ricca vegetazione, si risale La Vasca dei Pellegrini verso la sorgente. L’ambiente che s’incontra subito dopo è la Corte di Re Artù, una zona recintata di forma rettangolare nel quale la sorgente forma una cascatella e si riversa in una piccola piscina rettangolare, chiamata Vasca dei Pellegrini. Questo è uno dei punti più sacri di tutto il giardino qui, infatti, come assicurano gli esperti di geomanzia, si incrociano le due linee di energia principali: quella di “San Michele” e quella di “Santa Maria”. La Vasca, oggi di profondità modesta, era un tempo molto più profonda, ed in essa i pellegrini si immergevano per intero per ottenere la guarigione dai loro mali.

La Fontana del Leone Risalendo ancora la lieve pendenza su cui si adagia il Giardino, si arriva alla Fontana del Leone, così detta perché l’acqua sgorga da una cannella che ha la forma della testa di questo animale. Il leone, oltre ad essere l’animale sacro di Cibele, di Lug e di altri dei o dee legati alla fertilità, è spesso accomunato alle fonti d’acqua e non è infrequente imbattersi in fontane che hanno questa forma nei giardini dei palazzi e persino nelle nostre città. È un simbolismo che ha il suo retaggio nell’antica civiltà egizia, quando le piene del Nilo, che garantivano alla popolazione un altro anno di prosperità e di raccolti, avvenivano sempre nel periodo in cui il sole entrava nella costellazione del Leone, per cui questo animale è diventato simbolo solstiziale.

 

Il Pozzo del Calice

Infine, nella zona più interna e intima del giardino, si apre il Pozzo del Calice, al centro di una depressione di forma circolare ricoperta in cemento, nel quale sono incastonate come gemme conchiglie fossili dalla forma a spirale. Il pozzo è di fatto una struttura in pietra di epoca medievale, che racchiude una sorgente d’acqua. Oggi l’imboccatura del pozzo si trova al livello del suolo, ma in antichità doveva trovarsi in superficie: sono stati i crolli di terra dal “Chalice Hill” e dal Tor che hanno finito per interrarlo.

Adiacente al pozzo, a una certa profondità, si apre una camera a forma di pentagono irregolare, la cui funzione è tuttora sconosciuta. La camera, le cui dimensioni presentano rapporti con le unità di misura degli antichi Egizi, data probabilmente al XVI o al XVII secolo, e fu presumibilmente utilizzata per delle cerimonie rituali. Oggi è, ovviamente, inaccessibile ma la sua sommità può essere ancora vista guardando all’interno del pozzo sul lato rivolto verso Chalice Hill.

Il coperchio del pozzo è forse l’immagine più nota associata a questo luogo, divenuta nel tempo un’icona e un simbolo del luogo stesso, a sua volta ispirato ad un simbolo ancora più antico, quello della Vesica Piscis.

Il simbolismo della Vesica Piscis

Il simbolo del Chalice WellLa Vesica Piscis costituisce un motivo ricorrente in tutto il giardino; la sua presenza si può definire massiccia, dato che la troviamo più o meno ovunque: nella cancellata d’ingresso, disegnato con dei sassi nel viottolo di accesso alla cassa, nella forma della vasca principale. L’associazione del Chalice Garden con questo simbolo, tuttavia, ha un’origine recente e risale al 1919, quando un famoso archeologo di Glastonbury, Frederick Bligh Bond, realizzò un coperchio per il pozzo in legno e ferro battuto, forgiato con questa immagine, e ne fece dono al Chalice Well Trust, che gestisce il sito. Bligh Bond lavorava da diversi anni come archeologo interno presso l’abbazia di Glastonbury ed era un esperto di geomanzia e di “energie della terra”. Il significato e la natura duale (maschile/femminile) di questo simbolismo è ampiamente trattata in una sezione apposita di questo sito.

Nel motivo che orna il coperchio del pozzo, la Vesica Piscis è attraversata in tutta la sua lunghezza da una freccia, terminante in un cuore. Essa rappresenta metaforicamente la Sacra Lancia, che, trafiggendo il costato di Gesù, che fece scaturire sangue e acqua, quello stesso sacco e quella stessa acqua dai poteri miracolosi curativi che scaturirono dalla sorgente di Glastonbury dopo l’immersione, in essa, del Santo Graal.

La coppa e la lancia, ovvero il Calice e la Lama, sono i due simboli fondamentali delle energie sessuali, femminile e maschile, e dell’unione sacra (le “nozze regali” tra il Re e la Regina) e, se vogliamo, la sacra unione che è alla base della Linea di Sangue divina simboleggiata dal Graal.

Non è un caso che i due simboli si trovino qui riuniti alla base del colle del Tor. Il pozzo, Vesica Piscis all’ingresso visto come cavità che si apre nel ventre della Madre Terra, con la sua sorgente di acque curative (fonte della vita) e, per di più, dal colore rossastro che potrebbero ricordare quello del sangue, linfa vitale, in particolare del sangue mestruale, che si genera ciclicamente in un periodo di 28 giorni come le fasi della Luna (Iside/Ishtar, la Grande Madre), può facilmente essere assimilato all’organo genitale femminile e rappresentare così il Femminino Sacro. Parallelamente, a breve distanza, si innalza il Tor, il colle magico situato sulla Linea di San Michele, dove covano le energie del drago in attesa di essere domato dall’arcangelo guerriero, e dove svetta solitaria una torre innalzandosi verso il cielo, non è altro che la rappresentazione simbolica dell’organo genitale maschile. È questa duplice presenza, dunque, che rende Glastonbury così speciale e fa di essa luogo designato per le pratiche magiche e le attività di carattere spirituale di ogni tipo.

I tassi e la Santa Spina

Nella parte più ampia del giardino, dove si trova la vasca principale, nello spiazzo tra questa e la Corte di Re Artù, si trovano due maestosi alberi di tasso. Quest’albero, che oggi è presente soprattutto nei cimiteri, aveva carattere sacrale per gli antichi Celti, in particolare per i Druidi, che li piantavano nei luoghi dove svolgevano solitamente le loro cerimonie come silenti sentinelle e guardiani dei loro luoghi sacri. Questi alberi una volta dovevano far parte di un boschetto sacro oppure di un viale cerimoniale.

Esisteva anche un altro viale di questo tipo, delineato da un altro albero sacro, la quercia, che conduceva al Tor. Oggi, nella località di Stonedown, a nord-est del Tor, sopravvivono ancora due vecchie querce, che sono state chiamate Gog e Magog, che si ritiene essere le ultime due sopravvissute di questo antico albero.

Nel folto degli alberi e delle siepi del Giardino del Calice non poteva mancare, infine, la Santa Spina, l’albero generatosi miracolosamente dal bastone di Giuseppe di Arimatea. Nel Giardino del Calice si trovavano tre diversi alberi di Santa Spina. Uno il più grande, si trovava tra i due tassi e la vasca principale Gli altri due, più piccoli, si trovano uno vicino al pozzo e l’altro subito al di sopra della Testa del Leone.

 

Glastonbury Tor

Glastonbury Tor è una collina conica che si trova nell’omonima cittadina. E’ sormontata da una torre a cielo aperto del XIV secolo dedicata a San Michele, e nei secoli ha concentrato su di sé l’attenzione di storici e letterati per il presunto legame con il ciclo arturiano.

Gli scavi archeologici hanno rivelato che la collina fu un luogo frequentato sia durante l’età del ferro sia nei secoli successivi dai Romani, mentre il tipico terrazzamento risalirebbe addirittura all’epoca neolitica. La prima chiesa monastica, sempre dedicata a San Michele, fu realizzata in legno e distrutta durante un terremoto, nel 1275. Qualche anno dopo, durante il 14° secolo, venne realizzata l’odierna costruzione in pietra, che si erge perfettamente conservata sulla cima dell’altura.

Le credenze riguardo la funzione della collina sono antiche e ben testimoniate. Il luogo sarebbe stato meta di pellegrinaggio per i cattolici dal basso medioevo sino alla riforma protestante, da quando lo scrittore e religioso gallese Giraldus Cambrensis, del XII secolo, associò la collina ad Avalon, la mitica isola dove riposerebbe Re Artù, in attesa che il mondo abbia nuovamente bisogno di lui.

Il “Tor” (parola inglese che significa collina o roccia) venne definita “Ynys yr Afalon” quando vennero scoperte le bare del Re e della Regina Ginevra nel 1191, un evento documentato proprio da Cambrensis, che scrisse come i resti furono poi spostati. Molti studiosi sospettano che questi eventi siano frutto totale della fantasia, concepiti nell’opera di Giraldus volta a dare maggior prestigio e una storia secolare alla collina, accrescendone la fama.

Il Tor è un colle naturale alto circa 160 metri che sovrasta e caratterizza da centinaia di anni il paesaggio.

Glastonbury sorge nel mezzo dei Somerset Levels, una grande palude soggetta a frequenti inondazioni e per migliaia di anni, fino circa al XIII secolo d.C., questo insediamento fu un’isola circondata da un mare interno poco profondo, che si formò in seguito all’innalzamento delle acque dopo l’ultima era glaciale. L’isola era collegata alla terraferma solo da una sottile lingua di terra che si estendeva nella zona di Ponter’s Ball: un fossato lungo circa un chilometro verosimilmente costruito durante l’Età del Ferro. E’ noto che i Levels furono abitati fin da tempi antichissimi, sono state  trovate abbondanti tracce risalenti al neolitico. Durante l’Età del Ferro, nel I millennio a.C., il territorio paludoso dell’isola era disseminato dai famosi Lake Villages, estesi insediamenti umani su palafitte e piattaforme. Tuttavia nella zona dell’Isola non sono mai stati rinvenuti reperti antecedenti al VI sec.d.C. e le tracce dei primi insediamenti umani sul Tor datano intorno proprio a quest’epoca. Questo ha portato alcuni studiosi a ritenere che l’Isola fosse considerata dalle popolazioni paleocristiane un luogo sacro, un vero e proprio santuario naturale al pari di Avebury o Stonehenge e la leggenda narra che Glastonbury sia stata l’Isola di Avalon. Ponter’s Ball rappresenterebbe quindi un “temenos”, ovvero un confine costruito per demarcare l’inizio del territorio sacro. La collina del Tor, dominava tutto questo scenario e sicuramente ha profondamente attratto le popolazioni neolitiche, esperte conoscitrici dei misteri celesti e dei loro riflessi sulla terra. Il Tor è  allineato sulla St.Michael Line, una famosa ley line, o linea energetica, sul cui tracciato giacciono, fra gli altri, il Saint Michael Mount in Cornovaglia, il Tor di Glastonbury e Avebury. Molti dei posti situati su questa linea erano inconfutabili luoghi di culto in epoca neolitica e successivamente su molti di essi furono costruiti santuari cristiani dedicati a San Michele, angelo di luce. Nel mondo celtico precristiano i luoghi collinari erano dedicati a Belenos, dio della luce e del sole, che rappresentava la controparte delle forze ctonie della terra (spesso simboleggiate da un drago o un serpente). L’orientamento dell’asse del Tor con un azimut di 63 gradi fa in modo che a maggio esso sia rivolto verso l’alba: la collina di San Michele, angelo della luce, si trova a vedere sorgere il sole proprio a Beltane, la vigilia di maggio, la grande festa celtica del dio Belenos, lo Splendente. Inoltre, sempre sulla Michael line si trova, poco distante da Glastonbury, il Burrowbridge Mump, una collina conica situata nei Somerst Levels che porta sulla cima i resti di un’antica chiesa dedicata a san Michele, in pratica un piccolo Tor in miniatura. Nei giorni di Samhain e Imbolc, stando sulla cima del Tor, il sole tramonta esattamente su Burrowbridge Mump. In pratica quindi l’allineamento dell’asse del Tor indica l’alba all’inizio di maggio e agosto (beltane e lughnasadh, la metà luminosa dell’anno) e il tramonto a fine ottobre e inizio febbraio (samhain e imbolc, la metà oscura dell’anno). Glastonbury passa un’altra importante ley line, la Mary Line, sul cui percorso si trovano molti luoghi di culto dedicati alla vergine Maria. Essa passa nelle rovine della grande abbazia di Glastonbury, dalla Lady Chapel e risale il pendio del Tor, per incontrarsi con la Michael line, creando secondo alcuni un’incredibile punto di unione fra energie maschili e femminili o comunque fra polarità complementari, capaci di aprire le porte alle percezioni che molti sostengono di aver avuto percorrendo la collina. Il Tor però non è allineato solo con i cross-quarter days solari dell’anno celtico ma possiede anche un importante allineamento lunare. Tracciando una linea retta dalla sommità del Tor fino a Cadbury, località non distante, abitata fin dai tempi neolitici, imponente insediamento romano della britannia sud occidentale e, secondo la leggenda, antica sede di Camelot, si può osservare che il Tor è precisamente orientato con il Northern Major Standstill, cioè il punto più a nord del calare della luna, mentre Cadbury castle è orientato con il Southern Major Standstill, il punto più a sud in cui può calare la luna. Quindi questo significa che , per esempio, guardando la luna piena da Cadbury, questa tramonta nel punto più a nord proprio sopra al Tor e ciò avviene esattamente ogni 19 anni, un ciclo metonico (Il ciclo metonico (che prende il nome dall’astronomo greco Metone) è un ciclo di 19 anni, basato sull’osservazione che 19 anni solari corrispondono (quasi) esattame nte a 235 mesi lunari e a 6940 giorni. Sul ciclo metonico si basano i calendari lunisolari aritmetici, cioè quei calendari, che mantengono il sincronismo sia col corso del sole sia con quello della luna per mezzo di approssimazioni aritmetiche dei moti reali medi dei due astri. Sono “aritmetici”, per esempio, il calendario ebraico e quello ecclesiastico, utilizzato dalla chiesa cattolica per il calcolo della Pasqua)., la durata del periodo dell’istruzione di un druido o una sacerdotessa celtica…. La leggenda vuole che Artù percorra questo sentiero da Cadbury a Glastonbury, detto Sentiero di Caccia di Artù, nelle tempestose notti invernali, ogni 19 anni, presiedendo alla Caccia Selvaggia delle anime, proprio come Gwynn Ap Nudd, il Bianco Figlio della Notte, che abiterebbe il Glastonbury Tor e sarebbe il Signore dell’Altromondo. A Glastonbury esistono molti altri allineamenti sacri come il Landscape Diamond e lo Zodiaco di Glastonbury, nonché le geometrie sacre di Chalice Well e dell’Abbazia. I misteri che circondano il Tor sono molti e fittamente intrecciati con la sua storia. Sappiamo che sul Tor, nel X secolo vi era una piccola cappella, sostituita poi da un’abbazia, più piccola di quella al centro della città ma comunque prospera e dedicata a san Michele. Le cronache dell’epoca ci dicono però che nel 1275 (per la precisione l’11 settembre…) un “terremoto” distrusse la chiesa in cima al Tor, che fu tuttavia ricostruita dai solerti monaci, sebbene seguendo un progetto più piccolo e sobrio. Solo nel XIV secolo fu aggiunta la torre oggi esistente, l’unica che oggi sopravvive dopo la dissoluzione dei monasteri voluta da Enrico VIII nel 1539.

La leggenda narra che santa Brigida e san Patrizio visitarono Glastonbury nel V secolo. Glastonbury in epoca medioevale era considerata la prima chiesa cattolica di Britannia, fondata direttamente da Giuseppe di Arimatea nel 63 d.C., che vi avrebbe costruito la prima cappella nel sito della Lady Chapel, portando con sé dalla Palestina il sacro Graal, che si dice giaccia nei pressi della Fonte Rossa (Chalice Well). William di Malmesbury, uno storico che nel 1130 scrisse il De Antiquitate Glastonie Ecclesie, racconta che Patrizio si sarebbe recato sul Tor, dove a quel tempo sorgeva “un fitto bosco”. Una delle maggiori peculiarità del Tor, è che lungo tutte le sue scoscese pareti, esposte a gelidi e impetuosi venti di nord-ovest, sono state ricavate enorme terrazze concentriche, sette in tutto. Nonostante vari studi, a tutt’oggi esistono pochissimi dati relativi a chi , quando e soprattutto perché ha scavato le terrazze del Tor. E’ noto che i monaci medioevali costruirono alcune piccole terrazze sulle pendici più a sud a scopo agricolo e migliorarono alcune delle terrazze già esistenti sui pendii più alti per ricreare le 7 stazioni della Via Crucis da far percorrere ai pellegrini. Il Tor era la loro Montagna Sacra e la sua ascesa simboleggiava il percorso di elevamento spirituale del pellegrino. E’ evidente che le terrazze non servirono mai a scopi difensivi poiché hanno un perimetro piatto e sono privi di fossati o argini. L’ipotesi più affascinante è che siano state le popolazioni neolitiche a costruire queste opere imponenti, riconoscendo subito nel Tor un luogo sacro e privilegiato, quando ancora Glastonbury non esisteva ma vi era al suo posto un’isola ricoperta di fitti boschi di noccioli, tassi, biancospini e meli, ricca di acqua (la fonte bianca e la fonte rossa, i colori dell’Altromondo celtico) e di risorse naturali e punto di osservazione privilegiato di fenomeni astronomici. Secondo autorevoli studiosi come Nicholas Mann, il Tor fu un’area di attività preistorica e il fulcro d’importanti cerimonie religiose, dal momento che nei dintorni sono assenti monumenti di pari importanza. Altri studiosi come Rahtz , Russell e Ashe, a partire dalla fine degli anni 60 hanno notato che le sette terrazze del Tor costituiscono i resti di un labirinto tridimensionale, con tutta probabilità attribuibile all’era neolitica. Labirinti di questo genere ma di minori dimensioni sono presenti in tutto il mondo e all’interno di civiltà differenti, e sono ritenuti simboli di morte e rinascita, poiché rappresentano il viaggio di discesa e successiva riemersione dal mondo dell’aldilà. Il labirinto di Creta, secondo la tradizione classica, rappresenterebbe anche il viaggio nell’interiorità alla riscoperta del lato selvaggio e ctonio della natura umana. Ciò si sposa perfettamente con le innumerevoli leggende locali che identificano il Tor con l’ingresso dell’Altromondo. Tale apertura si troverebbe su uno dei pendii del Tor, forse contrassegnato da una Tor Burr, una delle grosse pietre ovalari che disseminano e costituiscono l’impalcatura della collina. Varie di queste pietre possono essere osservate sul Tor, ma quella più famosa giace ora accanto all’Abbott’s Kitchen nell’Abbazia: viene chiamata dalla leggenda Pietra Omphalos e sembra che fosse oggetto di culto in tempi antichissimi, potrebbe trattarsi  di una pietra oracolare su cui le sacerdotesse, in particolare nei giorni del mestruo, si sedevano a profetare.

Forse non sapremo mai con esattezza quali e quanti misteri cela questa collina sacra ma le persone che ancora la percorrono hanno esperienze che le cambiano profondamente, aprendo nuove dimensioni al loro modo di percepire la vita e quando anche questo non avvenisse è certo che stare in cima alla collina spazzata dai venti e godere del panorama meraviglioso che spazia la campagna verde smeraldo e talora arriva fino al canale di Bristol è sicuramente un momento unico ed irripetibile per cui vale la pena un viaggio in questo luogo affascinante e carico di enigmi secolari.

Kathy Jones e altre studiose che vivono a Glastonbury si sono inoltre accorte, studiando il paesaggio sacro dell’isola, che su di esso si ritrovano delle forme che possono essere paragonate ad una donna che si distende del paesaggio, con il suo ventre in corrispondenza di Chalice Well ed un seno in corrispondenza del Tor

Oppure, alternativamente, il paesaggio sembra delineare anche una vecchia strega che vola sul dorso di un cigno: la testa del cigno è rappresentata da Wearyall Hill mentre il Tor rappresenterebbe il grembo della Vecchia Saggia.
Il Tor viene dunque interpretato o come il seno abbondante che nutre i figli della Dea (infondo alla base del Tor sgorga la Fonte Bianca, sorprendentemente simile al latte…) o come il ventre ormai non più mestruato della vecchia Crona. Nei tempi antichi le donne anziane in menopausa erano molto rispettate poiché si pensava che trattenessero in loro il sangue magico che le rendeva sagge e potenti. La collina sacra mantiene cosi anche il questo caso il suo dualismo: porta ultraterrena che conduce alla rinascita.

Il festival di Glastonbury

Il festival di Glastonbury, che è chiamato ufficialmente Glastonbury Festival of Contemporary Performing Arts, è un festival musicale e di spettacolo che si tiene a Pilton, a circa 10 km da Glastonbury nel Somerset in Inghilterra. Il festival è conosciuto soprattutto per la sua musica, ma non sono da trascurare gli elementi relativi alla danza, la commedia, il teatro, il circo, il cabaret e altre forme d’arte. Nel 2005, il festival occupava un terreno di 3,70 km² di superficie e 150.000 persone avevano assistito ai 385 spettacoli live.

Glastonbury è anche conosciuto per l’elevato consumo di droghe illegali da parte dei partecipanti, abitudine creatasi grazie alla sua origine hippie, e per questo tenuto costantemente sotto controllo dalla polizia. Si svolge di regola ogni anno durante l’ultimo week-end di giugno e dura 3 giorni. I biglietti 203.000 per l’edizione del 2019 sono andati esauriti in 36 minuti….

 

Exeter

Exeter (in cornico Karesk) è una città del Regno Unito, capoluogo della contea inglese del Devon. Antica Isca Dumnoniorum, è nota in cornico come Karesk e in gallese come Caerwysg. Semidistrutta dai bombardamenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, conserva numerose testimonianze di tutta la storia inglese. Il principale monumento che ospita è la sua cattedrale. La città fu fondata dai Romani con il nome di Isca Dumnoniorum nel 50 dopo Cristo. Si trattava della fortezza romana più occidentale in Anglia. Durante il periodo sassone la città (Exanceaster) fu oggetto di diversi attacchi da parte dei vichinghi che la conquistarono brevemente in due occasioni, nell’876 e nel 1001. Fu contro un discendente dei vichinghi, il normanno Guglielmo il Conquistatore, che Exeter si ribellò nel 1067. Guglielmo prontamente mise la città sotto assedio che si arrese dopo soli 18 giorni. La città è ricordata nella storia inglese per il grande contributo di navi che diede per sconfiggere l’Invincibile Armata nel 1588. Il motto stesso della città, Semper Fidelis, deriva da quel periodo. Successivamente, e sino alla fine della Guerra civile inglese, Exeter fu una città assai florida grazie al commercio della lana. All’inizio della Rivoluzione industriale poteva contare sull’energia prodotta dal suo fiume. Successivamente, tuttavia, quando la forza vapore sostituì l’acqua come forza propulsiva nel XIX secolo Exeter si trovò a essere troppo lontana dai rifornimenti di carbone. Per questo motivo la città ebbe un periodo di declino significativo. Ciò nonostante fu aperto un nuovo porto a Topsham, più vicino al mare. Con l’arrivo del treno che la collegava prima a Bristol, poi a Plymouth e a Londra, la città riprese il suo sviluppo.

La cattedrale di Exeter

La cattedrale di Exeter (cattedrale di San Pietro, in inglese Cathedral Church of Saint Peter)  è la chiesa principale della diocesi anglicana di Exeter, nel Devon (Inghilterra). L’edificio attuale, completato intorno al 1400, presenta caratteristiche peculiari come le antiche misericordie, l’orologio astronomico e la più lunga volta continua d’Inghilterra.  La fondazione della cattedrale di Exeter, dedicata a san Pietro, risale al 1050, quando la sede del vescovo di Devon e Cornovaglia fu trasferita da Crediton per paura di scorribande dal mare. In città esisteva all’epoca un edificio di culto di epoca anglosassone dedicato a Maria e san Pietro, usato dal vescovo Leofrico come sua sede, ma per mancanza di spazio le celebrazioni avvenivano all’aperto, nelle vicinanze del sito dell’attuale cattedrale. Nel 1107 venne nominato vescovo William Warelwast, un nipote di Guglielmo il Conquistatore, dando così impulso alla costruzione di una nuova cattedrale in stile normanno. La fondazione ufficiale avvenne però solo nel 1133, dopo la fine della permanenza di Warelwast nella diocesi. In seguito all’arrivo di Walter Branscombe come vescovo nel 1258, l’edificio in costruzione venne giudicato superato e fu ricostruito in stile gotico decorato, sull’esempio della cattedrale di Salisbury. Tuttavia gran parte della costruzione gotica venne mantenuta, comprese le due massicce torri quadrate e parte delle murature perimetrali. Il materiale usato per la costruzione è tutto locale, come il marmo Purbeck. La nuova cattedrale venne completata intorno al 1400, tranne la sala capitolare e le cappelle per le messe di suffragio. Come la maggior parte delle cattedrali inglesi, quella di Exeter subì la dissoluzione dei monasteri. Ulteriori danni si verificarono durante la guerra civile inglese, con la distruzione dei chiostri. Dopo la restaurazione di Carlo II, John Loosemore costruì un nuovo organo a canne. La sorella di Carlo II Enrichetta Anna Stuart fu battezzata nella cattedrale nel 1644. Durante l’età vittoriana la chiesa subì alcuni restauri operati da George Gilbert Scott. Il 4 maggio 1942, un bombardamento colpì la città, con una bomba che colpì e distrusse tra l’altro la cappella di San Giacomo della cattedrale. Fortunatamente molti preziosi oggetti conservati nella chiesa erano stati rimossi preventivamente prima dell’attacco. Successivi lavori di restauro della parte ovest dell’edificio portarono alla luce parti di strutture precedenti, inclusi alcuni resti della città romana e dell’originaria cattedrale normanna.

 

Torquay

Si trova sul Canale della Manica, a circa 35 km a sud di Exeter e a circa 61 km a nord-est di Plymouth e confina con la vicina cittadina di Paignton nell’ovest della baia. La popolazione di Torquay è di 63998 abitanti, come risulta dal censimento del 2001; per numero di abitanti è il terzo insediamento urbano del Devon. Se l’area di Torbay, di cui Torquay occupa un terzo, fosse riconosciuta come una unica entità, risulterebbe essere la 45esima città del Regno Unito, con una popolazione appena inferiore a quella di Brighton, località a cui è stato attribuito lo status di città nel 2000. Durante la sessione estiva la popolazione raggiunge un picco di 200.000 abitanti.

Originariamente l’economia di tale centro si basava sulla pesca e l’agricoltura, ma dall’inizio del XIX secolo in poi si è sviluppata una fiorente attività turistica in ragione della favorevole posizione sul mare. I primi a utilizzare la località a tale fine furono gli ufficiali della Marina britannica di stanza nel porto militare lì allestito in ragione del conflitto contro la Francia di Napoleone; successivamente fu frequentato assiduamente dall’aristocrazia e dall’alta borghesia vittoriana. Rinomata per il clima salubre, la cittadina ha guadagnato l’appellativo di English Riviera, con paragoni a Montpellier.

Tra i personaggi più famosi nati a Torquay figurano anche l’esploratore Richard Francis Burton (1821-1890) e la notissima scrittrice di letteratura poliziesca

Agatha Christie (1890-1976).

Agatha Mary Clarissa Miller nasce nel 1890 a Torquay, in Inghilterra da padre americano.

Quando la piccola è ancora in tenera età, la famiglia si trasferisce a Parigi dove la futura scrittrice intraprende fra l’altro studi di canto.

Orfana di padre a soli dieci anni, viene allevata dalla madre (oltre che dalla nonna), una donna dotata di una percezione straordinaria e di una fantasia romantica spesso non collimante con la realtà. Ad ogni modo, il padre della Christie non era certo un esempio di virtù familiari, essendo un uomo più dedito al cricket e alle carte che alla famiglia. Ad ogni modo, l’infanzia della Christie sarebbe una normale infanzia borghese se non fosse per il fatto che non andò mai a scuola. Anche della sua educazione scolastica si incaricò direttamente la madre, nonché talvolta le varie governanti di casa.

Inoltre, nell’adolescenza fece molta vita di società fino al matrimonio, nel 1914, con Archie Christie che in seguitò diventerà uno dei primi piloti del Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale. La Christie aveva sviluppato intanto una forte passione per la musica e infatti, divenuta un poco più consapevole circa il proprio futuro, aspira fortemente a diventare una cantante lirica. Purtroppo (o per fortuna, dal punto di vista della storia della letteratura), non ottiene molti riscontri in questa veste, cosa che la persuade a tornare in Inghilterra. Agatha in questo periodo inizia la sua attività di scrittrice con biografie romanzate con lo pseudonimo di Mary Westmacott che, però, vengono ignorate sia dal pubblico che dalla critica.

L’idea per il suo primo romanzo giallo, “Poirot a Styles Court”, le venne lavorando in un ospedale, come assistente nel dispensario, a contatto con i veleni.

Il primo successo arrivò, nel 1926, con “Dalle nove alle dieci”. Dopo la morte della madre e l’abbandono del marito (di cui dopo il divorzio conservò il cognome per ragioni unicamente commerciali), Agatha scompare e, dopo una ricerca condotta in tutto il paese, viene ritrovata ad Harrogate nell’Inghilterra settentrionale sotto l’effetto di un’amnesia. Per due o tre anni, sotto l’effetto di una forte depressione, scrisse romanzi decisamente inferiori alle sue opere più riuscite, fino a che un viaggio in treno per Bagdad le ispirò “Assassinio sull’Orient Express” e la fece innamorare di Max Mallowan che sposò nel 1930.

Nel 1947 il suo successo è ormai talmente radicato che la Regina Mary, al compimento dei suoi ottant’anni, chiede alla scrittrice, come regalo di compleanno, la composizione di una commedia. La Christie, assai lusingata della richiesta, stende il racconto “Tre topolini ciechi”, che la Regina dimostrò in seguito di gradire moltissimo. Anche il pubblico ha sempre dimostrato di essere molto attaccato alle sue opere. Tradotti in 103 lingue, in alcuni casi è diventata talmente popolare da sfiorare il mito. In Nicaragua, ad esempio, venne addirittura emesso un francobollo con l’effigie di Poirot. Nel 1971 le viene assegnata la massima onorificenza concessa dalla Gran Bretagna ad una donna: il D.B.E. (Dama dell’Impero Britannico).

Nel Natale del 1975 nel romanzo “Sipario” la Christie decise di far morire l’ormai celeberrimo investigatore Hercule Poirot mentre, il 12 gennaio 1976, all’età di 85 anni, muore anche lei nella sua villa di campagna a Wallingford. E’ sepolta nel cimitero del villaggio di Cholsey nel Oxfordshire. Secondo un rapporto dell’UNESCO, Agatha Christie in vita guadagnò circa 20 milioni di sterline, cioè poco più di 23 milioni di euro.

A tutt’oggi, Agatha Christie è una certezza per gli editori che pubblicano i suoi romanzi, essendo uno degli autori più venduti al mondo.
Tintagel

Tintagel è un villaggio situato sulla costa settentrionale della Cornovaglia, all’interno della AONB (Area of Outstanding Natural Beauty, in italiano Area di Eccezionale Bellezza Naturalistica) della contea.  Sulla penisola di fronte al villaggio sorgono le rovine di un castello, legate sia alla storia che alla leggenda. Il Castello di Tintagel è senza dubbio una delle mete più affascinanti e suggestive della Gran Bretagna. Questa fortezza Normanna a picco sul mare fu costruita nel XIII secolo (si suppone che precedentemente il sito fosse occupato da una comunità monastica) ma ebbe vita breve, perché era già avviata al declino appena un secolo dopo la sua fondazione. Il Castello di Tintagel è collegato al mito di Re Artù,  perché secondo una leggenda questo è il luogo dove il sovrano fu concepito grazie a un sortilegio del Mago Merlino, che permise a Uther Pendragon di sedurre sua madre. Un’altra leggenda lo connette invece al mito di Tristano, uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Nei pressi delle rovine ci sono due tunnel. Il più lungo viene chiamato Merlin’s Cave (Caverna di Merlino): si dice che l’antico mago cammini ancora al suo interno, e che a volte si senta addirittura la sua voce! L’atmosfera che aleggia su Tintagel è davvero unica. Verremo trasportarti indietro nel tempo e renderemo quasi reali le favole che ci raccontavano su Re Artù. E quando ritorneremo con i piedi per terra, saremo nuovamente rapiti dai fantastici panorami che si ammirano dalle vestigia del castello. Tintagel si trova circa 60 km a nord-est di Truro.

 

Il castello di Tintagel

Il castello di Tintagel (in inglese: Tintagel Castlein lingua cornica: Kastell Dintagell, che significa “forte della costrizione”) è un castello medievale della cittadina di Tintagel, nel nord della Cornovaglia (Inghilterra sud-occidentale), di cui oggi rimangono soltanto delle rovine.

Il sito era già occupato in epoca romano-britannica, come dimostrano ritrovamenti di questo periodo. Fu poi abitata in età altomedievale, quando, probabilmente, fu una delle residenze del sovrano della Dumnonia. Dopo che la Cornovaglia era stata assorbita dal regno d’Inghilterra, tra il 1227 e il 1240 un castello sarebbe stato costruito per volere dell’re Riccardo, che poi cadde in rovina, mentre secondo un’altra teoria era stato iniziato già edificato nel 1131 da Reginaldo di Cornovaglia.

Negli anni Trenta del XX secolo gli scavi hanno portato alla luce tracce significative di un importante insediamento del tardo periodo romano. Il castello è stato per molto tempo associato con le leggende arturiane.

Tale connessione iniziò con l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth nel XII secolo, che indicò Tintagel come luogo del concepimento di Artù. Goffredo racconta  la storia secondo Uther Pendragon, con l’aiuto di Merlino, assume le sembianze del duca di Cornovaglia, Gorlois, giacendo così con sua moglie Igraine, concependo Artù. La leggenda non trova però riscontro, dato che è appurato che l’edificio dove sarebbe nato o vissuto Re Artù è sorto evidentemente vari secoli dopo. Sul luogo, pare sorgesse invece in origine un monastero del VI-IX secolo oppure un’altra fortezza oppure ancora un insediamento commerciale del VI secolo

Le rovine del castello, meta turistica sin dalla metà del XIX secolo, sono oggi gestite dall’English Heritage

 

Re Artù

Se esiste una leggenda che ancor oggi suscita incantevole fascino, senza dubbio, è quella del mitico Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’origine del racconto, come lo conosciamo oggi, si perde nei secoli. I bardi britannici, a partire dal VII secolo d.C., cantavano alla corte dei loro signori le gesta del grande re Artù.

Questo impavido e nobile condottiero è davvero esistito?

Da tempo noti studiosi si sono messi sulle tracce del mito e alcuni di essi sono certi di aver individuato la verità storica dietro re Artù.

Andiamo con ordine.

Innanzitutto, il motivo che spinge a rifiutare la storicità di re Artù è il suo magico mondo; conosciamo bene la leggenda che difatti è intrisa di racconti e figure incredibili, ovvero non reali, (Mago Merlino, la spada magica, la Dama del Lago, per citarne qualcuno). Dove finisce la leggenda e inizia la “storia” di Re Artù? Le fonti consultate dagli studiosi iniziano proprio dai canti dei bardi britannici.

Questi racconti orali, a partire dal XII secolo hanno iniziato ad avere il loro supporto scritto; diversi autori ne hanno trattato l’argomento fino al XV secolo. Di volta in volta questi racconti acquisivano dettagli in più, diventando veri e propri romanzi. I romanzi arturiani (il cosiddetto ciclo bretone) dal XII secolo al XV secolo denotano però un sovrano medievale, non più il sovrano dell’età tardo romana. Questo vale anche nelle raffigurazioni: Re Artù si veste e combatte in modo medievale, ma la leggenda parla chiaro: l’eroe unificò la Britannia nei suoi secoli bui. L’Artù della leggenda opera quindi negli anni della caduta dell’Impero romano e lotta contro le invasioni dei barbari angli, pitti e sassoni che, da ogni parte, minacciavano la delicata stabilità della Britannia. Il condottiero doveva aver quindi operato negli anni tra la fine del V e l’inizio del VI secolo.

È probabile che un uomo, magari di stirpe nobile, abbia sentito il dovere e l’esigenza di agire contro i barbari e le loro razzie?

Cosa ci dicono le fonti?

Gli annali degli Anglosassoni (ormai riuniti in un solo popolo) parlano (ovviamente) delle loro vittorie e gli stessi tacciono in merito a una loro potente arretrata in seguito a una vittoria dei Britanni. Questo vuoto nella cronaca è però raccontato dal monaco Gildas il Saggio, del VI secolo: nel suo De Excidio et conquistu Britanniae racconta che da ogni parte la Britannia è sotto minaccia barbara a causa dei signori incapaci di agire contro gli invasori Gildas a un certo punto parla dell’importante e fondamentale vittoria dei britanni contro gli anglosassoni: la battaglia di Badon Hill.

È questa la battaglia assente nella Cronaca Anglosassone

Da questa battaglia nascerebbe il mito di re Artù. Gildas scrive della battaglia di Badon Hill in un tempo in cui era viva la memoria dei fatti: furono tre giorni di combattimento in cui la cavalleria britannica, educata alla romana, ebbe la meglio. Questa frenata agli anglosassoni è documentata da ritrovi archeologici che attestano un lungo periodo di pace. Fu Artù il condottiero di Badon Hill? Ammesso che non esista la storicità di re Artù, senza dubbio è esistito un condottiero capace di unire la Britannia e dare una frenata agli invasori esteri.

Gildas e Beda il Venerabile, l’altra fonte in cui compare la battaglia di Badon Hill, non nominano il condottiero; a farlo è un’altra fonte di cui si dispone: lo storico Nennio nella sua Historia Brittonum parla della battaglia e del suo condottiero e lo nomina, senza indugio, come Artù. Nennio è ritenuto dagli storici una fonte poco credibile per l’inserimento nella sua opera di molti temi mitologici, ma è lo stesso Nennio ad avvertire il lettore: sente l’esigenza di mettere per iscritto fatti che potrebbero essere dimenticati ma lascia a noi il compito di scremare la verità dalla fantasia.

Quando parla di re Artù lo fa con gli occhi di uno storico e il racconto non è mai stravolto dall’intrusione di elementi fantastici, anzi racconta semplicemente che il condottiero Artù guidò la battaglia e la vittoria dei Britanni contro gli anglosassoni. Niente altro. Oltre a Nennio, vi è un’altra fonte storica che cita il condottiero come Artù: gli Annali del Galles. Per molti la risposta alla storicità del condottiero Artù sta nel nome stesso del mitico re. In celtico la parola arth significa orso e la dea della caccia Artio, spesso veniva rappresentata nelle sembianze di un orso.

Forse il condottiero di Badon Hill aveva sul suo stendardo l’immagine di un orso?

Ammesso questo, non si andrebbe a identificare un uomo ben preciso, sebbene alcuni lo individuerebbero nel condottiero Aureliano Ambrosio e altri nel comandante Lucio Artorio Casto. Ciò che allontanerebbe l’ipotetica storicità del re di Camelot dai due candidati e il periodo storico in cui essi vissero: Lucio Artorio Casto opera nel II secolo quindi lontano dai fatti che interesserebbero re Artù. Ambrosio Aureliano, visse intorno al 475 e, sebbene avesse riunito i popoli britanni contro i barbari invasori, ebbe una vittoria effimera perché già nel 477 (e nel 485 e ancora nel 495) la Cronaca anglosassone registra una nuova ondata di sassoni, quindi una sconfitta di Aureliano.

Il mosaico della Cattedrale di Otranto dove si legge la scritta “Rex Arturus”:

Grazie al condottiero di Badon Hill (516 d.C.) si ha invece un periodo di pace durato più o meno una generazione, non soltanto un paio di anni. Ritornando a Gildas, questi nel suo libro, a un tratto, si scaglia contro il sovrano Cuneglasus (suo contemporaneo) chiamandolo orso, e nella sua invettiva, sotto metafora, gli dice di non comportarsi come si addice a una persona del suo rango al comando com’è di un qualcosa di molto importante, quasi sacro, che un tempo era appartenuto all’orso. È questa la chiave secondo lo storico Graham Philips per svelare il mistero: Cuneglasus era chiamato orso da Gildas perché aveva ereditato quell’appellativo dal suo predecessore nonché padre:

Usanza celtica, infatti, era quella di dare alle personalità più importanti nomi di animali che ne denotassero tratti del carattere e della personalità. Questi nomi venivano poi tramandati nelle generazioni. È probabile che Gildas si fosse rivolto a Cuneglasus chiamandolo con l’appellativo che aveva ereditato dal padre: Artù quindi sarebbe stato l’appellativo di Owain Ddantgwyn, re del Powys.

Per alcuni studiosi non ci sarebbero più dubbi: re Artù è la figura storica realmente esistita del re Owain. Per molti altri accademici, invece, l’individuazione di un unico personaggio dietro re Artù resta confusa. L’ipotesi accettata è quella che la figura del mitico re raccolga in sé l’operato di condottieri che realizzarono le imprese attribuite a re Artù: dall’unione di personaggi storici e leggendari avrebbe preso forma il vero re Artù, quello che oltre i secoli, a prescindere dalle lotte tra gli accademici, ancora regna nella nostra memoria.

 Re Artù e il Sacro Graal

La tradizione medioevale narra di un grande re dei Britanni che sconfigge i nemici Sassoni, unifica il proprio paese, fonda l’Ordine dei Cavalieri della Tavola Rotonda e costituisce un governo ideale a Camelot (la reggia di Artù è stata identificata da alcuni studiosi con la fortezza neolitica di Cadbury, ai confini tra il Somerset e il Dorset, da altri con il castello di Greenan, a nord di Glasgow).

Per alcuni studiosi, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi; per altri un dio del pantheon celtico, forse il simbolo della terra stessa (Art = roccia, da cui Earth ), poi trasformato dalla leggenda in un essere umano. C’è invece chi ritiene che sia esistito veramente: nel VI secolo d.C. fu forse il re o il capo di una tribù britannica impegnata nella resistenza contro gli invasori Sassoni. Purtroppo dell’Artù storico – se mai c’è stato – si conosce ben poco: lo stesso nome “Arthur”, in inglese, non fornisce indicazioni sulla sua origine. Potrebbe derivare dal latino Artorius  (in tal caso Artù era forse un Comes Britanniarum , ovvero un rappresentante locale dell’Impero Romano), dal gaelico Arth Gwyr (“Uomo Orso”), o ancora dal già citato Art (Roccia  in irlandese).

Un principe britanno chiamato “Arturius, figlio di Aedàn mac Gabrain Re di Dalriada” è citato dall’agiografo Adomnan da Iona nella “Vita di San Colombano” (VIII° secolo); nella “Historia brittonum” (IX° secolo) lo storico Nennio racconta che il dux bellorum Artorius era il comandante dei Britanni durante la battaglia contro i sassoni al Mons Badonis (Bath?); gli “Annales Cambriae” (X° secolo) descrivono la sua morte e quella del traditore Medraut (“Mordred”) nella battaglia di Camlann nell’ “anno 93” (539 d.C.?); ma altri storici dell’epoca, tra cui Gildas e il Venerabile Beda, non fanno alcun cenno a un condottiero chiamato Artù. All’Artù storico sono stati attribuiti convenzionalmente una data di nascita e di morte (475-542 d.C.), ma c’è chi lo identifica con personaggi più antichi. Arthur diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi intorno al 600 d.C. Nell’XI° secolo era considerato dagli inglesi un eroe nazionale, e le sue imprese – diffuse dalle canzoni dei Bardi – erano note non solo in Gran Bretagna, in Irlanda, nel nord della Francia, ma anche nella lontana Italia: lo dimostra un bassorilievo sulla “Porta della Pescheria” del Duomo di Modena realizzato intorno al 1120 (e cioè con almeno dieci anni di anticipo sul ciclo di narrazioni scritte cui dette l’avvio Chretien de Troyes, il più grande scrittore medioevale di romanzi arturiani, originario della Champagne, attivo tra il 1130 e il 1190).

L’Artù celtico-britannico era un personaggio che i romani avrebbero definito “un barbaro”: un re robusto e coraggioso quanto rozzo e incolto. La sua notorietà internazionale impose quella che oggi definiremmo un’operazione di “rinnovamento dell’immagine” allo scopo di nobilitare la sua figura e farne il signore di Camelot.

Fu l’inglese Geoffrey di Monmouth a dare il via al processo che avrebbe trasformato Re Artù da monarca “barbaro” a simbolo messianico di Re-Sacerdote e i suoi cavalieri in un perfetto modello per le istituzioni cavalleresche medioevali (la Tavola Rotonda). Tra il 1130 e il 1150, nell’“Historia Regum Britanniae”, nelle “Prophetiae Merlini” e nella “Vita Merlini”, Geoffrey tracciò una precisa quanto fantasiosa genealogia del sovrano, recuperò e interpretò in chiave cristiana (e non più celtica) Merlino e gli altri comprimari, e pose alcuni capisaldi del futuro ciclo, battezzando, per esempio, “Avalon” il sepolcro da cui Artù sarebbe risorto ” quando l’Inghilterra avrebbe avuto ancora bisogno di lui “.

Escalibur

La spada denominata Escalibur, il cui nome è stato recentemente interpretato da insigni celtisti come una sorta di crasi delle parole latine, ossia ensis caliburnus, cioè la “spada calibica” , cioè forgiata dai Calibi (antica e mitica popolazione della Scizia, di cui si dice, scoprirono il ferro e ne portarono l’uso fra gli uomini).

Massimo Valerio Manfredi, storico del mondo antico e scrittore di successo, nel suo ultimo romanzo “L’ultima legione”, che ruota intorno ad un gruppo di soldati romani lealisti che si assumono il compito di far fuggire e portare in salvo in Britannia l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, deposto nel 476 d.C. da Odoacre, insieme al suo precettore Meridius Ambrosinus, immagina che Romolo Augusto rifugiatosi in Britannia divenga re con il nome di Pendragon e abbia un figlio di nome Artù, mentre in Meridius Ambrosinus adombra Myrdin o Merlino. Quanto a Escalibur il suo significato sarebbe “Cai.Iul.Caes.Ensis Caliburnus”, cioè la spada Calibica di Giulio Cesare, che, ritrovata casualmente da Romolo e portata in Britannia sarebbe stata scagliata lontano dallo stesso Romolo (Pendragon) in segno di pace, si sarebbe conficcata in una roccia e qui, esposta alle intemperie, avrebbe finito per lasciar leggere solo alcune lettere dell’iscrizione, e cioè: E S CALIBUR.

Il Santo Graal

Il termine Graal deriva dal latino Gradalis, con cui si designa una tazza, un vaso, un calice, un catino. Questi oggetti nella mitologia sono i simboli del grembo fecondo della Grande Madre, la Terra, e portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il “Calderone di Dagda”, portato nel mondo materiale dai Tuatha De Danaan rappresentanti ultraterreni del “piccolo popolo” (il magico popolo degli abitatori dei boschi, fate, streghe, gnomi e folletti). Molti eroi celtici hanno avuto a che fare con magici calderoni. La tradizione cristiana annovera almeno due sacri contenitori: il Calice dell’Eucarestia e – sorprendentemente – la Vergine Maria. Nella ” Litania di Loreto”, antica preghiera dedicata a Maria, essa è descritta come Vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ovvero “vaso spirituale, vaso dell’onore, vaso unico di devozione”: nel grembo (vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta.

Forse, quando, alla fine del XII° secolo, Chretien de Troyes decise di introdurre nella materia arturiana il motivo del “Vaso Sacro “, lo fece perché era al corrente dei miti celtici del Calderone e l’argomento gli sembrò particolarmente in tema. Forse esisteva già una tradizione orale sul Graal e Chretien si limitò a metterla per iscritto. Forse (è l’ipotesi più probabile) elaborò in termini cristiani le antiche leggende sui contenitori sacri. Il Graal arturiano fu descritto per la prima volta da Chretien intorno al 1190 in “Perceval le Gallois ou le Compte du Graal”. La parola “Graal” è utilizzata con il significato generico di coppa e fa parte di un gruppo di oggetti egualmente dotati di poteri mistici, ma non ha comunque alcuna associazione con il sangue di Gesù. Solo nel successivo “Joseph d’Arimathie – Le Roman de l’Estoire dou Graal”, un testo arturiano del cosiddetto “Ciclo della Vulgata” (dove però Re Artù non compare) scritto da Robert de Boron intorno al 1202, il Graal viene descritto come il calice dell’Ultima Cena, in cui Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso.

Perché il calice fu portato proprio in Inghilterra? I sostenitori della sua esistenza materiale avanzano delle ipotesi piuttosto ardite. Durante gli anni sconosciuti della sua vita, prima della predicazione, Gesù avrebbe soggiornato per un certo periodo in Cornovaglia e avrebbe ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido. Dopo la crocefissione, Giuseppe d’Arimatea, discepolo e forse zio di Gesù, avrebbe voluto riportarla al donatore ulteriormente santificata dal sangue di Cristo; il Druido in questione era Merlino, trait d’union tra la religione celtica e quella cristiana (lo stesso che ritroviamo cinquecento anni dopo quale consigliere di Artù?). Comunque sia, le peripezie subite dal Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra variano in modo considerevole a seconda delle varie fonti. Ad ogni modo, secoli dopo, il Graal è, di fatto, perduto. Sulla Britannia si abbatte una maledizione chiamata dai Celti Wasteland (“La terra desolata”), uno stato di carestia e devastazione sia fisica che spirituale.

Per annullare il Wasteland – spiega Merlino ad Artù – è necessario ritrovare il Graal, simbolo della purezza perduta. Uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, Parsifal, ispirato da sogni e presagi, superando una serie di prove, rintraccia Corbenic, il Castello del Graal e giunge al cospetto della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande “Che cos è il Graal? Di chi esso è servitore?”, contravvenendo così al suggerimento evangelico “Bussate e vi sarà aperto”. Il Graal scompare di nuovo. Dopo che il cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende. Finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito e il Wasteland finisce. Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo (o d’aria). Il Graal viene riportato in medio oriente da Parsifal e Galaad. Per secoli non se ne sente più parlare, finché, verso la fine del XII° secolo, esso torna improvvisamente alla ribalta. Come mai? Cos’aveva ridestato l’interesse nei confronti di un mito apparentemente dimenticato? La maggior parte degli studiosi concordano nel ritenere le Crociate l’avvenimento scatenante. A partire dal 1095 molti cavalieri cristiani si erano recati in Terra Santa ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del luogo: sicuramente qualcuna di esse parlava del Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri. Grazie ai Crociati, la leggenda raggiunse l’Europa e vi si diffuse. C’è anche chi ritiene che il Graal sia stato rintracciato dai Cavalieri Templari (v. articolo in fondo alla pagina) e riportato nel vecchio continente. In tal caso vi si troverebbe ancora. Innumerevoli i probabili luoghi in cui sarebbe stato nascosto, molti anche in Italia, Torino, a Castel del Monte, nella nicchia del “Sacro Volto” a Lucca, nella cattedrale di Modena, sul cui portale sono riprodotti i cavalieri di Re Artù, nella cattedrale di Otranto, ove si trova un mosaico raffigurante Artù a cavallo di un gatto selvatico.Uno dei luoghi più accreditati sarebbe la cappella di Rosslyn, costruita proprio dai discendenti dei Templari più di cinque secoli fa in terra di Scozia e resa celebre dal famoso thriller esoterico di Dan Brown “Il Codice da Vinci”, ma prima di lui anche dai ricercatori britannici Knight e Lomas nell’affascinante indagine dal titolo “La chiave di Hiram”.

Non in tutte le tradizioni il Graal è un calice, infatti esso è stato associato anche a un libro scritto da Gesù Cristo alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio .

Intorno al 1210, nel poema “Parzival”, il tedesco Wolfram Von Eschenbach conferì al Graal ulteriori connotazioni, non più una coppa, bensì ” una pietra del genere più puro (…) chiamata lapis exillis. Se un uomo continuasse a guardare( la pietra) per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe”. Il termine lapis exillis è stato interpretato come “Lapis ex coelis”, ovvero pietra caduta dal cielo: e, difatti, Wolfram scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione.

Dunque non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l’ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l’abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. La tradizione sull’esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona dell’Asia, del Nord Africa e dell’Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la “Lampada di Aladino”, il “Vello d’Oro”, l’”Arca dell’Alleanza”).

Lo scrittore inglese Graham Hancock in “Il mistero del sacro Graal. Alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza” (1995) ipotizza che il Graal simboleggi l’Arca dell’Alleanza, costruita dall’antico popolo israelitico per contenere le tavole dei Dieci Comandamenti, venerata nei secoli come simbolo della presenza di Dio sulle terra, dotata di poteri straordinari, inspiegabilmente scomparsa dal Tempio di Salomone nel sesto secolo prima di Cristo, senza lasciare traccia, ma che forse si trova attualmente in Etiopia ad Axum.

Ad ogni modo il Graal, con qualunque cosa si identifichi materialmente, è un oggetto materiale e spirituale insieme.

Per gli antropologi è un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli. Per gli esoteristi Renè Guenon e Julius Evola, il Graal è il cuore di Cristo, potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un esponente. Per gli alchimisti rappresenta la conoscenza e la sua ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell’Elisir di lunga vita. Per Carl Gustav Jung è un archetipo dell’inconscio. Ci credeva e lo fece cercare anche Hitler per il quale era uno strumento magico con cui ottenere il potere assoluto. Per gli autori di romanzi di fantascienza e i fautori dell’ipotesi extraterrestre è un’apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri della fusione nucleare.

E per i giornalisti Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln è ancora un altra cosa. Infatti una delle possibili etimologie di Graal comprende l’attributo “San”: “San Graal” sarebbe l’errata trascrizione di “Sang Real”, ovvero “Sangue Reale” e designerebbe una dinastia (per l’occultista inglese, Dion Fortune, quella dei sacerdoti di Atlantide). La stirpe di cui i ricercatori Baigent, Leigh e Lincoln avrebbero scoperto l’esistenza, dopo un’appassionata ricerca, sarebbe quella di Gesù. Salvatosi dalla crocefissione, avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata la dinastia francese dei Merovingi. L’ipotesi, descritta in “The Holy Blood and the Holy Grail” (Il mistero del Graal, 1982) non si ferma qui. Certe misteriose carte rinvenute nel 1892 dal parroco Berenger Saunière dietro l’altare della chiesa di Rennes-Le-Chateau sarebbero state il punto di partenza per il ritrovamento di altri documenti i quali proverebbero che, lungi dall’essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli eredi diretti di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un’antica società iniziatica denominata Il “Priorato di Sion”. Come i “Superiori Sconosciuti” di Agharti, i membri del Priorato – di cui sono stati Gran Maestri, tra gli altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga, Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau – costituiscono una “Sinarchia” o governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce sulle scelte (politiche o d’altro genere) dei governi ufficiali. Purtroppo – fanno rilevare Baigent, Leigh e Lincoln nel seguito di “The Holy Blood and the Holy Grail”, intitolato “The Messianic Legacy” (L’eredità messianica, 1986) – negli ultimi tempi il “Priorato” si è parzialmente corrotto e alcune sue frange mantengono stretti contatti con la Mafia, la P2 e altre associazioni deviate.

Conclusioni

Il Graal è un oggetto materiale e spirituale insieme. Non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l’ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l’abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. In qualche modo ignoto Gesù ne è entrato in possesso.
Le varie leggende a proposito del Graal concordano nel conferirgli un’origine ultraterrena. Per la tradizione cristiana, il Graal rappresenta l’evangelizzazione del mondo barbaro operata dai missionari, stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un sacerdote, Merlino. Per gli esoteristi Renè Guenon e Julius Evola il Graal è il cuore di Cristo, potente simbolo della Religione Primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un esponente; per gli alchimisti rappresenta la conoscenza, e la sua ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell Elisir di lunga vita.

 

La CornovagliaIMG_7279

La Cornovaglia (cornico Kernow, inglese Cornwall) è una contea inglese e la più piccola non metropolitana, ubicata nella zona sud-occidentale della Gran Bretagna, all’estremità dell’omonima, lunga e vasta penisola, che si protende verso l’Atlantico. Dal punto di vista strettamente geografico la Penisola della Cornovaglia è molto più estesa dell’omonima contea, che infatti costituisce solo la sua estremità più occidentale, mentre l’intera penisola comprende anche l’intera contea del Devon ed una buona parte di quella di Somerset.

La contea di Cornovaglia è una delle sei nazioni celtiche. La lingua locale, oggi riportata in uso, seppur marginalmente, da alcuni appassionati, è imparentata con il gallese ed ancor di più con il bretone.

Il centro amministrativo e l’unica city è Truro, mentre la capitale storica è Bodmin. Comprese le isole Scilly, che si trovano a 45 chilometri dalla costa, la Cornovaglia si estende su una superficie di 3.563 chilometri quadrati. La popolazione supera i 500.000 abitanti. Il turismo è una parte importante dell’economia locale, anche se è la zona più povera del Regno Unito e che fornisce il contributo più basso all’economia nazionale

La storia della Cornovaglia cominciò con le popolazioni pre-romane, che includevano individui di lingua celtica, che si sarebbero sviluppate nel brittonico e nella cornico. Dopo un periodo di dominazione romana, la Cornovaglia tornò indipendente sotto la guida di capi celtici. Dopo aver avuto un’autonomia parziale dal regno d’Inghilterra, fu incorporata nella Gran Bretagna e infine nel Regno Unito. La Cornovaglia compare anche in opere pseudo-storiche o leggendarie come la Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.

Cornovaglia pre-romana

La Cornovaglia e il vicino Devon erano ricchi di stagno, che fu estratto abbondantemente durante l’Età del Bronzo da popolazioni associate con la cultura del vaso campaniforme. Lo stagno è necessario per produrre il bronzo dal rame, e, a partire dal 1600 a.C., la parte occidentale della Britannia si trovò all’interno di un’importante corrente commerciale di esportazione dello stagno in Europa. Ne seguì una grande prosperità (vedi cultura di Wessex).

Evidenze archeologiche che attestano una rottura con la cultura precedente, attorno al XII secolo a.C., hanno fatto ipotizzare a un movimento migratorio o a una vera e propria invasione nella Britannia meridionale. Attorno al 750 a.C. nell’isola iniziò l’Età del Ferro, durante la quale, grazie all’introduzione di attrezzi di ferro e asce, si svilupparono le pratiche agricole. La costruzione di fortezze in collina raggiunse l’apice in questo periodo. Tra il 900 e il 500 a.C. la cultura e i popoli celtici si diffusero in tutte le isole britanniche. La prima menzione che si ha nelle fonti classiche della Cornovaglia viene da uno storico greco della Sicilia, Diodoro Siculo (circa 98–ca. 30 a.C.) che probabilmente cita o parafrasa il geografo greco di IV secolo Pitea di Marsiglia, che veleggiò verso la Britannia. Secondo Strabone erano i fenici a commerciare con gli abitanti della Cornovaglia.

La Cornovaglia continuò a fungere da principale fornitore di stagno per le civiltà mediterranee, tant’è che i romani chiamavano le isole britanniche con il nome di “isole dello stagno”, mutuando questa definizione dai mercanti fenici che commerciavano con la Britannia attraverso le colonie cartaginesi in Spagna. Esiste una forte convinzione locale secondo cui alcuni abitanti della Cornovaglia discenderebbero da coloni fenici.

Quando fecero la loro comparsa le fonti classiche la Cornovaglia era abitata da tribù di lingua celtica. I romani conoscevano l’area come Cornubia, nome correlato con le parole Kernow o Curnow (parole corniche per Cornovaglia). Si è anche ipotizzato che questo nome potrebbe derivare dalla tribù celtica dei Cornovi, che, stando ai romani, vivevano nelle odierne contee dello Staffordshire settentrionale, del Shropshire e del Cheshire, nelle Midlands Occidentali.

Un popolo con questo nome è conosciuto dai romani nell’area tra il Powys e il Shropshire, che si trovano nelle odierne Galles e Inghilterra.

Una teoria poco probabile suggerisce che un contingente fu inviato nella parte sud-occidentale del paese per regnare la terra e bloccare gli invasori irlandesi, teoria però smentita da Philip Payton nel suo libro Cornwall – A History, 1996. Una situazione simile ci fu nel Galles settentrionale. Tuttavia, non esistono prove a supporto di questo movimento verso ovest e il toponimo cornico di Durocornavium (forse Tintagel), riportato da Tolomeo farebbe pensare che lì ci fosse una tribù indipendente denominata “Cornovi” o “gente del corno”. Forse erano una sub-tribù del più grande popolo dei dumnoni, che, a quel tempo, occupava gran parte del territorio occidentale dell’isola.

Cornovaglia romana

Durante la dominazione romana, la Cornovaglia rimase un po’ fuori dalle principali correnti della romanizzazione. Le principali strade costruite dai conquistatori non si estendevano più a ovest di Isca Dumnoniorum (Exeter). Inoltre, lo stagno britannico fu ampiamente soppiantato da quello economicamente più conveniente che proveniva dalla Spagna. È anche possibile che la Cornovaglia non sia mai stata conquistata dai romani e che non cadde mai sotto il loro diretto controllo.

Secondo Léon Fleuriot, comunque, la regione rimase strettamente integrata con i territori vicini grazie alle vie di comunicazione marittime. Secondo Fleuriot, la strada che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel serviva, al tempo dei romani, come una conveniente via per i commerci tra la Gallia (soprattutto l’Armorica) e le aree occidentali della Britannia (Fleuriot 1982:18).

Dopo l’abbandono della zona da parte dei Romani la zona rimase relativamente autonoma fino ad essere  conquistata da popolazioni inglesi provenienti da nord. Monaci provenienti dall’Irlanda cercarono di evangelizzare il territorio costruendovi dei monasteri o semplici missioni; tra di essi spicca la figura di San Colombano evangelizzatore d’Europa.

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Dopo il ritiro dei romani dall’isola, gli Anglosassoni conquistarono gran parte della Britannia orientale, mentre la Cornovaglia restò sotto il controllo dei sovrani romano-britannici locali e delle élite celtiche. Sembra che la Cornovaglia fosse una divisione della tribù dei Dumnoni (il cui centro tribale era nel Devon), anche se all’inizio non ci fu una vera e propria distinzione tra il regno di Cornovaglia e il regno di Dumnonia. Infatti, i loro nomi appaiono ampiamente interscambiabili con il latino Dumnonia per Cornovaglia e l’anglosassone Cornweal per indicare gli abitanti, cioè i gallesi del Corno” , perché il prefisso Corn-, che veniva dal celtico, significava proprio corno, indicando, ovviamente, la conformazione geografica della zona e forse anche la presenza della popolazione pre-romana dei cornavi.

È probabile che almeno fino alla metà dell’VIII secolo i sovrani della Dumnonia furono gli stessi della Cornovaglia. Nella leggenda arturiana Gorlois (Gwrlais in gallese), l’omonimo protagonista ha il titolo di “duca di Cornovaglia”, anche se non ci sono prove sufficienti a supporto di ciò. Potrebbe essere stato un sovrano secondario nella Cornovaglia. Ci fu, di certo, almeno un re, Mark di Cornovaglia. Dopo aver perduto quello che oggi è il Devon, i sovrani britannici furono definiti re di Cornovaglia, oppure i re dei gallesi occidentali.

Questo periodo è anche conosciuto come l’età dei santi (vedi cristianesimo celtico), in cui ci fu anche un revival dell’arte celtica che si diffuse dall’Irlanda e dalla Scozia in Gran Bretagna, in Bretagna e oltre. Santi come Piran, Meriasek o Geraint esercitarono una forte influenza religiosa e politica, riuscendo a mettere in stretta relazione la Cornovaglia con l’Irlanda, la Bretagna, la Scozia e il Galles, dove molti di loro si erano formati o avevano costruito monasteri. Alcuni di questi santi furono spesso strettamente legati ai sovrani locali e in alcuni casi certi santi furono anche re. Un regno di Cornovaglia emerse attorno al VI secolo, come regno dipendente dalla Dumnonia (di cui poi prese il posto). La situazione politica era molto fluttuante, ragion per cui molti re sembrano aver esteso la loro sovranità anche al di là del canale di Bretagna.

Nel frattempo i sassoni del Wessex si stavano rapidamente avvicinando da est e stavano schiacciando il regno della Dumnonia. Nel 721 furono sconfitti a “Hehil” (vedi Annales Cambriae), anche se persero ben presto la maggior parte dei loro territori. Nell’838, nella battaglia di Galford, “gli uomini della Cornovaglia”, alleatisi coi danesi, furono sconfitti da Egbert del Wessex (vedi Cronache anglosassoni)

Gli Annales Cambriae ricordano che in un’altra battaglia, combattuta attorno all’875, un re Doniert o Dungarth di Cerniu (Cornovaglia) annegò e che da questo momento la Cornovaglia fu soggetta del suo regno sul fiume Tamar, massacrando molti di quelli ancora presenti a est. Non si sa se il confine rimase al Tamar o no.

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La Cornovaglia finì sotto il controllo inglese, seppure con una certa autonomia, dai sassoni prima e dai normanni poi. Il cornico continuò a essere parlato, specie nell’area centro-occidentale del paese, diventando una lingua con le proprie particolarità.

I normanni deposero l’ultimo eorlderman di Cornovaglia, Cadoc, nel 1066, sostituendolo con uno dei loro sostenitori, Roberto, conte di Mortain. Molti di coloro che in Cornovaglia ebbero il potere dai normanni erano bretoni che parlavano bretone e che crearono una successione di earl di Cornovaglia (dal 1068 al 1336). Nel 1336 Edoardo, il principe Nero divenne “duca di Cornovaglia”. Nel XIV secolo emerse una letteratura cornica che aveva il suo centro nel Glasney College (la terza più antica università britannica).

 

Periodo dei Tudor e degli Stuart

La tendenza generale alla centralizzazione amministrativa sotto la dinastia Tudor cominciò a insidiare la condizione speciale della Cornovaglia. Per esempio, sotto i Tudor, le leggi non furono più diverse per l’Inghilterra e per la Cornovaglia. Nel 1497, tra i minatori della Cornovaglia, esplose una ribellione contro l’innalzamento delle tasse voluta da Enrico VII per fare guerra alla Scozia e che si diffuse in tutto il paese. I ribelli marciarono su Londra, guadagnando continui sostenitori, ma furono sconfitti nella battaglia di Deptford Bridge.

Nel 1549 esplose la Rivolta del libro di preghiere, che si opponeva all’introduzione, dopo la Riforma protestante del libro unico di preghiere. All’epoca, infatti, la Cornovaglia era principalmente cattolica. L’introduzione di questo libro con l'”Atto di uniformità” creò particolare scontento in questa regione, perché il testo era solo in inglese, mentre all’epoca molti cattolici parlavano il cornico e non l’inglese. Si pensa che durante questa rivolta sia stato ucciso circa il 20 per centro della popolazione della Cornovaglia. Ciò fu uno dei fattori che più ha contribuito al declino del cornico.

La Cornovaglia svolse un ruolo significativo durante la guerra civile inglese, dato che in un sud-ovest generalmente parlamentarista era una zona fedele alla corona. Per tre volte le forze parlamentari invasero la regione, dove furono anche combattute le due battaglie di Lostwithiel (1642 e 1644). Va anche ricordato l’assedio del Castello di Pendennis, a Falmouth. La difesa della Cornovaglia di Jonathan Trelawny, vescovo di Exeter, che era uno dei sette vescovi imprigionati da Giacomo II nel 1688, fu commemorata nella ben nota “Canzone degli uomini dell’ovest”.

L’attività estrattiva (1800-1900)

I secoli diciottesimi e diciannovesimi hanno visto un fiorire dell’industria estrattiva in Cornovaglia e nel Devon. L’aspetto del territorio è stato completamente modificato da questa nuova fonte industriale e l’UNESCO, nel 2006, ne ha riconosciuta l’importanza aggiungendo il territorio ai Patrimoni dell’umanità con il nome di Paesaggio minerario della Cornovaglia e del Devon occidentale.

 

Cose da fare in Cornovaglia…

  1. Visitare Port Isaac

Probabilmente Port Isaac è il villaggio di pescatori più filmato di tutta la Cornovaglia, però la fama cinematografica e televisiva non gli ha tolto la genuinità tipica dei paesini costieri britannici. Gli appassionati di film e telefilm riconosceranno in questo luogo Port Wenn, dove Doc Martin fa il medico condotto, oppure la location del film “L’Erba di Grace”.

  1. Mangiare il Cornish Pasty

Non si può dire di aver conosciuto davvero la Cornovaglia senza aver mai assaggiato un Cornish Pasty, il celeberrimo fagottino di pasta cotto al forno, ripieno di manzo tritato e verdure, la cui origine si perde nei lontani tempi in cui questa era una terra di pirati e contrabbandieri. Il Cornish Pasty è uno dei capisaldi della gastronomia britannica, perciò non comprarlo al supermercato ma cercalo in uno dei tanti posti dove la preparano ancora in modo tradizionale.

 

  1. Andare alla ricerca dei fantasmi

In Gran Bretagna i fantasmi sono un classico: visitando i luoghi più infestati della Cornovaglia avrai certamente l’occasione di incontrane qualcuno e di fare esperienze soprannaturali. Una delle zone più famose in questo senso è la bellissima Chapel Street, la via più antica di Penzance, dove gli spettri dimorano al The Regent, una ex casa di tolleranza risalente a 400 anni fa.

  1. Scoprire gli antichi monumenti

La Cornovaglia è una terra abitata fin dalla preistoria. Qui troverai numerosi siti archeologici e non avrai che l’imbarazzo della scelta tra standing stone (megaliti), stone circle (circoli di pietre) e altre vestigia dalle lontane origini e dagli scopi misteriosi. Il monumento antico più famoso della Cornovaglia è forse la strana pietra forata chiamata Men-an-Tol.

  1. Visitare Saint Ives

Saint Ives è considerata un po’ come la Saint-Tropez della Gran Bretagna e durante la stagione estiva si riempie di barche a vela, turisti e mondanità. Oppure puoi visitarla in settembre, quando la sua vita ritorna alla normalità. In ogni stagione Saint Ives regala emozioni davvero magiche.

 

  1. Cercare il tuo panorama preferito

La Cornovaglia è una terra meravigliosa fatta di promotori, scogliere a picco sull’oceano Atlantico e splendide spiagge. Perché non prendersi il tempo per andare alla ricerca del paesaggio migliore? C’è chi dice che sia The Rumps (dalle parti di Polzeath), oppure la brughiera di Bodmin. A te la scelta: sappi che in Cornovaglia ogni panorama è il migliore che esista, devi solo trovare il tuo preferito.

 

  1. Passare una giornata in spiaggia

Porthcurno Beach

In estate la Cornovaglia è una destinazione perfetta per andare in spiaggia e potrai anche immaginare di essere un villeggiante d’inizio ‘900. Qui ci sono spiagge per tutti gusti, dall’ampia distesa sabbiosa alla caletta nascosta. Ad esempio possiamo consigliarti Porthcurno Beach, che si trova ai piedi di grandi scogliere, oppure Kynance Cove, forse il luogo più fotografato della regione. Non scordare la protezione solare.

  1. Bere una birra al Rashleigh Inn

La Gran Bretagna è la patria dei pub e la Cornovaglia non fa eccezione. Il Rashleigh Inn di Polkerris sorge in una bellissima zona e si trova praticamente in riva al mare: infatti è soprannominato the inn on the beach (la locanda sulla spiaggia). È uno dei pub più famosi della regione, dove troverai ottima birra e un ampio menu con pesce e specialità locali.

 

St Michael’s MountIMG_3656

St Michael’s Mount (Monte di San Michele) è un’isoletta situata davanti al paese di Marazion, lungo la costa meridionale della Cornovaglia. La sua particolarità sta nel fatto che si tratta di una cosiddetta isola tidale, che durante la bassa marea è collegata alla terraferma. Sicuramente avrai notato la similitudine con l’omonimo Mont Saint-Michel, altra celebre isola tidale che si trova in Normandia. In effetti le due località sono storicamente collegate, visto che nel XI secolo l’isola della Cornovaglia fu donata da re Edoardo il Confessore all’ordine monastico dell’isola francese.

St Michael’s Mount non è solo una curiosità geografica. Infatti qui sorgono un vero e proprio villaggio, un magnifico castello (residenza della famiglia St Aubyn) costruito sulla cima del monte, e una chiesa medievale risalente al XV secolo. Inoltre quest’isola è particolarmente nota per i suoi giardini, nei quali crescono anche piante di habitat subtropicali grazie al particolare microclima locale donato dalla Corrente del Golfo e dalla conformazione rocciosa del luogo.

Potrai raggiungere St Michael’s Mount a piedi durante la bassa marea, attraversando la stradina che la collega alla terraferma, oppure in barca quando c’è l’alta marea. Esplora il pittoresco villaggio e il suo porticciolo, visita il suo castello, ammira i suoi incredibili giardini e lasciati avvolgere dalla sua atmosfera unica: questa è una tappa imperdibile per ogni viaggiatore che si reca in Cornovaglia.

Land’s End (in cornico Penn an Wlas) è un capo della penisola di Penwith, nella contea della Cornovaglia (Inghilterra), celebre per essere il punto più a sud-ovest d’Inghilterra e della Gran Bretagna. Si trova a 1400 chilometri di distanza dall’estremo nord-est dell’isola (John o’ Groats), situato in Scozia.

Land’s End è il punto più occidentale della terraferma d’Inghilterra. Fa parte del territorio della parrocchia civile di Sennen. Non risulta anche il punto più occidentale di tutta l’isola della Gran Bretagna in quanto Corrachadh Mòr, in Scozia, si trova 36 km più a ovest.

Le Longships, un gruppo di isolotti rocciosi, sorgono a pochi chilometri di distanza al largo di Land’s End, mentre le Isole Scilly si trovano circa 45 km a sud-ovest; si suppone che la mitica isola perduta di Lyonesse (a cui si fa riferimento nella letteratura Arturiana) fosse ubicata tra le Scilly e la terraferma.

L’area del promontorio è stata designata quale Important Plant Area da parte dell’organizzazione Plantlife, in ragione delle rare specie botaniche.

Storia

Nell’anno 1987 Peter de Savary acquistò Land’s End per quasi 7 milioni di sterline da David Goldstone. Egli fece costruire due nuovi edifici e gran parte dello sviluppo dell’attuale parco a tema si deve alla sua iniziativa; nel 1991 vendette sia Land’s End sia John o’ Groats all’uomo d’affari Graham Ferguson Lacey. Gli attuali proprietari hanno acquistato Land’s End nel 1996, costituendo una società denominata Heritage Attractions Limited. Le attrazioni e il parco a tema includono un campo giochi per bambini; due volte la settimana nel mese di agosto vengono organizzati spettacoli pirotecnici. Nei pressi sorge il Land’s End Hotel.

Nel mese di maggio 2012, Land’s End è stato al centro dell’attenzione mondiale in quanto punto di partenza della staffetta della torcia olimpica dei Giochi della XXX Olimpiade

St.Ives

St. Ives è una cittadina di mare molto pittoresca che si trova sulla costa settentrionale della Cornovaglia che nel 2007 è stata nominata dal quotidiano inglese The Guardian come la miglior città rivierasca d’Inghilterra.IMG_3251

Un luogo suggestivo, dove l’andamento della marea batte un tempo a parte. Quando le barche restano in secca St. Ives si trasforma in una cartolina bizzarra, con i legni inclinati conficcati nella sabbia assetati di acqua. Questo luogo è particolarmente amato dagli artisti per il piccolo porto, le spiagge sabbiose, i profondi dirupi, ma soprattutto per la sorprendente luce che la avvolge.

La piccola località nacque sulla fortunata pesca alle sardine che diede una certa prosperità relativa al luogo. Solo dopo, solo nel novecento, arrivarono gli artisti in cerca di risposte e ispirazioni da quel pittoresco connubio.

La via principale di St. Ives è Fore Street parallela al lungomare. Nei pressi della Fore Street si trova l’atelier della scultrice Barbara Hepwort, esponente di spicco dell’astrattismo insieme a Henry Moore e Ben Nicholson negli anni Trenta. Dopo la scomparsa della scultrice, morta in un incendio scoppiato nel suo laboratorio nel 1975, il luogo e il giardino sono stati trasformati nel Barbara Hepworth Museum & Sculpture Garden.

Nella zona nord dell’abitato si trova la St. Ives Tate. Si avete letto bene, in questo villaggio si trova una sede distaccata della Tate Gallery di Londra. Aperta nel 1993 in un moderno edificio caratterizzato da ampie vetrate, progettato dagli architetti Evans e Shalev, la Tate di St. Ives espone opere di Ben Nicholson, Barbara Hepwort, Naum Gabo, Terry Frost e di altri artisti locali.

Nella periferia di St. Ives si può visitare il Leach Pottery, dedicato ai lavori d’ispirazione giapponese di uno dei più rappresentativi ceramisti inglesi, Bernard Leach. Le spiagge di St. Ives e quelle nelle immediate vicinanze sono molto belle: Porthmeor sulla costa settentrionale frequentata molto dai surfisti; la piccola baia di Porthgwidden; la lunga spiaggia di Porthminster a sud,  Carbis Baya a sud-ovest, adatta alle famiglie.

Da visitare il caratteristico villaggio di Zennor, dove lo scrittore inglese D.H. Lawrence scrisse “Women in Love”, raggiungibile anche a piedi, seguendo la costa, in circa tre ore di passeggiata (agevole).

TATE GALLERY

Porthmeor Beach – St. Ives – Cornwall – TR26 1TG

Tel: +44 1879 796226

E-mail: information@tate.org.uk

Orari di visita:

Novembre-febbraio da martedì a domenica h 10.00-16.30

marzo-ottobre tutti i giorni h 10.00-17.30

Barbara Hepworth Museum & Sculpture Garden

Barnoon Hill – St Ives – Cornwall – TR26 1AD

Tel: +44 1879 796226

Orario di visita:

novembre-febbraio da martedì a domenica h 10.00-16.30

Marzo-ottobre tutti i giorni h 10.00-17.30

 

Tra Tor e Cavalli del Dartmoor National ParkIMG_5217

Il Parco Nazionale di Dartmoor occupa quasi tutta la parte occidentale del Devon. E’ una regione collinare, ricca di leggende e di storia. Il nome Dartmoor è associato ai pony, l’animale simbolo del parco, che compare sul logo del Dartmoor National Park, qui vive ancora allo stato brado. Il fiume Dart attraversa il parco, al quale dà il nome, ed ha qui le proprie sorgenti.IMG_7187

Questa zona, anticamente riserva di caccia reale, si estende su 945 km2 ed è tra le più piovose d’Europa. I suoi due punti più alti sono l’High Willhays (621 m) e lo Yes Tor (619 m). Circa il 15% della superficie totale è usata per le esercitazioni militari dal Ministero della Difesa ed è quindi di difficile accesso. Quest’area è stata dichiarata parco nazionale nel 1949. Caratteristiche del paesaggio sono i Tor, imponenti rilievi granitici che si innalzano nella brughiera in forme spesso bizzarre.IMG_7188

In molte località i massi vennero radunati, in periodo preistorico, per costituire delle tombe megalitiche, tumuli e cerchi di pietre. Le impressionanti similitudini tra i circa 80 cerchi e file di pietre disseminati sull´altopiano di Dartmoor e Stonehenge, distante 180 km a est, suggeriscono che questi monumenti potrebbero essere opera dello stesso “popolo”, inoltre, l´allineamento delle pietre con i solstizi d´estate e d´inverno sembra identica a quella di Stonehenge. Gran parte di questo territorio è ricoperto dalla brughiera costantemente spazzata dal vento e cosparsa di arbusti, soprattutto ginestra ed erica, tradizionalmente riservata a pascolo ad eccezione della zona sud-orientale, che offre un paesaggio meno selvaggio con valli boscose e villaggi di case col tetto di paglia.
Pur essendo un parco nazionale vi si trovano piccole città, molti edifici e chiese, anche se l’architettura più famosa è il carcere di massima sicurezza di Princetown. In una località vicina a Tavistock, Crowndale, in passato uno dei maggiori produttori di rame, qui nacque il famoso pirata Sir Francis Drake.IMG_7186

 

Dozmary pool

Uno strano lago formato nel periodo post-glaciale che si trova a circa 17 km dal mare in Cornovaglia, l’unico lago naturale di acqua dolce della Cornovaglia. Si trova nel Bodmin Moor a circa 300 metri sul livello del mare.

La leggenda dice che questo è il famoso lago dove fu gettata la spada Excalibur che la Dama del Lago prese. Si diceva anche che il lago non avesse fondo e portasse, tramite una serie di tunnel direttamente al mare.

Bambina inglese trova la sua spada Excalibur in un lago leggendario.

La piccola Matilda Jones ha ritrovato Excalibur nel lago inglese dove la spada fu restituita alla Dama del Lago. Leggi la simpatica storia del ritrovamento.

Si chiama Matilda Jones ed è la bambina protagonista di una vera e propria favola mediatica. La sua famiglia non immaginava di certo che una tranquilla giornata al lago li avrebbe trasformati nei protagonisti di un nuovo capitolo della saga di Re Artù. Matilda ha solo 7 anni e ha avuto la fortuna di trovare la sua Excalibur sul fondo del leggendario lago Dozmary Pool, in Cornovaglia.

Daily Mail

Matilda Jones con la spada ritrovata

Secondo la leggenda la Dama del Lago donò ad Artù la sua Excalibur, la spada il cui nome significa “in grado di tagliare l’acciaio”. Dopo essere stato ferito a morte nella battaglia di Camlann, Artù ordinò al cavaliere Sir Bedivere di restituire la spada alla sua precedente proprietaria. Sembra che il cavaliere abbia assolto il suo compito gettando Excalibur nel Lago Dozmary Pool. Dopo il lancio, una misteriosa mano è fuoriuscita dalle acque del lago per portare sul fondo la spada.

Mentre faceva il bagno, Matilda si è accorta proprio di un luccichio sul fondo del lago. La bambina ha subito avvertito i genitori e il padre, Paul Jones, ha raccontato che inizialmente hanno pensato tutti a un errore. Poi Paul si è tuffato e ha recuperato la spada lunga 1,20 metri. Matilda sarà dunque la nuova proprietaria di Excalibur. E che la spada sia sua non c’è da dubitarne, dato che è alta esattamente quanto la sua nuova proprietaria. La futura regina d’Inghilterra?

 

Salisbury

Salisbury fa parte di quel suggestivo percorso turistico del sud ovest dell’Inghilterra che comprende anche Stonehenge, che dista solo 14 chilometri.  La città che ha circa 42000 abitanti, a soli 140 km da Londra è celebrata in molti antichi libri e in vecchie canzoni. Bagnata dalle acque del Nadder, del Bourne e dell’Avon, Salisbury è famosa in tutto il mondo per la sua bellissima cattedrale, la più alta del Regno Unito, costruita nel 1220. Originata da una roccaforte romana conosciuta con il nome di Old Sarum, Salisbury diventò più avanti un importante centro commerciale anche grazie alla costruzione di varie infrastrutture come il ponte sul fiume Avon e da qui l’edificazione di un importante mercato, il Market Square, nel XIII secolo.IMG_6146

Si ritiene che Old Sarum sia stato primo luogo visitato in Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore dopo la battaglia di Hastings nel 1066.

Salisbury offre numerosi monumenti da ammirare, primo tra tutti la famosa Salisbury Catheadral. La Cattedrale di Salisbury, edificata in ben 38 anni tra il 1220 e il 1266, è una chiesa perfettamente conservata in stile Gotico primitivo, con un’unica addizione nella ‘Tower’edificata inizialmente nel 1285-1290 e continuata con l’aggiunta della guglia prima del 1315 (di ben 123 metri). La cattedrale viene descritta come unica tra le cattedrali evangeliche del medioevo nel Regno Unito, fonte di forti pellegrinaggi dall’Inghilterra e dal resto d’Europa. Al suo interno, il visitatore rimane estasiato dalla grandezza e dall’imponente semplicità secolare della sua navata a ricordare la potenza di Dio, che termina nella bellissima Trinity Chapel. Nella stessa navata sul lato sud troviamo la scultorea tomba del Vescovo Joscelyn e quindi proseguendo, il reliquiario di Saint Osmund, la Tomba diWilliam Longespée Conte di Salisbury a cui si deve l’edificazione della Cattedrale stessa, le varie tombe di Sir Richard Mompesson, di Edward Seymor e di Lady Catherine Grey, mentre nella parte del transetto a nord, si ammira la maestosa statua di Sir Richard Colt Hoare.

Da non perdere altri pezzi rari della cattedrale, il suo magnifico orologio, conosciuto per essere il più antico orologio funzionante dell’Inghilterra e d’Europa, l’Altare Alto (The High Altar) nella Trinity Chapel a Est con la bellissima finestra conosciuta con il nome di Prisoner of Conscience del Gabriel Loire, l’Icona del Sudan nella cappella di St Edmund, le magnifiche decorazioni della volta nella parte nord della cappella di Audley, e altre ancora. Dall’annesso Chiostro si accede a un altro sito, splendido per la sua imponenza storica e architettonica. Si tratta della Sala Capitolare edificata tra il 1263 e il 1284, in perfetto stile gotico, ospitante un rarissimo documento, le quattro copie originali della Magna Carta del 1215.

La città di Kingsbridge descritta né “I pilastri della terra” è immaginaria, nonostante in Gran Bretagna esistano vari luoghi con questo nome.

Ken Follett colloca la sua Kingsbridge più o meno dove oggi sorge la cittadina di Marlborough, a nord di Salisbury e Winchester, nel sud dell’Inghilterra.

Per descrivere l’architettura della cattedrale di Kingsbridge, Ken Follett si ispira alle cattedrali di Salisbury e Wells.

L’opera compiuta assomiglierà strutturalmente alla cattedrale di Salisbury, con file di alte finestre dai bellissimi vetri decorati e aguzzi pinnacoli che svettano diritti verso il cielo.

Nei dintorni della Cattedrale troviamo diversi e bellissimi edifici isolati dalla cinta muraria e dalle sue antiche porte. La parte all’interno delle mura viene denominata ‘The Close’e qui si trovano il Museo di Salisbury & South Wiltshire annoverato tra i monumenti storici dell’Inghilterra (Grade 1) e conosciuto a livello internazionale, il quale ospita importanti collezioni archeologiche (tra cui alcuni reperti provenienti dalla vicina Stonehenge e Old Sarum roccaforte romana da cui ha preso origine Salisbury, anche detta per questo New Sarum), opere d’arte di notevole bellezza e documenti di storia locale. Nell’interessante Galleria dei Costumi (Costume Gallery) troviamo una ricca collezione di costumi e tessili della zona. Il Museo del Reggimento Reale del Duca di Edinburgo (Museum of the Duke of Edinburgh’s Royal Regiment) edificato in onore delle famose Giubbe Rosse. Si ammirano inoltre gli splendidi palazzi d’epoca, come la Mompesson House e la Malmesbury House, il College of Matrons e il Palazzo Vescovile.

Salisbury conosciuta nel mondo intero per la sua Cattedrale offre altri importanti monumenti storici al visitatore, tra questi ricordiamo il Guildhall, il municipio settecentesco, i palazzi d’epoca medievale di Port e Russel, la Chiesa di St. Thomas’s del XV secolo che ospita il bellissimo dipinto del Giudizio Universale, del XV secolo, il famoso edificio conosciuto con il nome di The Old George Mall, la bella libreria d’antiquariato chiamata The Beach’s Bookshop situata in una casa del XIV secolo, il Mitre Corner del XV secolo, l’antico King’s Arms Hotel, il Red Lion Hotel e il Trinity Ospital, fondato nel 1379.

Nel vecchissimo pub The Haunch of Venison fino a non molto tempo fa si trovava la mano mummificata di un baro che era stato scoperto (è stata rubata di recente). Nello stesso pub Winston Churchill e Dwight Eisenhower si incontrarono in una piccola stanzetta sul retro mentre pianificavano lo sbarco in Normandia.

 

Winchester

Nella Contea dell’Hampshire, a sud-ovest rispetto a Londra, sorge Winchester, cittadina di circa 40.000 abitanti fondata dagli antichi romani. Il periodo di massimo splendore di Winchester fu senza dubbio l’età medievale, intorno all’anno mille, quando fu la capitale del regno di Wessex e venne scelta per ospitare le cerimonie di incoronazione dei re. Nonostante gli antichi fasti siano superati, ne rimane un vivo ricordo grazie alle numerose testimonianze storiche che accolgono il visitatore, pronte a lasciarlo a bocca aperta e a gettarlo in un vero e proprio viaggio nel passato.

Un vero e proprio capolavoro architettonico, ineguagliata o quasi nell’intera Gran Bretagna, è la maestosa Winchester Cathedral, edificata in più riprese e realizzata in impeccabile ed elegante stile gotico-normanno.  Iniziata nel lontano 1079, la Cattedrale porta i segni del passaggio Normanno specialmente nella cripta e nel transetto, mentre la grande navata venne ristrutturata nel XIV secolo, diventando la più lunga navata di Cattedrale in stile gotico. Oltre alle numerose opere d’arte, gelosamente custodite da questo imponente scrigno millenario, la chiesa comprende all’interno un’importante biblioteca, visitabile insieme al resto dell’edificio ogni giorno dell’anno, dalle 8.30 del mattino alle 6 del pomeriggio, mentre le visite guidate sono dal lunedì al sabato e si svolgono dalle 10 alle 15. La visita guidata è compresa nel prezzo del biglietto d’ingresso, che costa 5 pounds per gli adulti, 4 pounds per gli studenti, ed è gratuito per i ragazzini al di sotto dei 16 anni.

Dal lunedì al venerdì, fatta eccezione per il mercoledì e i periodi delle vacanze scolastiche, il coro della cattedrale può essere ascoltato intorno alle 17.30. Un’altra affascinante attrattiva è il Great Hall, ovvero ciò che rimane del leggendario castello fatto erigere da Guglielmo il Conquistatore e che oggi ospita la celebre e ambitissima Tavola Rotonda di Re Artù (almeno così dicono). Situato in cima all’High Street e mantenuto in buono stato dall’Hampshire County Council, il castello è stato in passato uno dei più imponenti dell’Inghilterra e oggi è sicuramente il più bello che sia sopravvissuto al logorio dei secoli.

Il maniero è visitabile ogni giorno dell’anno dalle 10 alle 17, tranne nel giorno di Natale e del Boxing Day, e su richiesta è possibile usufruire di una visita guidata. La storia ricca e appassionante di Winchester viene ripercorsa nel City Museum, un museo che riporta in vita la città dall’epoca romana sino al regno di Re Alfredo, che la scelse come sede del potere, e ancora proseguendo fino al periodo Anglo-Sassone e Normanno, per terminare con la graziosa cittadina che Winchester era già divenuta nel XVIII secolo.

Gli amanti della scienza e della tecnologia non potranno farsi scappare l’Intech Science Centre, un centro scientifico con ben 90 diverse attrazioni esposte e attività dedicate a tutta la famiglia. Oltre ad assistere agli esperimenti scientifici e a rimanere stupiti di fronte a qualche miracolo della tecnica, qui ci si può rilassare nell’area picnic o dei negozi, o si possono organizzare feste e varie attività ricreative. All’interno del centro, nel marzo del 2008 è stato aperto il più grande Planetario del Regno Unito, visitabile unitamente al resto delle esposizioni pagando un biglietto di 2 pounds.

Da vedere poi è il St.Cross Hospital, tra le prime istituzioni di carità del paese che ancora oggi, come in passato, offre cure e ospitalità ai più bisognosi. La bellissima costruzione, incastonata nel verde di un sereno scenario degno di un dipinto, comprende edifici del 1132, una sala medievale, una torre del XV secolo e un chiostro risalente all’età dei Tudor.

Tra i festival e gli eventi a cui Winchester fa da sfondo ricordiamo il May Fest, quattro giorni pulsanti di musica, canti e balli nelle strade e nei locali. Il festival si svolge verso la metà del mese di maggio ed ha ospitato, di anno in anno, ospiti sempre più famosi e importanti. La maggior parte dei concerti è gratuita e diverse esibizioni si svolgono nella Guildhall, nelle Lawrence’s Church, nella High Street o nella piazza. L’Art and Mind Festival si svolge a metà giugno e dura un paio di giorni, durante i quali si sperimentano i più bizzarri rapporti tra le varie forme d’arte, lasciando ampio spazio alla fantasia e alla creatività, scegliendo di anno in anno un tema diverso e sempre più stimolante.

In luglio si tengono il Winchester Hat Fair, che dura tre giorni e consiste in una variegata e colorita rassegna di esibizioni di artisti di strada, e il Winchester Festival, che celebra la bellezza di teatro, letteratura, pittura e musica in dieci giorni di festa e spettacoli.

 

Cosa mangiare e bere

La Cornovaglia propone un’ottima cucina, con prodotti freschi e locali. Si passa dal pesce fresco, che viene pescato proprio in queste acque, alla carne allevata fra le vaste vallate. Non perdetevi i tortini Stargazy che sono ripieni di pesce, originari della cittadina di Mousehole.

Il Cornish Pasty

E’ considerato un piatto unico molto sostanzioso e diffuso come street food un po’ ovunque in Inghilterra. Tuttavia il fagottino ripieno di carne, cipolle e patate è molto più che semplice cibo da strada, è in grado di raccontare la storia e il vissuto di un’intera comunità.

Cornish Pasty

Considerato il piatto maggiormente rappresentativo della Cornovaglia, il Cornish Pasty è un fagottino di pasta frolla salata, di sfoglia o di pane a forma di mezzaluna e riempito con carne, patate, cipolle e rutabaga o navone, più conosciuta come rapa svedese perché diffusa nel nord Europa. Una volta chiuso, viene condito con sale e pepe prima di essere cotto in forno.

Vagamente simile alle plaziche rumene e austriache, il cornish pasty ricorda anche le panadas sarde e – secondo alcuni – potrebbe derivare dalla palacinta, un tipico alimento dei legionari romani.

Cornish Pasty, storia e ricetta

Il nome cornish pasty è stato utilizzato per la prima volta nel 1860 ma le sue origini sono molto più antiche nonostante le informazioni in tal senso siano poche e incerte.

Nel 2006, un ricercatore del Devon ha scoperto la prima ricetta codificata risalente al 1510, in cui era calcolato il costo di un pasticcio di selvaggina; ciò ha fatto presumere che la prima data precisa sul cornish pastry fosse questa e non il 1746 come si riteneva fino a quel momento.

In realtà i pasties sono menzionati nei libri di cucina tradizionale di varie epoche e non solo in essi. Le prime ricette pare risalgano al 1300 ma riferimenti importanti si trovano già in una carta risalente al XIII secolo, rilasciata da Enrico III alla città di Great Yarmouth. In essa si legge come la città fosse tenuta a inviare annualmente al sovrano, per il tramite del signore del castello di East Carlton, 100 aringhe cotte e posizionate all’interno di 24 pasticci. È inoltre documentato che, nel 1465, circa 5500 pasticci di cervo furono serviti a una grande festa organizzata in onore di George Neville, arcivescovo di York e cancelliere d’Inghilterra.

Di certo c’è che inizialmente i pasties venivano serviti nelle mense dei reali e consumati unicamente dalla nobiltà. A questo riguardo disponiamo della testimonianza di un panettiere che, in una lettera degli inizi del 1500 destinata a Jane Seymour – terza moglie di Enrico VIII – si dice speranzoso che il pasticcio inviato a corte sia giunto intatto a differenza di quanto accaduto in precedenza.

Dalle mense reali alla merenda dei minatori

Solo in seguito, tra il XVII e XVIII secolo, i pasties divennero popolari anche presso le classi meno abbienti e soprattutto tra i minatori che nel 1800 affollavano le miniere di rame e di stagno della contea. Essi, infatti, li adottarono come cibo quotidiano perchè costituivano un pasto semplice e completo allo stesso tempo, facile da trasportare e da mangiare con le mani, in grado di garantire il giusto apporto di proteine, verdure e carboidrati, utile a supportare un lavoro faticoso. Posizionando poi il pasticcio sulla pala posta a sua volta sopra una candela, lo si poteva scaldare agevolmente.

Le mogli dei minatori erano solite farcirli generosamente con un ripieno di carne da una parte e di fragole dall’altra, in modo da avere il dolce e il salato nello stesso pasto. Quando erano ancora in uso i forni comuni, ogni pasty veniva inciso con le iniziali del minatore cui era destinato, per evitare confusione nel momento in cui venivano sfornati e, soprattutto, litigi tra gli uomini all’ora di pranzo.

Tanti ripieni dolci e salati

Il termine pasty, in realtà, è da considerarsi il nome generico riferito a una tipologia di pietanza. I ripieni, infatti, possono variare e, se oggi vengono generalmente riempiti con patate, cipolle, verdure di stagione e carne di manzo a cui alcuni aggiungono una noce di burro, le prime ricette includono carne di cervo e vitello, oltre al manzo.

Solo tra il XVII e XVIII secolo si diffonderà una versione più simile a quelle in uso oggi con un ripieno di maiale e mele, pollo tikka oppure di sole verdure così da accontentare anche i vegetariani. Non mancano neppure le versioni dolci con mele e fichi o banana e cioccolato, molto comuni in alcune aree della Cornovaglia.

Versione dolce del Cornish Pasty

Un fagotto goloso da chiudere con cura

Chiuderli bene per non far uscire il ripieno è sempre stata considerata un’operazione particolarmente importante. Soprattutto nel passato la perizia nel racchiudere gli ingredienti all’interno del fagottino di pasta e l’accurata sigillatura di essa, derivavano dalla necessità di garantire ai propri compagni un pasto caldo in grado di rendere meno aspre le lunghe ore trascorse sottoterra.

Una bontà tra tradizione e superstizione

Come spesso accade, non mancano superstizioni e credenze anche intorno all’umile pasto dei minatori, tramandate attraverso i secoli e accettate alla fine come rituali.

Tra queste si racconta che il Diavolo non avrebbe mai attraversato il fiume Tamar in Cornovaglia per paura di diventare parte del ripieno di un Pasty dopo che gli era giunta voce dell’inclinazione delle donne della Cornovaglia a trasformare qualsiasi cosa in un gustoso ripieno per i fagottini di carne.

È poi diffusa una seconda leggenda, di cui però esistono due versioni, e riguarderebbe l’abitudine dei minatori a gettar via l’ultimo boccone del Pasty. La prima versione racconta che essi lanciassero l’ultimo boccone agli Knockers, gli spiriti delle miniere, così da calmare le loro ire ed evitare il loro sopraggiungere. Si credeva che questi causassero il caos e la sfortuna a meno che non fossero corrotti con piccole quantità di cibo. Per lungo tempo si ritenne che le iniziali incise sui pasticci facessero in modo che i Knockers potessero distinguere coloro che lasciavano ad essi un pezzetto del fagottino da quelli che, invece, non lo facevano.

La seconda versione della leggenda, verosimilmente la più concreta, invece, vuole che l’ultimo boccone di Pasty non fosse mangiato dai minatori per proteggersi dall’arsenico, un potente veleno presente nelle miniere. I minatori erano soliti consumare il loro pasto con le mani sporche e, proprio per questo motivo fosse loro consuetudine tenere il fagottino dai bordi, gettando l’ultimo pezzetto, l’unico che era entrato in contatto con le mani, così da evitare la contaminazione da arsenico.

L’economia della Cornovaglia ha ruotato per lungo tempo intorno alle miniere di rame e stagno. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, l’attività estrattiva entrò in crisi e molti minatori si videro costretti a emigrare, portando con sé oltre alle loro conoscenze e al loro saper fare anche la ricetta dei Pasties che presero perciò a diffondersi anche in altre regioni del pianeta. Oggi, infatti, essi sono diffusi in Australia, Stati Uniti, Argentina e Messico.

Un pasticcio tutelato a livello europeo con l’IGP

The Cornish Pasty Association l’associazione che tutela il famoso fagottino, nell’agosto del 2003 ha ottenuto lo status di protezione europea (IGP) per il Cornish Pasty, il che significa che solo i pasticci fatti in Cornovaglia, secondo una ricetta e modi tradizionali, possono essere definiti legalmente pasticci della Cornovaglia.

Come tutti i prodotti protetti, affinché esso possa essere venduto con il nome Cornish Pasty, oltre a dover essere prodotto unicamente in Cornovaglia, deve rispettare alcune norme precise. Secondo l’IGP, in particolare, un Cornish Pasty deve avere le seguenti caratteristiche:

  • la forma a D, arricciato da una parte e non in cima;
  • Includere tra gli ingredienti manzo crudo, rape o patate, cipolle tagliate a cubetti e una leggera spolverata di sale e pepe a condirlo;
  • La sfoglia deve essere dorata e mantenere la sua forma anche una volta che il pasticcio è stato cotto ed è stato fatto raffreddare.

Il tipo di pasta, invece, non è definito e se oggi si usa indifferentemente la briseè, la sfoglia o la pasta di pane, in origine sappiamo con certezza che si utilizzava un impasto composto da farina di orzo, ideale per garantire una maggiore consistenza.

Ricetta dei Cornish Pasty (per 4 persone)

Cornish Pasty appena sfornati

Ingredienti per la pasta

  • 500 gr di farina
  • 125 gr di burro
  • 125 gr di strutto
  • 2 cucchiaini di sale
  • latte qb
  • 1 uovo per spennellare i Pasties prima della cottura

In alternativa, potrete anche scegliere di acquistare un rotolo di pasta briseè già pronta all’uso. In questo caso dovrete semplicemente preoccuparvi di ricavare 4 dischi con un diametro di circa 10 o 15 cm oppure 8 dischi dal diametro inferiore.

Ingredienti per il ripieno

  • 500 gr di carne di manzo a cubetti
  • 200 gr di patate e/o 200 gr di patate o 1 rutabaga
  • 1 cipolla tritata non troppo finemente
  • 250 ml di brodo di carne
  • 2 cucchiai da minestra di olio d’oliva
  • sale e pepe qb
  • erbe miste: salvia, timo e rosmarino, qb (facoltativo)
  • 1 cucchiaio da minestra di Worcestershire Sauce (facoltativo)

Procedimento

  • In un ampio tegame rosolare con l’olio di oliva la cipolla tritata e lasciar cuocere per 5 o 6 minuti.
  • Aggiungere la carne tagliata a cubetti, insaporirla con sale e pepe, unirvi il brodo e, eventualmente, la Worcestershire Sauce e il trito di erbe aromatiche.
  • Nel frattempo scottare in acqua salata le patate e sgocciolarle con l’uso di una schiumarola. Se utilizzate anche le rape o la rutabaga, tuffarle nella medesima acqua di cottura delle patate e sbianchite qualche minuto.
  • Unire le verdure a tocchetti al composto di carne e cuocere fino alla riduzione completa del brodo. Spegnere il fuoco e lasciar riposare il pasticcio di carne e verdure.
  • Intanto, a mano o utilizzando un mixer o una planetaria, mescolare la farina al sale, unire il burro e lo strutto e a filo aggiungere anche il latte.
  • Lavorate il composto fino a ottenere un impasto che si stacchi dal contenitore usato.
  • Dividere l’impasto in 8 porzioni o in 4 (se vorrete realizzare dei fagottini più grandi) e, con l’uso di un mattarello, stendete la pasta così da ricavare dei dischi che andrete a farcire con il pasticcio di carne e verdure, cotto precedentemente.
  • Chiudete ciascun disco così da formare un fagottino a forma di mezzaluna, sigillarne i bordi pizzicando il lato aperto o chiudete il Pasty con la tecnica a “spighetta”.
  • Spennellate con l’uovo sbattuto e lasciate riposare in frigorifero per circa 30 minuti.
  • Cuocere in forno preriscaldato a 200° per circa 20 minuti, successivamente abbassate la temperatura a 180° e proseguite la cottura per altri 20 minuti. Sfornare appena la superficie dei Pasties sarà dorata.
  • I Pasties si mangiano caldi o freddi. Naturalmente appena usciti dal forno sono una vera delizia.

Il Cornish cream Teaa04245f3-3a60-41d0-9b98-3382abdbc031

Devon e Cornovaglia si contendono la paternità di una specialità golosa e particolare, il cream tea. Vi spiego di che cosa si tratta e come gustarlo.

In effetti, se non si ha idea di che cosa sia il cream tea, è facile immaginare che si tratti di tè a cui si è aggiunta della panna. Se poi si ricorda che è una tipica specialità inglese, il gioco è fatto: tutti sanno che oltremanica si suole offrire il tè con il latte. Ebbene, se anche voi avete pensato a qualcosa di simile, siete fuori strada. Il tè c’è, ma se ne sta garbatamente per i fatti suoi.

Il cream tea è  più che altro un’usanza culinaria pomeridiana, molto in voga in Cornovaglia e nel Devon, benché anche a Londra lo si possa ordinare senza troppe difficoltà. Oltre all’immancabile tazza di tè, vi verrà servito uno scone con, a parte, marmellata di fragole e clotted cream. Quest’ultima, tradotta alla lettera, sarebbe della panna rappresa. Per consistenza, aspetto e sapore si avvicina molto al nostro mascarpone. Se invece non avete mai avuto il piacere di assaggiare uno scone, ricordatevi di provarne uno la prossima volta che visitate la Gran Bretagna (ma anche in Irlanda si trovano). Per motivi a me ignoti, gran parte dei dizionari rendono la parola con “focaccina” oppure con “pasticcino”. Sinceramente lo scone non si avvicina né all’una né all’altro. E’ una sorta di panino piuttosto secco e friabile, alto almeno tre dita, dal sapore non particolarmente definito e guarnito di uvetta. Lo si mangia anche da solo, più che altro per raggiungere un senso di sazietà, visto che sa di poco. La poca personalità dello scone si sposa a meraviglia con gli altri due ingredienti, decisamente più interessanti dal punto di vista del gusto, del cream tea. Insomma: anche l’umile scone riesce a farsi apprezzare.

Una volta ottenuti scone, clotted cream e marmellata, bisogna armarsi di coltello, tagliare lo scone a metà nel senso della larghezza (come per preparare un panino) e poi spalmare gli altri due ingredienti. Qui, però, inizia il vero dilemma: i puristi del Devon sostengono che prima si debba mettere uno strato di marmellata e poi la panna, mentre in Cornovaglia si giura che è tutto il contrario, cioè prima la panna e poi la marmellata. Dal punto di vista del risultato finale non cambia molto, quanto a praticità credo che il metodo proposto nel Devon sia un tantino più pratico. D’altra parte, la foto che vi presento è stata scattata in Cornovaglia, ma con tutta evidenza la signora che ci ha servito il cream tea doveva essere del Devon!

Eseguita l’operazione di cui sopra, finalmente non resta che versare il tè, sistemarsi comodamente sulla seggiola e sorseggiare la prelibata bevanda gustando anche lo scone così guarnito. Ogni ospite riceve uno scone, cioè due metà, e vi assicuro che è più che abbastanza.

Se vi state chiedendo qual è l’origine di questa merenda, ebbene nessuno lo sa! Infatti, a Tavistock (Devon) si ricorda con orgoglio che già nell’XI secolo i monaci della locale abbazia solevano mangiare pane, panna e marmellata. Non mi sembra che questi benedettini fossero particolarmente originali perché credo che a nessuno di noi verrebbe mai in mente di indagare dove e quando sia nata quella leccornia che è pane, burro e marmellata. Vero è, d’altro canto, che l’abbazia di Tavistock aveva numerosi possedimenti in Cornovaglia e questo spiegherebbe la ragione per la quale il cream tea è particolarmente diffuso nelle due regioni. La locuzione “cream tea“, invece, è assai più recente perché la si trova citata in alcuni romanzi solo a partire dal XX secolo. Forse, semplicemente, un’antica tradizione tornò di moda per una qualche ragione… i corsi e i ricorsi storici ci sono anche in cucina!

In ogni caso, un viaggio in Cornovaglia (ma anche nel Devon) non può concludersi senza una pausa pomeridiana a base di cream tea. Anche perché, anche quando il tempo è uggioso, i colori decisi e il gusto dolce e delicato di questa merenda sono capaci di mettere chiunque di buon umore.

La Birra Inglese

Beh, il primo pensiero va all’immagine del “Pub”, la “public house”, dove gli anglosassoni si ritrovano per socializzare, conoscere, acculturarsi e ovviamente consumare cibo e bevande.. una su tutte la birra.

In inglese si usa la parola “bier” per tradurre il concetto generico, ma poi ci si affida molto agli stili di birra per definire e riconoscere il prodotto principe di tutti i pubs.

Quella che più viene usata in vari stili è la Ale. Con questa parola si indica un tipo di birra ad alta fermentazione. A differenza di altre tradizioni brassicole europee, è il prodotto più tipico e riconosciuto nel Regno Unito, insomma la birra di casa.

In Gran Bretagna e in Irlanda si usa consumare di più la birra in fusti (cask), piuttosto che in bottiglia. In questo modo, con la presenza di lieviti vivi nel prodotto, la birra continua a maturare nelle cantine dei pubs, fino al momento di essere consumata.

La Birra Inglese ha una tradizione importante, molto diversa dagli altri paesi. Circa quaranta anni fa, fu fondato il “CAMRA”, Campaign for Real Ale, un’associazione di consumatori che voleva tutelare la qualità della birra tradizionale inglese, a dispetto della nascita e sempre più forte distribuzione di birre commerciali e poco piacevoli da parte dell’industria. Oggi il Camra conta più di 120 mila iscritti e ha ottenuto leggi a beneficio delle piccole birrerie tradizionali che riconoscono le birre di qualità come “Real Ale”, birre vere e ne favoriscono la conoscenza e lo sviluppo.Raven Ale

Tipicamente, le birre inglesi (quelle “real”) si bevono a temperature più alte di quelle usate per le birre a bassa fermentazione, per comprenderne a pieno gusto e personalità. Il metodo di spillatura “a pompa”, cioè che inserisce aria dentro al fusto, aiuta ad alleggerire il sapore spesso intenso e a renderle “vive”.

Gli stili delle birre anglosassoni sono ormai famosi nel mondo e rappresentano di solito le varie regioni di produzione, nonché il carattere e la personalità di coloro che le producono.

In Inghilterra, punto di partenza, per la tradizione brassicola anglo-sassone, abbiamo la più grande varietà di stili e tendenze. Questo dovuto anche al fatto che gli ambienti di produzione e le possibilità di materie prime variavano molto di regione in regione. Gli stili più riconosciuti anche oggi sono parole molto usuali per chi almeno una volta ha visitato un pub inglese: Pale Ale, Bitter, Lager, Porter, Ipa.

Con Pale Ale si intende una birra “pallida” ad alta fermentazione, insomma la birra chiara, prodotta con la tradizione inglese, di solito di grado alcolico contenuto e molto equilibrata e rotonda.

Con Bitter e con tutte le sue varianti (XB – Extra Bitter, Special Bitter ecc.) si intende invece una birra dove i luppoli hanno prevalenza di gusto e rendono la birra amarognola e leggermente secca.

Con IPA – India Pale Ale si intendono quelle birre, adesso molto di moda, che erano una volta prodotte per le Indie, le colonie più lontane dell’impero britannico, che venivano volutamente rese leggermente più alcoliche e amare, per la perdita di gusto e freschezza che causava il trasporto verso le colonie.

Con Porter si intendono invece le birre scure, cremose e intense, precursori dello stile Stout, più tipico dell’Irlanda.

Con Lager invece si intendono quelle birre, prodotte con bassa fermentazione, più vicine alla tradizione germanica e sicuramente prodotte all’inizio per soddisfare un pubblico più estero che anglosassone.

Tradizione simile ma con le dovute differenze si hanno in Irlanda, regno della birra Stout. Questa birra particolare nasce da una versione più forte (stout) della Porter inglese. Una su tutte quella prodotta da Arthur Guinness a Dublino, famosa in tutto il mondo. Si producono anche ottime Ales, caratterizzate da una estrema morbidezza e rotondità, dovute al fatto che non si utilizzano luppoli nella loro produzione. Una novità nel panorama irlandese, è la Irish Red Ale, una ale dai malti affumicati più di carattere.

In Scozia invece, per tradizione (e penso per necessità di temperatura esterna!) si producono birre più strutturate e corpose. La Scotch Ale, originariamente “strong ale” è una birra tipicamente corposa, abbastanza alcolica e carica di sapori, inventata e riproposta da John Martin, mastro birraio scozzese, trasferitosi in Belgio. Grazie alle attività del Camra recentemente si vengono a scoprire altri stili più vecchi e tradizionali.

Lo stile “Barley Wine”, che da un tipo di birra molto forte, di solito quasi sciropposa e poco beverina, piuttosto luppolata, con un finale dolce e maltato; lo stile “Mild Ale”, che da una birra scura, molto beverina, delicata e saporita nonostante la gradazione leggera; lo stile “Olde Ale”, che da una birra ambrata o scura, dolciastra, ma di forte gradazione.

Guida di Napoli,Capri e Costiera Amalfitana


Napoli,Capri e Costiera Amalfitana

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Napule è mille culure | Napule è mille paure | Napule è a voce d’ ‘e criature | che saglie chiano chianu | e tu saje ca nun si sulo.

Pino Daniele

 

Napoli

Situata nell’omonimo golfo, Napoli, con i suoi 957.811 abitanti, è la terza città italiana per popolazione. La città, capoluogo della regione Campania, è famosa in tutto il mondo per le sue bellezze artistiche e naturalistiche, per il suo storico passato e per la vivacità dei suoi abitanti. Napoli presenta, infatti, un ricco patrimonio artistico ed architettonico, dichiarato nel 1995, insieme all’intero centro storico (il più vasto d’Europa), patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, oltre a meravigliosi scorci, che ne vedono come sfondo il Vesuvio e le isole di Capri, Ischia e Procida.21-NapoliSfondoVesuvioImbrunire

 

Storia di Napoli

 

Questa sua magia ha addirittura origine nel mito: secondo gli antichi storici greci e romani, la nascita del borgo sarebbe da collegarsi alla leggenda della semidea marina Parthenope, che si lasciò morire per non essere riuscita, col canto, ad ammaliare Ulisse.

E’ certo, comunque, che, già prima della fondazione della città, tutto il litorale era stato colonizzato da genti greche provenienti dall’ Eubea e dalla  Calcidica.

Essi fondarono la città di Cuma e da qui partirono alla volta dell’attuale colle di Pizzofalcone, dove fondarono il primo nucleo della città di Napoli, esso prese il nome di Partenope, che nella tradizione fu associato a quello di una sirena che avrebbe avuto la sua dimora nella acque del golfo.

Tale sito fu poi distrutto e così, intorno al 470 a.C., fu ricostruita la nuova città,  che fu detta Neapolis, per distinguerla da quella vecchia; essa sorse ad oriente dell’area di fondazione della prima città.

Neapolis fu costruita secondo quello che, in seguito, è stato definito sistema ippodameo, perché creato dall’architetto greco, vissuto nel V sec. a.C. Ippodamo di Mileto: esso consiste in una rete di tre grandi strade parallele, dette, successivamente, con vocabolo latino decumani, intersecate ad angolo retto da altre vie, più strette, dette cardini. Presenti nell’attuale struttura urbanistica del centro antico di Napoli, i tre decumani sono le vie dell’Anticaglia (decumano superiore), dei Tribunali (decumano centrale) e San Biagio dei Librai (decumano inferiore).

Nel 340 a.C. i romani iniziarono la conquista del territorio campano e nel 328 a.C. scoppiò la guerra tra Napoli e Roma. Ben presto la città fu conquistata dai romani che, però, concessero agli sconfitti alcuni privilegi, come l’uso della lingua greca e la conservazione delle antiche magistrature.

La città divenne, poi, municipio romano e fu in questo periodo che l’aristocrazia romana iniziò a frequentare il golfo, costruendo splendide dimore, sia a Neapolis che in tutta la zona dei Campi Flegrei.

Caduto l’impero romano d’Occidente, l’imperatore d’Oriente Giustiniano, inviò a Napoli il suo generale Belisario per conquistarla; ma egli trovò un’accanita resistenza da parte dei napoletani. Stava quasi per abbandonare l’impresa quando alcune spie gli indicarono una via d’ingresso attraverso un antico acquedotto, solo così fu possibile per gli assedianti penetrare nella città.

Successivamente la città fu conquistata dai Goti e poi di nuovo dai bizantini. Durante il dominio di questi ultimi furono costruiti in città numerosissimi monasteri ed ebbe il definitivo sviluppo la religione cristiana.

Nel 581 e nel 592 fu la volta dei Longobardi, che assediarono Napoli. Successivamente la città si ribellò all’imperatore, dandosi un governo autonomo; ma ben presto Bisanzio ripristinò l’ordine. Infine nel 661 l’imperatore nominò Basilio duca e fu l’inizio di una certa autonomia della città.

Napoli crebbe di importanza; nel 773 il duca Stefano II, riconoscendo l’autorità del papa, a discapito di quella dell’imperatore, fu nominato vescovo. Da quel momento, pur restando formalmente soggetto all’imperatore, il ducato divenne indipendente.

In questi anni va ricordata la sconfitta dei saraceni ad opera della flotta napoletana guidata da Cesario, figlio del duca Sergio, nell’843; così come nell’849, quando, vincendo ad Ostia, si evitò il saccheggio di Roma.

Lo sviluppo dei commerci, dell’arte e della cultura fu una costante nel periodo ducale; però il nuovo attacco dei Longobardi nel 1027, costrinse alla fuga il duca Sergio IV.

Nel 1077 vi fu la comparsa sulla scena dei Normanni: essi avevano già conquistato Salerno, e solo Napoli resistette e riuscì a rimanere indipendente.

Nel 1130 Ruggiero II fu incoronato re a Palermo; nel 1134, a capo di una potente flotta, strinse d’assedio la città, conquistandola. Successivamente il popolo napoletano tentò di costituire una repubblica, con l’aiuto del papa Innocenzo II, ma, quando, nel 1139, i normanni sconfissero il papa, anche Napoli dovette arrendersi a Ruggiero.storia-di-napoli

Il nuovo re fu molto generoso con la città conquistata: favorì i nobili e i cavalieri e diede un grande sviluppo alle arti e alla cultura, così come ai commerci.

Alla sua morte gli successe il figlio Guglielmo I detto il Malo, in quanto avaro, egli regnò dal 1154 al 1176. Durante il suo regno vi furono contrasti col papa, che si alleò con Federico Barbarossa.

Fu poi la volta di Guglielmo II, egli regnò dal 1176 al 1189, morendo, in giovane età, senza eredi maschi. Salì, così, al trono suo nipote Tancredi, che regnò dal 1190 al 1194.

Nel 1191 Enrico IV, figlio di Federico Barbarossa, cercò di impadronirsi del regno, non riuscendovi. Dopo la morte di Tancredi, salì al trono Guglielmo III, che nel 1195 dovette cedere il trono all’imperatore Enrico IV.

Quando, nel 1197, l’imperatore morì, gli successe il figlio Federico II. Quest’ultimo, però, potette entrare in città solo nel 1220. Federico II fu un uomo estremamente colto, che accolse alla sua corte letterati, poeti e artisti e fondò l’Università a Napoli.

Alla sua morte, nel 1250, gli successe il figlio Corrado, ma dopo appena quattro anni questi morì, lasciando come erede il figlioletto Corradino. Però Manfredi, figlio naturale di Federico II e reggente del regno in nome del fratellastro Corradino, si fece incoronare a Palermo re di Sicilia nel 1258. Egli fu grandemente contrastato dal papa Urbano IV, che avviò trattative per affidare a Carlo I d’Angiò la conquista del regno di Sicilia.

Il principe angioino, giunto in Italia, sconfisse Manfredi nel 1266 a Benevento. Egli scelse Napoli come sua capitale e protesse anch’egli letterati ed artisti.

Un anno dopo la sconfitta di Benevento, dalla Germania scese in Italia Corradino, per riappropriarsi del regno. Egli, però, venne sconfitto da Carlo d’Angiò a Tagliacozzo nel 1268  e fu fatto decapitare.

A Carlo I successe il figlio Carlo II, che regnò dal 1285 al 1309; fu, poi, la volta di Roberto detto il saggio, che regnò fino al 1343. Anche questo sovrano fu amante delle arti e delle lettere e raccolse una ricchissima biblioteca. Egli ebbe un solo figlio maschio, Carlo, il quale morì lasciando due figliolette.

Fu così che, alla morte di re Roberto, a questi successe sul trono, nel 1343, la nipote Giovanna. Essa fu coinvolta in una congiura di palazzo che nel 1345 costò la vita a suo marito Andrea, fratello del re d’Ungheria Luigi I il Grande. La congiura fu capeggiata da Luigi di Taranto, che, poco dopo, sposerà la vedova Giovanna, cercando, poi, di far fronte al re Luigi I d’Ungheria, che aveva, intanto, occupato il regno per vendicare la morte del fratello.

Conclusa la guerra, la regina Giovanna rimase di nuovo vedova e sposò in terze nozze Giacomo III d’Aragona-Maiorca. Alla morte di questi sposò Ottone di Brunswick. Non avendo discendenti diretti, Giovanna designò erede Carlo di Durazzo, figlio di un cugino, per poi ripensarci e designare successivamente Luigi d’Angiò. Carlo di Durazzo nel 1381 si impadronì del regno, facendo eliminare la zia. Nel 1386, dopo essersi recato in Ungheria per farsi incoronare re, Carlo di Durazzo fu avvelenato.

A questo punto la vedova di Carlo, Margherita di Durazzo, dovette fronteggiare una situazione difficilissima: con Luigi d’Angiò che accampava diritti sul regno, essa cedette, nel 1393, il trono al figlio Ladislao, il quale, dopo alterne vicende, riuscì addirittura ad occupare Roma. Ciò, però, suscitò la preoccupazione di Firenze, che chiamò in aiuto Luigi II d’Angiò, che sconfisse Ladislao nel 1411. La lotta sarebbe continuata, ma nel 1414 Ladislao moriva.

Gli succedeva, così, la sorella Giovanna II che, anch’essa senza eredi, prima adottò Alfonso V d’Aragona e, successivamente, nominò suo successore Renato d’Angiò. Alla morte della regina quest’ultimo fu proclamato successore.

Alfonso d’Aragona, però, non aveva rinunciato alle pretese sul regno e assediò Napoli, penetrandovi, infine, nel 1442. Fu l’avvento della nuova dinastia aragonese. Egli fece il suo ingresso trionfale in città nel 1443, e si dimostrò da subito amante delle arti, dei letterati e mecenate. Egli favorì lo sviluppo di una accademia umanistica che, in suo onore, fu detta Alfonsina e, successivamente, Pontaniana.

Alla morte di Alfonso, nel 1458, gli successe il figlio illegittimo, poi legittimato da papa Callisto III, Ferdinando I o anche Ferrante. Egli fu inflessibile nei confronti del potere della nobiltà, che cercò in tutti i modi di combattere. Soffocò nel sangue, nel 1485, la cosiddetta Congiura dei Baroni, mandando a morte tutti i congiurati.

Nel 1494 a Ferrante successe Alfonso II, ma alla discesa in Italia delle truppe di CarloVIII di Francia, egli abbandonò il regno, rinunciando al trono in favore del figlio Ferdinando II detto Ferrandino. Questi tentò di opporsi all’invasione francese, ma dovette fuggire. Riuscì a rientrare in città pochi mesi più tardi, ma, a meno di un anno da questo evento, morì senza eredi. Il regno passò a suo zio Federico, ma questi non poté nulla contro francesi e spagnoli che si contendevano le sorti del regno. Così, mentre Federico si consegnava nelle mani dei francesi, gli spagnoli, guidati dal generale Consalvo di Cordoba, entravano a Napoli: era l’inizio di due secoli di dominazione spagnola sulla città.

Il regno fu governato da viceré. Tra i tanti ricordiamo don Pedro Alvarez de Toledo, che promosse lo sviluppo urbanistico della città, con la creazione della grande strada che, ancora oggi, porta il suo nome. Così come il conte di Lemos don Ferrante Ruiz de Castro y Andrada, che fece edificare il Palazzo Reale.

Nel 1700, alla morte di Carlo II di Spagna, vi fu una lotta per la successione al trono tra Filippo V e l’imperatore Leopoldo d’Austria, alla fine fu instaurato a Napoli un viceregno austriaco, che durò dal 1707 al 1734.

Alla fine Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese decise di conquistare l’Italia meridionale e nel 1734 sconfisse gli austriaci, instaurando, nuovamente, un regno indipendente. Egli diede un notevole impulso alla vita del regno e della sua capitale. Fece realizzare la Reggia di Capodimonte e quella di Caserta, il Teatro San Carlo e l’Albergo dei Poveri, nonché la famosa Fabbrica di Porcellane di Capodimonte.

Alla morte, nel 1759, del fratellastro Ferdinando VI, re di Spagna, che non lasciò eredi, gli succedette sul trono.

Sul trono di Napoli salì il piccolo Ferdinando IV, che governò, data la giovane età, per mezzo di un consiglio di reggenza. Quando, nel 1798, attaccò i francesi, che avevano occupato Roma, questi occuparono Napoli, costringendolo a rifugiarsi in Sicilia.

Fu così proclamata la Repubblica Partenopea. Ben presto, però, venne a mancare l’appoggio della Francia, impegnata nella campagna d’Egitto con Napoleone. Gli inglesi sbarcarono a Napoli e fu una spietata repressione: furono giustiziati l’ammiraglio Caracciolo, Eleonora Pimentel Fonseca e tanti altri fautori della Repubblica.

Rientrato a Napoli, Ferdinando IV dovette, dopo poco, fuggire nuovamente in Sicilia. Napoleone, infatti, poneva sul trono del regno di Napoli, in un primo tempo, il fratello Giuseppe Bonaparte e, nel 1808, il cognato Gioacchino Murat. Solo dopo il Congresso di Vienna Ferdinando IV, che dal 1816 diventava Ferdinando I dello stato che assumeva la nuova denominazione di Regno delle Due Sicilie, poteva rientrare a Napoli.

Francesco I, figlio di Ferdinando I, divenne re nel 1820, a lui successe, nel 1830, il figlio Ferdinando II, che, dopo aver promosso un certo rinnovamento del regno, subì una svolta reazionaria. Gli anni del suo regno videro moti e repressione e prepararono la fine dello stato borbonico. Infatti, alla sua morte, nel 1859, gli successe il figlio Francesco II, che, nel 1860, davanti all’avanzata dei garibaldini, pur di evitare sofferenze alla sua tanto amata capitale, rinunciò alla resistenza e abbandonò Napoli.

Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrava a Napoli, i plebisciti del 21 e 22 ottobre 1860 stabilivano l’unione di Napoli e della Sicilia all’Italia.

Tramite un plebiscito popolare, la città venne annessa al Regno del Piemonte, trasformato nel 1870 nel Regno d’Italia. Anche durante la seconda guerra mondiale la città ha avuto un ruolo importante con le Quattro giornate di Napoli, durante le quali il popolo si rivoltò contro i tedeschi.

 

 

METROPOLITANA

A Napoli esistono 2 linee di metropolitana: la linea 1, detto anche “Metrò dell’Arte”, attiva tutti i giorni dalle 6.00 alle 23.00; e la linea 6, attiva tutti i giorni dalle 6.30 alle 21.30. La storica linea 2, omologata come “passante ferroviario”, collega la stazione centrale con diverse zone della città fino al porto. La linea è in funzione tutti i giorni dalle 6.15 alle 23.00. Chi visita Napoli ha diverse scelte nell’acquisto dei biglietti. Per raggiungere i monumenti e le zone turistiche più importanti basta il biglietto Unico Napoli, €1,20, con validità 90 minuti dall’obliterazione, che permette di muoversi liberamente tra metro e autobus di tutta la città. Per muoversi un’intera giornata, è meglio acquistare il biglietto Unico Giornaliero, € 3,60, valido per l’intera giornata d’acquisto.MetroNapoliMetroMap

BUS

Napoli vanta un servizio autobus capillare e ben organizzato, che collega tutti i quartieri cittadini con il centro. Ma a causa del traffico non sempre è la scelta migliore. Il servizio è attivo dalle 5.20 del mattino fino a mezzanotte circa, con variazioni per le diverse linee. Il servizio notturno inizia, invece, intorno a mezzanotte e finisce alle 4 del mattino.

TAXI

Il taxi, a causa del traffico, non è il mezzo consigliato per visitare Napoli. Per prenotarne uno occorre comunque contattare telefonicamente il servizio di prenotazione taxi, attivo 24 ore al giorno, di una delle 6 compagnie cittadine. In alternativa è possibile prendere un taxi raggiungendo uno degli 87 parcheggi taxi presenti in città.

Consortaxi +39 081/5525252

Free Radio Taxi +39 081/5515151

Partenope +39 081/5560202

Cooperativa Tassisti +39 081/5510964

Radiotaxinapoli +39 081/5564444

FUNICOLARI

Napoli è dotata di 4 linee di funicolare che collegano facilmente, evitando il traffico, la zona collinare con il centro. Le 4 funicolari sono le funicolari di Chiaia, Montesanto, Centrale e Mergellina.

A PIEDI

Conoscere Napoli a piedi è la scelta ideale: il centro storico è molto grande ma tutte le zone turistiche più importanti si raggiungono facilmente senza l’utilizzo di mezzi di trasporto.

INFORMAZIONI UTILI

Siti Internet Ufficiali Della Città

Per informazioni generali visitate il sito: http://www.comune.napoli.it

oppure il sito: http://www.napoli-turismo.it

Ufficio Informazioni Turistiche Azienda di promozione turistica (APT) Via San Carlo, 9 Tel. +39 081/402394

Piazza del Gesù Tel. +39 081/5512701 info@inaples.it

City Pass

Campania Artecard è un biglietto integrato che permette di accedere ai principali musei e siti archeologici della regione, di viaggiare sui trasporti pubblici e di usufruire di sconti e vantaggi. Sono disponibili sette itinerari: Centro antico, Napoli e Campi Flegrei, Castelli di Napoli, Napoli e Caserta, Regge e siti borbonici, Archeologia del Golfo , Cilento. Per costi e informazioni sui diversi itinerari consultare il sito: http://www.artecard.it.

Clima

Napoli gode del tipico clima mediterraneo, con estati calde e soleggiate, e temperature medie che variano tra i 25 e i 31 gradi centigradi, attenzione quindi a non esporvi direttamente ai raggi solari, soprattutto nelle ore centrali della giornata. Gli autunni possono risultare talvolta umidi, con diversi giorni di pioggia. Gli inverni, invece, sono decisamente meno piovosi e la temperatura media oscilla tra i 4 e i 12 gradi centigradi.

 

Le Chiese

1 Basilica di San Francesco di Paola

Piazza Plebiscito, 11 – Napoli63028709

È la più importante chiesa neoclassica italiana e, per la forma circolare, ricorda il Pantheon di Roma. E’ al centro del colonnato di stile neoclassico voluto da Gioacchino Murat. Iniziata nel 1816 e completata nel 1836, fu edificata per volere di Ferdinando IV di Borbone come ringraziamento a San Francesco di Paola per la riconquista del Regno. Si possono ammirare tele di Luca Giordano, Pietro Benvenuti e l’altare maggiore decorato con pietre preziose.

 

 

2 Certosa di San Martino

Largo San Martino, 13 – NapoliSan-Martino-600x450

La Certosa costituisce uno dei più riusciti esempi di architettura barocca. Nel 1325 Carlo, primogenito di Roberto d’Angiò, fece erigere il monastero. Alla fine del XVI secolo la Certosa fu ristrutturata e ampliata. Da ammirare: i chiostri, la chiesa delle donne e la chiesa principale con le loro decorazioni e i loro affreschi.

 

3 Chiesa del Gesu’ Nuovo

Piazza Gesù Nuovo, 2-4 – Napoli

I Gesuiti, tra il 1584 e il 1601, demolirono Palazzo dei Sanseverino e costruirono la chiesa, che passò ai francescani nel 1767. Subì nel corso degli anni diversi crolli, demolizioni e ristrutturazioni. L’interno è in stile barocco con pareti rivestite da marmipolicromi, e una pianta a croce greca, a tre navate. Presenti affreschi di Francesco Solimena, Paolo De Matteis e Belisario Corenzio.


4 Basilica di Santa Chiara

Cortile Santa Chiara – Napoli1280px-Monastero_di_SantaChiaraNaples

Eretta tra il 1310 e il 1340 per volere di Roberto d’Angiò, è la più grande basilica gotica della città. Venne interamente distrutta da un bombardamento nella II guerra mondiale, e quindi restaurata nel 1953. Dall’aspetto austero, conserva le tombe della famiglia d’Angiò. Nel convento delle Clarisse, adiacente, si ammirano affreschi di Giotto relativi alla Crocifissione. Splendido e degno di visita è il chiostro di Domenico Antonio Vaccaro.IMG_9759Chiostro Clarisse - Basilica Santa Chiara - Napoli - by ho visto nina volare

 

5 Basilica di San Domenico Maggiore

Piazza San Domenico Maggiore, 1-11 – Napoli1280px-Napoli_-_piazza_San_Domenico_Maggiore_e_guglia_1030736

E’ una importante chiesa cittadina, molto interessante dal punto di vista artistico e storico. Tra il 1283 e il 1324 venne innalzata inizialmente in stile gotico. Fu voluta da Carlo II d’Angiò: divenne poi casa madre dei domenicani nel regno di Napoli e anche chiesa della nobiltà aragonese. L’edificio appartiene a un complesso conventuale situato nel centro antico della città. L’ingresso principale è attraverso un portale con molti elementi gotici dal vicolo San Domenico.

 

6 Chiesa di Sant’Angelo a Nilo

VPiazzetta del Nilo, 23 – Napoli

La chiesa di Sant’Angelo a Nilo si trova nel centro storico di Napoli, all’angolo sud-est di piazza San Domenico, con una facciata rivolta su via Mezzocannone. È anche conosciuta come Cappella Brancaccio, poiché conserva al suo interno una delle opere di scultura più importanti presenti in città, il Sepolcro del cardinale Rainaldo Brancacci di Donatello, realizzato in collaborazione con Michelozzo. L’interno della chiesa presenta un arredo marmoreo sei-settecentesco.

7 Cappella Sansevero

Via Francesco De Sanctis, 1-13 – Napoli

La Cappella Sansevero è tra i più importanti edifici di culto della città. L’edificio è un concentrato di opere scultoree e pittoriche, a partire dall’affresco che ne orna il soffitto, noto come “il paradiso dei Sansevero”. I migliori artisti del periodo si alternarono nella realizzazione di opere irripetibili. Ecco alcune delle opere presenti all’interno: Monumento a Cecco de’ Sangro, Altare di Santa Rosalia, La Pietà, Monumento a Raimondo de’ Sangro e il Cristo Velato.

8 Basilica di San Paolo Maggiore

Piazza San Gaetano, 76 – NapoliNapoliSanPaoloMaggioreFacciata

Fu eretta nell’VIII sec. per celebrare la vittoria dei napoletani sui Saraceni. Tra il XVI e il XVII sec. subì vari restauri e ampliamenti. Ai lati della facciata si trovano le statue dei Santi Pietro e Paolo. La pianta è a croce latina divisa in tre navate con un interno in stile barocco. Si possono osservare affreschi di Massimo Stanzione del 1644, e di Francesco Solimena, e le cappelle Firrao di Sant’Agata e quella della Madonna della Purità

 

 

9 Basilica di San Lorenzo Maggiore

Piazza San Gaetano, 316 – Napoli

Carlo d’Angiò nel 1270 sovvenzionò la ricostruzione della chiesa e del convento; il risultato fu uno straordinario esempio dello stile gotico francese. In seguito ai terremoti, subì modifiche in stile barocco, ora cancellate, eccetto la facciata di Ferdinando Sanfelice. Da ammirare: l’abside poligonale con volte a crociera, il Sepolcro di Caterina d’Austria e il Cappellone di S. Antonio, opera barocca di Cosimo Fanzago.

10 Duomo di San Gennaro

Via Duomo, 146 – Napoliduomosg

La costruzione risale al XIII secolo e fu voluta dal re Carlo II d’Angiò. Presenta stili diversi. Nella navata destra si trova la Cappella di San Gennaro costruita come ringraziamento di un voto fatto dai Napoletani durante la pestilenza del 1527 e sotto la statua di San Gennaro c’è un busto d’argento che racchiude il cranio del Santo e le ampolle col sangue coagulato che ogni anno il 19 settembre si liquefa’. E’ uno dei momenti più intensi vissuti dai napoletani.

Il Miracolo di San Gennaro

Secondo la leggenda, il sangue di San Gennaro si sarebbe liquefatto per la prima volta nel IV sec. d.C. durante il trasferimento a Napoli delle spoglie del santo da parte del vescovo Severo (secondo altri il vescovo Cosimo). Storicamente, la prima notizia documentata dell’ampolla contenente la presunta reliquia del sangue di San Gennaro risale soltanto al 1389. Il Chronicon Siculum racconta che durante le manifestazioni per la festa dell’Assunta vi fu l’esposizione pubblica delle ampolle contenenti il cosiddetto “sangue di San Gennaro” e il 17 agosto, durante la processione, il liquido conservato nell’ampolla si era liquefatto “come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo”.slide_251546_1541481_free

Attualmente le due ampolle sono conservate nel Duomo di Napoli: una è riempita per tre quarti, mentre l’altra è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna. Il fenomeno della liquefazione è invocato tre volte l’anno (il sabato precedente la prima domenica di maggio e negli otto giorni successivi; il 19 settembre e per tutta l’ottava delle celebrazioni in onore del patrono, e il 16 dicembre), durante una solenne cerimonia religiosa guidata dall’arcivescovo. Per sottolineare come la religione possa fondersi con la superstizione popolare, la liquefazione durante la cerimonia è ritenuta foriera di buoni auspici per la città; al contrario, la mancata liquefazione è vista come cattivo presagio per la città.

Il miracolo di San Gennaro non può essere spiegato con la fede perché, se così fosse, allora non si capisce perché non credere a fenomeni analoghi di altre religioni.

La stessa Chiesa è scettica, ma fa di tutto per non mostrare il proprio scetticismo perdurando in un atteggiamento ambiguo: lascia credere ai carenti di spirito critico che si tratti di miracolo, ma non lo fa quando parla con gli scienziati!

Con il concilio Vaticano II la Chiesa (che ha sempre rifiutato di acconsentire al prelievo del liquido sostenendo che un’analisi invasiva potrebbe danneggiare sia le ampolle sia il liquido) decise di togliere dal calendario alcuni santi, San Gennaro compreso; poiché vi furono forti resistenze popolari, decise di mantenere il culto della reliquia del santo, precisando che lo scioglimento del sangue di San Gennaro non era un miracolo, ma piuttosto un fatto mirabolante ritenuto prodigioso dalla popolazione.

In realtà di mirabolante non c’è nulla. La spiegazione fisica più semplice è quella della tissotropia:

i materiali tissotropici diventano più fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, tornando allo stato precedente se lasciati indisturbati.

Un esempio di questa proprietà è la salsa ketchup che si può mostrare in uno stato quasi solido finché, scossa, non diventa improvvisamente molto più liquida.

Tre scienziati italiani, Garlaschelli, Ramaccini e Della Sala hanno riprodotto una sospensione avente un comportamento tissotropico molto simile al fluido contenuto nella teca di San Gennaro. Il loro lavoro è stato pubblicato su Nature (A Thixotropic mixture like the blood of Saint Januarius, “Nature”, vol.353, 10 oct 1991).

Ognuno può stupire gli amici con il trucco dei tre ricercatori (che peraltro hanno usato sostanze reperibili all’epoca, fine XIV sec.). Con cloruro ferrico (sotto forma di molisite, un minerale tipico delle zone vulcaniche e quindi presente anche sul Vesuvio), carbonato di calcio (i gusci d’uovo sono fatti per circa il 94% di carbonato di calcio), cloruro di sodio (il comune sale da cucina) e acqua, è possibile ottenere una soluzione colloidale di colore rosso che ha proprietà tissotropiche.

La banale domanda del perché il sangue alcune volte non si sia liquefatto è rigettata dalle proprietà stesse dei materiali tissotropici: basta agitare la soluzione delicatamente e non c’è liquefazione (del resto, il sangue di San Gennaro si è liquefatto anche al di fuori dei periodi previsti, probabilmente a causa di manipolazioni non delicate).

Un’obiezione più sensata si basa sulla diffusione della notizia secondo la quale il gel dei tre ricercatori non avrebbe più proprietà tissotropiche dopo 2 anni. La scarsa consistenza logica dei sostenitori del miracolo ha fatto gridare che questa sarebbe la prova più lampante che di miracolo trattasi (il solito errore: non so spiegarmi un fenomeno, allora è sicuramente un miracolo divino). Come ha rilevato Garlaschelli, alcuni campioni del suo gel durano dieci anni, altri molto meno:

Ma del resto, mi sono anche preoccupato poco, addirittura, di sigillare in modo perfetto i miei boccettini. Immagino che i gel tissotropici siano intrinsecamente instabili, e che piccole variazioni nelle condizioni di preparazione possano influire sul risultato finale. Penso alle concentrazioni dei reagenti, al tempo impiegato per mescolarli, alla dialisi, ecc. Forse, preparando cento campioni in condizioni lievemente diverse per ognuno, e poi essendo moooolto pazienti, si capirebbe quali campioni siano più duraturi.

Il punto è che la spiegazione scientifica del miracolo di San Gennaro esiste e si chiama tissotropia. Come giustamente ha osservato Garlaschelli, è del tutto inutile perdere anni di studi per trovare un gel che resista 100, 1.000 anni anziché 10. Per convincersene basta ricordare i celebri violini di Stradivari o Guarneri: nessuno ragionevolmente sostiene che sono opera di Dio solo perché non si conosce perfettamente il processo di lavorazione e le sostanze utilizzate per proteggere il legno (alcune indicazioni furono date da Nagyvary nel 2009).

11 Basilica della SS. Annunziata Maggiore

Via Annunziata, 21 – NapoliSantissima_Annunziata_Maggiore,_Napoli

La Basilica della Santissima Annunziata Maggiore fa parte di un vasto complesso monumentale costituito in origine, oltre che dalla chiesa, da un ospedale, un convento, un ospizio per i trovatelli ed un “conservatorio” per le esposte. L’edificio religioso venne costruito la prima volta nel XIII secolo, poi ampliato nel 1513 e modificato ancora nel 1540. La struttura fu quasi del tutto distrutta da un incendio del 1757 prima e durante la seconda guerra mondiale poi.

 

 

12 Basilica di San Pietro ad Aram

Via Santa Candida, 13 – Napoli

La Basilica di San Pietro ad Aram è famosa perché, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara Petri, ovvero l’altare su cui pregò san Pietro durante la sua venuta a Napoli. Per la sua particolare antichità papa Clemente VII, le concesse il privilegio di poter celebrare il giubileo un anno dopo quello di Roma. L’attuale ristrutturazione è del XVII secolo. L’interno è a navata unica, a croce latina.

 

 

I Palazzi

1 Reggia di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – NapoliReggia_di_Capodimonte_1

Fu voluta dal re Carlo III di Borbone, con lo scopo di impreziosire la sua vasta riserva di caccia. Il progetto cominciò nel 1738. Alla morte del sovrano, Ferdinando IV incaricò l’architetto Fuga di ampliare la reggia. In seguito le opere d’arte furono spostate nell’edificio dell’attuale Museo Nazionale e la reggia divenne residenza di Gioacchino Murat. Sotto i Savoia, rivestì il duplice ruolo di residenza e museo, per poi assolvere dal 1950 solo quest’ultima funzione.

 

2 Palazzo dello Spagnolo

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Palazzo dello Spagnolo fu costruito nel XVIII secolo per volere del marchese Nicola Moscati. Splendida è la scala a doppia rampa ad “ali di falco” presente all’interno realizzata da Ferdinando Sanfelice, architetto, pittore e nobile italiano di epoca barocca, attivo a Napoli. Egli pensò il progetto come una sorta di luogo di incontro. Meravigliose sono anche le decorazioni in stucco. Prende il nome da Tommaso Atienza, che acquistò l’edificio: era soprannominato lo Spagnolo.

 

 

3 Accademia di Belle Arti di Napoli

Via Vincenzo Bellini, 28 – Napoli

E’ un ateneo pubblico per lo studio delle arti visive che ospita circa millecinquecento studenti (napoletani, campani, ma anche molti stranieri). Ha l’ambizioso obiettivo di formare i nuovi quadri della produzione dell’immagine in breve. L’edificio venne fondato nel 1752 da Carlo III di Spagna, che fu re di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759. L’accademia è anche sede di una biblioteca, di una gipsoteca e di una pinacoteca.

 

 

4 Complesso del Convitto Nazionale

Piazza Dante Alighieri, 58 – Napoli

La storia dell’edificio, uno dei complessi storico-religiosi della città, ebbe inizio nel 1768. In origine fu un istituto gesuitico, poi divenne Collegio dei Nobili e infine si trasformò in Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Napoli quandò giunse in città Giuseppe Garibaldi, il quale abolì l’ordine dei gesuiti

5 Complesso di San Gregorio Armeno

Via San Gregorio Armeno, 14-28 – Napoli

Il complesso, fu edificato sui resti dell’antico tempio di Cecere per volere delle suore, scappate dall’Oriente con le reliquie di San Gregorio, è fra le piu’ spettacolari opere barocche napoletane. Ha un unica navata e una cupola molto luminosa. Otto botteghe sono visibili tra il campanile e la facciata. Il chiostro progettato nel 1580 è molto bello, Della Monica infatti lo edificò in funzione strettamente paesaggistica. Da notare poi al centro la fontana marmorea.

6 Università degli Studi di Napoli Federico II

Corso Umberto I, 40bis – Napoli

L’Università degli Studi di Napoli Federico II è il principale ateneo parteneopeo e uno dei più importanti d’Italia, è inoltre la più antica università a essere stata fondata con un provvedimento statale ed è la più antica università laica del mondo. La sede centrale è il Palazzo dell’Università degli Studi “Federico II” in corso Umberto I: imponente edificio neobarocco edificato tra il 1897 ed il 1908. E’ sede della facoltà di giurisprudenza.

 

7 Municipio: Palazzo San Giacomo

Piazza Municipio, 22 – Napoli

Palazzo San Giacomo, sede dell’amministrazione comunale, è il Municipio di Napoli. E’ situato e domina la maestosa Piazza del Municipio: una delle più grandi d’Europa. Lo stile dell’edificio è quello neoclassico, così come le decorazioni. Il palazzo venne innalzato, nel XIX secolo, per volere di re Ferdinando I di Borbone. La stanza del sindaco si trova sopra il portale al primo piano.

8 Palazzo Reale

Piazza Plebiscito, 27 – Napolipalazzo-reale-napoli

Reggia solenne e grandiosa è stata il fulcro del potere di Napoli e il centro degli avvenimenti storici di tutto il Mezzogiorno per quasi quattro secoli. Fu costruita nel 1600 da Fontana per ospitare il re Filippo III di Spagna, atteso a Napoli con la sua consorte per una visita ufficiale che non avvenne mai. Il palazzo divenne poi la residenza dei viceré spagnoli, di quelli austriaci e dei re di casa Borbone. Dopo l’Unità d’Italia fu eletta residenza napoletana dei Savoia.

9 Palazzo Salerno

Piazza Plebiscito, 32 – Napoli

Palazzo Salerno è un edificio di interesse storico-monumentale costruito alla fine del XVIII secolo: è opera di Francesco Sicuro (architetto e incisore messinese). Il tutto ebbe inizio nel 1775: il complesso divenne prima residenza del ministro John Acton e successivamente sede dei Ministri di Stato di Sua Maestà Borbonica (sino al 1825). Al giorno d’oggi invece l’edificio ospita il generale delle forze armate nell’Italia meridionale.

 

 

10 Villa Pignatelli

Largo Principessa Rosina Pignatelli, 201 – Napoli

Villa Pignatelli ospita il Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes. Voluta nel 1826 dal baronetto Sir Ferdinand Richard Acton la villa venne realizzata da Pietro Valente cui successe nel 1830 Guglielmo Bechi. Qualche anno dopo la morte di Sir Acton, nel 1841, la villa venne acquistata dalla famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, che la abitarono fino al 1860. Nel 1867 la villa fu ceduta ai Pignatelli Cortes d’Aragona che ne furono proprietari fino al 1952.

 

11 Villa Lucia

Via del Parco Grifeo, 63 – Napoli

Villa Lucia è situata accanto al Parco di Villa Floridiana, a cui è appartenuta fino al XIX secolo e da cui adesso è separata da un muro di cinta. Agli inizi del XX secolo la villa, acquistata dall’industriale e collezionista d’arte Garofalo, iniziò ad essere frequentata da numerosi artisti ed architetti. Oggi l’edificio è a tutti gli effetti un condominio di lusso, sebbene fino agli anni cinquanta sia stata utilizzata per mostre d’arte ed eventi mondani.

12 Villa Floridiana

Via Aniello Falcone, 170-180 – Napoli

Villa Floridiana è una costruzione di interesse storico ed artistico importante per la città di Napoli. Il nome deriva da Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, moglie di Ferdinando IV di Borbone che nel 1815 comprò la tenute per lei. Il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina è, dal 1927, ospitato all’interno della struttura: è un museo dedicato alle arti decorative. Splendidi sono gli interni dell’abitazione, così come molto curato è il parco che circonda la villa

 


I Musei

1 Museo di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – Napoli

La Reggia di Capodimonte venne edificata per volere del re Carlo di Borbone nel 1738. Nella reggia, all’interno dell’omonimo parco troviamo il Museo Nazionale di Capodimonte che ospita la più importante e ricca pinacoteca dell’Italia meridionale oltre a dipinti, sale espositive e importanti porcellane. La Reggia è circondata da giardini ben curati e ricchi di piante. Il bosco si estende per circa 124 ettari.

Aperto tutti i giorni, tranne il mercoledì, dalle 8.30 alle 19.30. Ingresso € 9, ridotto € 5.

 

2 Osservatorio Astronomico di Capodimonte

Salita Moiariello, 16 – Napoli

Fu fondato nel 1812 da re Gioacchino Murat. Accanto all’Osservatorio vi è il Museo Astronomico di Capodimonte, suddiviso in tre nuclei principali: il Museo degli Strumenti Astronomici che presenta una collezione di strumenti dell’800 e del ‘900, il Padiglione di Bamberg dedicato alla misurazione del tempo ed il il Padiglione di Repsold, con il il telescopio rifrattore equatoriale.

3 Museo Archeologico Nazionale

Piazza Museo Nazionale, 18 – Napoli

La costruzione iniziò nel 1586 come caserma di cavalleria. Nel 1612 diventò la nuova sede dell’Università. Trasformato in “Real Museo”, ospitò le collezioni archeologiche provenienti da Ercolano, Pompei e Stabia. In seguito fu ridenominato “Real Museo Borbonico”, per poi essere titolato “Nazionale” da Garibaldi, inglobando le collezioni archeologiche, artistiche e bibliografiche dai re Carlo III, Ferdinando IV, Francesco I e Ferdinando II di Borbone.

Aperto tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 9.00 alle 19.30. Ingresso € 6,50.

 

4 Galleria dell’Accademia delle Belle Arti

Via Vincenzo Bellini – Napoli

L’Accademia, che ha sede nell’ex convento di S.Giovanni delle Monache, venne fondata nel 1752 da Carlo di Borbone. L’edificio è uno dei più rappresentativi della corrente neorinascimentale che influenzò l’architettura napoletana nell’800. La collezione è divisa in 5 nuclei fondamentali: dipinti antichi, dipinti dell’’800, dipinti del ‘900, sculture, disegni e la celebre Sala Palizzi. L’esposizione narra la storia dell’Accademia e l’evoluzione culturale e artistica di Napoli. Aperto da martedì a sabato dalle 10.00 alle 14.00. Ingresso gratuito.

5 Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina

Via Luigi Settembrini, 80 – Napoli

Il Museo è ospitato nello storico palazzo Donnaregina. L’esposizione permanente vanta opere di alcuni dei più noti artisti contemporanei del panorama internazionale, Horn, Kapoor, LeWitt, Kounellis, e tra gli italiani, Clemente, Paladino, Serra. Si può ammirare anche la collezione storica costituita grazie al prestito a tempo indeterminato di opere da parte di grandi collezionisti italiani e stranieri. Il Museo ospita inoltre mostre temporanee ed eventi durante tutto l’anno.

Aperto da lunedì a domenica dalle 10.30 alle 19.30; la domenica fino alle 23.00.

 

6 Museo del Tesoro di San Gennaro

Via Duomo, 149 – Napoli

L’ingresso del Museo (aperto dal 2003) è situato accanto al Duomo. Secondo uno studio fatto da esperti questo tesoro sarebbe addirittura più ricco di quello della corona d’Inghilterra della regina Elisabetta II e degli zar di Russia. La collezione espone gioielli, statue, busti, tessuti pregiati e dipinti di grande valore. Unica nel suo genere è la pregevole collezione degli argenti. Il percorso museale prevede anche la visita alle tre sacrestie della Cappella del Tesoro

.Aperto tutti i giorni dalle 9.00 alle 17.30, tranne il mercoledì a gennaio e febbraio. Ingresso € 7.

 

7 Museo Civico Gaetano Filangieri

Via Duomo, 288 – Napoli

Il Museo Gaetano Filangieri è ospitato all’interno delle sale di Palazzo Como. Il nome deriva da Gaetano Filangieri che oltre ad essere stato un giurista e filosofo, fu anche principe e mecenate delle arti. La struttura è una sorta di studio privato che raccoglie i vari tipi di produzione artistica locale, oltre che nuovi progetti ed esperimenti artistici. La collezione offre un’ampia visione del panorama artistico napoletano, oltre ad una biblioteca e ad una pinacoteca.

8 Archivio di Stato di Napoli

Piazzetta Grande Archivio – Napoli

L’Archivio di Stato di Napoli, con i suoi oltre 50.000 m lineari di scaffalature, è di fondamentale importanza per la storia dell’Italia Meridionale dal X secolo ad oggi. L’Archivio di Stato nacque nel periodo napoleonico, il 22 dicembre 1808, per concentrare in un sol luogo gli antichi archivi del regno. Con ingresso da via Grande Archivio, ha sede nel monastero dei Ss. Severino e Sossio, in cui vi sono quattro chiostri del XVI e XVII secolo.

Aperto da lunedì a venerdì dalle 8.00 alle 19.00; sabato dalle 8.30 alle 13.30.

 

9 Centro Musei delle Scienze Naturali

Via Mezzocannone, 8 – Napoli

Istituito nel 1992, è costituito da un museo di Mineralogia, Zoologia, Antropologia, Paletnologia, collocati in edifici borbonici. Attualmente il centro offre esposizioni, un percorso sull’evoluzione del pensiero scientifico, nuovi sistemi interattivi, mostre, dibattiti e convegni.

Aperto da lunedì a venerdì dalle 9.00 alle 13.30, il lunedì e il giovedì anche dalle 15.00 alle 17.00. Ingresso € 2,50.

 

10 Museo Civico di Castel Nuovo

Piazza Municipio, 68 – Napoli

Il Museo civico di Castel Nuovo, come suggerisce il nome, è ospitato all’interno delle sale dell’omonimo castello a partire dal 1990. Tra le opere presenti, diverse sono quelle provenienti dalla Reale Casa della Santissima Annunziata. Orgoglio del museo sono: la Cappella Palatina (conserva pitture giottesche) e la Porta Bronzea (in origine ubicata all’ingresso del castello). Al primo e al secondo piano poi troviamo anche diverse opere e dipinti.

11 Museo Nazionale di San Martino

Largo San Martino, 5 – Napoli

Fu aperto al pubblico nel 1866 all’indomani dell’Unità d’Italia. Per volontà dell’archeologo Giuseppe Fiorelli gli ambienti della Certosa furono destinati a raccogliere in un museo testimonianze della vita di Napoli e dei Regni. Tra le altre si può ammirare la Collezione di porcellane Orilia , la sezione navale con vari modelli di imbarcazioni reali, la Pinacoteca con opere di Giordano, Spadaro e Caracciolo.

Aperto tutti i giorni, tranne il mercoledì dalle 8.30 alle 19.30.


 

12 Museo della Ceramica Duca di Martina

Via Domenico Cimarosa, 77 – Napoli

Il Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina ospitato all’interno di Villa Floridiana dal 1927, è un museo sede di una delle più grandi collezioni italiane di arti decorative. All’interno possiamo trovare oltre seimila opere di manifattura occidentale ed orientale. Tali opere sono databili dal XII al XIX secolo, il nucleo più ricco a livello numerico è costituito dalle ceramiche. Negli ultimi anni è stata poi anche allestita una sezione d’arte orientale.

Aperto tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 8.30 alle 14.00. Ingresso gratuito.


I Monumenti

1 Fontana del Gigante

Via Partenope, 48 – Napolifontana-del-gigante

E’ una splendida fontana risalente agli inizi del Seicento, progettata dal Bernini e dal Naccherino. I due nomi derivano dalle posizioni originarie: vicino al Palazzo Reale (dove c’era la statua del Gigante) prima, e al molo, nei pressi della costruzione detta dell’Immacolatella, poi. Questa struttura trovò la collocazione definitiva e attuale solo nel 1905. Sugli archi troviamo tre stemmi: quello del viceré, quello del re e quello della città.

2 Stazione Zoologica

Via Francesco Caracciolo – Napoli

E’ composta dall’Acquario più antico d’Europa, nel quale sono presenti 200 specie di animali e vegetali provenienti dal golfo di Napoli, l’Erbario con oltre 2000 esemplari, la Collezione Geologica costituita dai 3500 esemplari, la Biblioteca che custodisce circa 50000 volumi e l’Archivio Storico. Da osservare sono anche gli affreschi che decorano le sale ed i busti in gesso di E. van Baer e C.Darwin.


3 Fontana Gruppo Europa

Viale Antonio Dhorn – Napolieuropa

La Fontana del ratto d’Europa è una delle fontane storiche della città. Venne costruita nella seconda metà del XVIII secolo e posta alla Marinella, solo nel 1807 invece venne spostata nell’attuale posizione: la villa comunale. E’ opera di Angelo Viva: scultore italiano nato, vissuto e morto in città. Nel centro della struttura troviamo una figura femminile intenta a trattenere il proprio manto, ai lati ci sono invece due sirene.

4 Fontana del Sebeto

Via Francesco Caracciolo, 1f – Napoli

La Fontana del Sebeto venne edificata su progetto di Cosimo Fanzago (scultore, architetto e nobile italiano che operò soprattutto a Napoli) per volontà di Manuel de Acevedo y Zúñiga, che fu Viceré del Regno di Napoli. Prima era situata nell’attuale via Cesario Console. Nella scultura troviamo un vecchio che simboleggià il fiume Sebeto: l’antico corso d’acqua che scorreva nel cuore della città. Il nome deriva appunto da questo.


Le Vie e le Piazze

1 Spaccanapoli

Vico Paparelle al Pendino, 13 – Napoli

Spaccanapoli è una delle strade più celebri di Napoli, dove arte, tradizione, storia e cultura napoletana si uniscono. Il nome deriva dal fatto che divide nettamente la città tra il nord e il sud con precisione quasi geometrica. Percorrere Spaccanapoli è come attraversare la storia di Napoli, incontrando lungo il suo tragitto le testimonianze del passato della città ed i suoi tesori artistici.

2 Via San Gregorio Armeno

Via San Gregorio Armeno – Napoli

È famosa in tutto il mondo per le svariate botteghe dedicate all’arte del presepe, aperte tutto l’anno. Sembra che la tradizione presepiale abbia un’origine remota: nella strada, in epoca classica, esisteva un tempio dedicato a Cerere, alla quale i cittadini offrivano piccole statuine di terracotta, fabbricate nelle botteghe vicine. Oggi si trovano anche oggetti kitsch: la statuetta del politico o del VIP del momento è divenuta abituale sulle bancarelle della via.san-gregorio-armeno1

3 Piazza San Domenico Maggiore

Piazza San Domenico Maggiore – Napoli

È uno dei luoghi più significativi della città, rappresenta il limite orientale delle mura di Neapolis. La piazza risale al periodo aragonese; fu voluta da Alfonso I d’Aragona. A lui si deve la grande scalinata a fianco dell’abside della chiesa. L’obelisco centrale a forma piramidale è ornato da marmi, medaglioni e bassorilievi e reca alla sua sommità una statua di San Domenico Maggiore; fu eretto dai napoletani come ringraziamento per essere scampati ad un’epidemia di peste.

4 Piazza del Gesu’ Nuovo

Piazza Del Gesu’ Nuovo – Napoli

È una delle piazze più suggestive e caratteristiche del centro storico. Prende il nome dalla cinquecentesca Chiesa del Gesù Nuovo, uno dei migliori esempi di barocco napoletano. Particolari della sua facciata furono riprodotti sul lato posteriore delle banconote da diecimila lire degli anni ‘70. Elemento di spicco della piazza è l’Obelisco dell’Immacolata, maestosa guglia di marmo bianco, alto 40 metri e costruito nel 1747 con i proventi di una raccolta popolare.

5 Piazza Dante

Piazza Dante – Napoli

In origine ospitava i mercati ed altri scambi commerciali, oggi invece è meta turistica per la presenza del Foro Carolino, voluto da Carlo III di Borbone, un emiciclo al centro del quale doveva essere innalzata la statua equestre del sovrano. In verità il monumento non fu mai eseguito, ma lungo il perimetro furono poste 26 statue raffiguranti le virtù del sovrano. Al centro della piazza si erge il monumento a Dante Alighieri, opera di Tito Angelini, del 1871.

6 Via Toledo

Via Toledo – Napoli

E’ una della principali strade di Napoli con edifici storici, palazzi nobiliari, chiese, teatri, caffè e svariati negozi e boutique di marchi prestigiosi. Il nome è in onore dell’artefice della sua costruzione, il vicerè Pedro de Toledo (1536), la cui idea era stata quella di collegare la zona fuori le mura del largo di Mercato con il nuovo quartiere di Chiaja. Dopo l’Unità d’Italia, dal 1870 al 1980, mutò nome in Via Roma in onore della nuova capitale del Regno.

7 Corso Umberto I

Corso Umberto I – Napoli

Corso Umberto I è una via elegante della città, la lunghezza è di 1,3 km ed è anche conosciuta con il nome di Rettifilo. Il nome deriva dal fatto che sia sorta in epoca umbertina, in poco tempo, alla fine dell’800. La via collega Piazza Garibaldi con Piazza Giovanni Bovio (Piazza Borsa), e percorrendola troviamo anche la Piazza Nicola Amore, intitolata al sindaco che fu l’artefice del Risanamento.

8 Piazza Mercato

Piazza Mercato – Napoli

Piazza del Mercato è una delle piazze storiche della città. Nei pressi troviamo la Basilica del Carmine Maggiore. Deve il proprio nome agli Angioini che ne fecero un grande centro commerciale cittadino, ribattezzandolo Mercato di Sant’Egidio e, quindi, Piazza Mercato appunto. Qui troviamo le chiese di Santa Croce e Purgatorio al Mercato e quella di Sant’Eligio Maggiore, oltre a due fontane-obelischi che decorano la piazza.

9 Piazza Municipio

Piazza Municipio – Napoli

Piazza del Municipio, di forma semi-rettangolare, è una delle piazze più grandi d’Europa. Domina la piazza il Castel Nuovo, è presente anche il Teatro Mercadante. Nelle vicinanze troviamo il porto di Napoli mentre sempre sulla piazza vi è il Palazzo San Giacomo, o più semplicemente il Municipio, sede degli uffici comunali. Troviamo poi la Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. Sullo sfondo spicca maestoso il Vesuvio.

10 Galleria Umberto I

Via San Carlo, 13 – Napoliumberto 1

Costruita tra il 1887 e il 1890, la Galleria Umberto I è una galleria commerciale edificata durante la ristrutturazione edilizia e bonifica territoriale avvenuta a Napoli a partire dal 1884, in seguito all’epidemia di colera. La larghezza è di ben 15 metri, vi sono quattro ingressi: il più importante è quello situato di fronte al Teatro San Carlo. Ogni anno la Galleria viene utilizzata, tra le altre cose, per accogliere l’albero di Natale cittadino.

11 Piazza Plebiscito

Piazza Plebiscito – NapoliBilder für Wikipedia

È la più grande e rappresentativa piazza di Napoli. Il nome celebra il Plebiscito con cui nel 1860 il Regno delle due Sicilie si univa al Piemonte dei Savoia. E’ delineata da 4 costruzioni: la chiesa di San Francesco di Paola, il Palazzo Reale, il Palazzo Salerno ed il Palazzo della Foresteria. Al centro della piazza s’innalzano due statue equestri del Canova, raffiguranti Ferdinando I e Carlo III di Borbone.

 

 

12 Via Caracciolo

Via Francesco Caracciolo – Napoli

È una parte del lungomare di Napoli, una delle più belle litoranee del mondo, il cui nome celebra l’ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della Repubblica Partenopea, giustiziato nel 1799 e gettato nelle acque del Golfo di Napoli. All’inizio del lungomare si può ammirare la seicentesca fontana del Sebeto, proseguendo si arriva al porticciolo di Mergellina, con i pescatori che vendono il pesce dalle barche. Più avanti si trovano i giardini e gli alberi della Villa Comunale.


Attrazioni e Teatri

1 Guglia dell’Immacolata

Piazza Ges – Napoli

L’Obelisco dell’Immacolata è il più famoso degli obelischi della città. All’inizio era un monumento equestre a Filippo V. La splendida guglia barocca dedicata all’Immacolata venne innalzata nel 1747 per volere dei Gesuiti grazie ad una colletta pubblica.

2 Palafrenieri

Via Vittorio Emanuele III, 51 – Napoli

I Palafrenieri sono due statue equestri bronzee esposte ai lati della porta del giardino del Palazzo Reale. Vennero eseguite dallo scultore russo Pjotr Klodt Von Jurgensburg e donate nel 1846 a Ferdinando II di Borbone re di Napoli, dallo zar di Russia Nicola I. Le statue prendono anche il nome di Cavalli russi e la porta, a sua volta, è anche conosciuta come Porta dello zar.

3 Salone Margherita

Via San Carlo, 11 – Napoli

Il Salone Margherita è un luogo ricco di fascino e di storia situato nel ventre di Napoli sotto la Galleria Umberto I. Venne creato verso la fine dell’ottocento per volere dei fratelli Marino. La struttura seguiva l’esempio dei cafèchantant francesi e divenne ben presto il simbolo della Belle époque italiana. L’idea fu talmente vincente che ricalcò del tutto il modello francese: persino nella lingua utilizzata. Il teatro fu chiuso nel 1982 ma riaperto successivamente.

4 Teatro San Carlo

Via San Carlo, 98d – Napoli

È il più antico teatro d’opera europeo ancora attivo, nonché il più capiente teatro italiano; è inoltre riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Fondato nel 1737 per volontà di Carlo I di Borbone che affidò il progetto a Giovanni Antonio Medrano, l’edificio comunicava con il Palazzo Reale, in modo che il Re potesse recarsi agli spettacoli senza dover scendere in strada. Gioacchino Rossini e Donizzetti furono direttori musicali al Teatro San Carlo.
Castelli

1 Castel dell’Ovo

Via Luculliana – NapoliVisitare-Castel-dell’Ovo-Napoli

Sull’isolotto di Megaride sbarcarono i cumani nel VII secolo per fondare la città. Durante la dominazione spagnola passò da dimora reale a prigione. Si narra che dal castello dipendano le sorti della città: Virgilio vi nascose un uovo, se questo si fosse rotto il castello sarebbe crollato; cosa che avvenne nel 300, a causa di un terremoto. Imperdibile la vista su tutto il golfo di Napoli offerta dalla terrazza dei cannoni.

2 Castelnuovo – Maschio Angioino

Piazza Municipio, 68 – Napoli

maschio-angioino

È uno dei simboli della città. La sua costruzione, nel 1266, si deve a Carlo I d’Angiò. Con Roberto il Saggio, il castello divenne centro di cultura: ospitò personalità come Petrarca e Boccaccio e pittori come Giotto vennero chiamati ad affrescarne le pareti. Vi dimorarono illustri sovrani. Nel 1799 fu sede della proclamazione della Repubblica Partenopea. Ospita attualmente il Museo Civico di Castel Nuovo. Da visitare: la Cappella Palatina e la Sala dei Baroni.

 


3 Castel Sant’Elmo

Largo San Martino, 13 – Napoli

È un castello medioevale di tufo, caratterizzato da una pianta a stella con sei punte. Di epoca angioina, ha subito nel tempo numerose trasformazioni. Durante la rivoluzione di Masaniello fu rifugio del duca d’Arcos, nel 1799 fu preso dal popolo per poi essere occupato dai repubblicani. Dalla Piazza d’Armi in cima al castello si ha un panorama indimenticabile. È possibile accedere alle antiche carceri di molti personaggi noti.

4 Castel Capuano

Via Concezio Muzii, 1-45 – Napoli

Costruito in epoca normanna è il più antico castello di Napoli. Concepito come fortezza, divenne la residenza reale di Federico II di Svevia e, nel XVI sec., sede dell’amministrazione giudiziaria. Si possono ammirare il Salone della Corte d’Appello e la Cappella della Sommaria con i loro pregevoli affreschi, dipinti e decorazioni a stucco, e la sala dei Busti che ospita i busti in marmo degli avvocati più famosi del foro.

 

 

Un po’ di tutto

1 Parco Di Capodimonte

Via Capodimonte, 22 – Napoli

Il Parco di Capodimonte è la maggiore area verde della città. Si estende su un’area di 134 ettari. Si presenta con boschi intervallati da ampie praterie, valloni solcati da piccoli torrenti e aree ricche di cave, caratteristica tipica delle colline napoletane. Il parco fu voluto da Carlo III di Borbone nel 1734. Fu concepito inizialmente come riserva da caccia ma con il Re Ferdinando II fu trasformato in giardino all’inglese, assumendo l’aspetto che conserva attualmente.

2 Catacombe di San Gennaro

Tondo di Capodimonte 13 – Napoli

Il nucleo originario si sviluppò attorno alla tomba di una ricca famiglia romana del II secolo., nel III secolo accolse le spoglie di Sant’Agrippino, vescovo di Napoli, e di San Gennaro, divenendo luogo di venerazione. Nel 831 il principe longobardo Sicone I, assediando la città di Napoli, si impossessò dei resti di San Gennaro e li portò a Benevento. Importanti affreschi e mosaici decorano gli ambienti e le tombe più importanti di santi e vescovi.

3 Catacombe di San Gaudioso

Piazza della Sanità, 1-17 – Napoli

Risalenti al IV sec. furono dedicate a Gaudioso, ivi sepolto, dopo che la sua barca, proveniente dall’Africa settentrionale dove era vescovo, miracolosamente approdò a Napoli. Nei cubicoli vi sono affreschi del IV-V e VI sec. e un mosaico della fine del V sec. Sono visibili anche alcuni teschi a causa dell’usanza di adagiare i defunti su sedili in pietra forati con lo scopo di lasciarli disseccare, murando poi tutto il corpo e lasciando affiorare soltanto la testa.

4 Crypta Neapolitana

Salita della Grotta, 12 – Napoli

O Grotta di Posillipo è una galleria lunga 711 m. scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia). La tradizione vuole che la galleria sia stata realizzata da Virgilio in una sola notte, col ricorso alla sua potente arte magica. La leggenda narra che Roberto d’Angiò sottopose la questione al Petrarca, e questi rispose, scherzando: “Non mi è mai capitato di leggere che Virgilio fosse un tagliapietre.”

Ville

1 Villa Doria d’Angri

Via Francesco Petrarca, 80 – Napoli

Villa Doria d’Angri deve il proprio nome a Marcantonio Doria d’Angri, principe ed esponente di spicco della famiglia di origini genovesi. E’ la più importante villa neoclassica della zona, è situata nel quartiere di Posillipo. Questa imponente struttura storico-artistica venne edificata nel 1833, ed è molto caratteristica in quanto sembra che fuoriesca dalla roccia. La villa oggi è sede dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” (facoltà di economia).

2 Palazzo Donn’Anna

Piazza Donn’Anna – Napoli

“Palazzo Donn’Anna non è una rovina: è soltanto incompiuto! Non è forse questo il suo fascino?”. Frase tratta da “Fuoco su di me” film del 2006 girato in città. L’edificio risale al XVII secolo, prende il nome da Donna Anna Carafa, consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres, la quale diede commissione di costruire l’edificio, edificio che restò incompiuto a causa della morte di Donn’Anna. E’ uno dei più celebri palazzi di Napoli.

3 Villa Volpicelli

Via Ferdinando Russo, 4-14 – Napoli

Il nome deriva da Raffaele Volpicelli che acquistò la villa nel 1884. La struttura è una delle più belle di Posillipo, quartiere in cui è situata. Particolarmente interessante è l’ampio giardino, nascosto da un muro di cinta: esso si distende in prossimità del mare e sfiora le proprietà della vicina Villa Rosebery.

4 Villa Rosebery

Via Ferdinando Russo – Napoli

Villa Rosebery è uno dei più importanti punti di riferimento del neoclassicismo della città. E’ situata nel quartiere Posillipo. Fu residenza reale, oggi è importante perchè oltre alla particolare bellezza che la contraddistingue è la residenza del Presidente della Repubblica Italiana quando si reca a Napoli. Per questo motivo, se non in qualche periodo dell’anno, non è visitabile

Mergellina e Posillipo

1 Mergellina

Piazza Sannazzaro, 200 – Napolimergellina

E’ una zona della città di Napoli, romantica e leggendaria, cantata dai poeti, situata in riva al mare. Il nome deriva dalla posizione sul Golfo e dal termine “mergoglino” (uccello acquatico). Il piccolo porto di Mergellina oggi è diventato un punto turistico mentre prima era luogo di pescatori. Da qui partono ogni giorno gli aliscafi per le isole del golfo. La zona possiede un’importante stazione ferroviaria e una funicolare che collega Mergellina conPosillipo.

2 Crypta Neapolitana

Salita della Grotta, 12 – NapoliLa-Crypta-Neapolitana-2-1024x680

O Grotta di Posillipo è una galleria lunga 711 m. scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia). La tradizione vuole che la galleria sia stata realizzata da Virgilio in una sola notte, col ricorso alla sua potente arte magica. La leggenda narra che Roberto d’Angiò sottopose la questione al Petrarca, e questi rispose, scherzando: “Non mi è mai capitato di leggere che Virgilio fosse un tagliapietre.”

3 Posillipo

Via Posillipo, 166 – Napoliposillipo

Posillipo è un sobborgo residenziale collinare della città, quartiere cittadino solo dal 1925, prima era una frazione. E’ una delle zone più belle e prestigiose della città. Il nome deriva dal greco Pausilypon che significa “tregua dal pericolo” o “che fa cessare il dolore”: questo perchè il panorama che si può godere e che si godeva anche duemila e cinquecento anni fa da questa zona è davvero splendido. Questa è una tappa obbligata per i turisti.

4 Mausoleo Schilizzi

Via Posillipo, 157 – Napoli

Il Mausoleo Schilizzi (conosciuto anche come Mausoleo di Posillipo o Ara votiva per i caduti della patria) è un monumento funebre dedicato ai caduti della prima guerra mondiale. Sorse nel quartiere Posillipo tra il 1881 ed il 1889 e rappresenta uno dei più interessanti esempi di architettura neo-egizia italiana. Attualmente ospita anche i caduti della seconda guerra mondiale, compresi quelli delle Quattro giornate di Napoli. Progettato e costruito dall’architetto A. Guerra.

 

Fuorigrotta

1 Mostra d’Oltremare

Piazzale Vincenzo Tecchio – Napoli

La Mostra d’Oltremare è una delle principali sedi fieristiche italiane e, assieme alla Fiera del Levante, la maggiore del mezzogiorno. Si estende su una superficie di 720.000 m² comprendente edifici di notevole interesse storico-architettonico, oltre a padiglioni espositivi più moderni, fontane, un acquario tropicale, giardini con una grande varietà di specie arboree e un parco archeologico.

2 Stadio San Paolo

Piazzale Vincenzo Tecchio, 70 – Napoli

Lo Stadio San Paolo di Napoli sorge nel quartiere di Fuorigrotta ed è il principale impianto polisportivo della città. È conosciuto soprattutto dal punto di vista calcistico, essendo sede delle partite interne della SSC Napoli. Lo stadio è in realtà una struttura polisportiva, dotata di palestre polifunzionali e di arti orientali, e inoltre di un campo da basket. Battezzato come Stadio del Sole, la struttura venne inaugurata il 6 dicembre 1959.

3 Fontana dell’Esedra

Via Terracina, 188 – Napoli

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La fontana fu progettata nel 1938 da due architetti, Carlo Cocchia e Luigi Piccinato, e inaugurata nel 1940. Fu voluta dal regime fascista, in quanto doveva celebrare il colonialismo italiano. L’inaugurazione fu spettacolare: venne eseguita la sinfonia “Fontane d’Oltremare” e i getti d’acqua erano sincronizzati con la musica. Il 23 maggio 2006, dopo circa trent’anni di abbandono la fontana è stata restaurata e nuovamente inaugurata.

4 Zoo di Napoli

Via John Fitzgerald Kennedy, 143 – Napoli

Lo zoo nasce nel 1940, ma a causa della Seconda guerra mondiale viene aperto permanentemente al pubblico solo nel 1949. Uno dei primi zoo italiani ad aprire i battenti, verrà considerato per tutta la seconda metà del ‘900 un luogo ideale per ricerche scientifiche, assumendo fama in tutta Europa, dato che ospitava decine di specie animali a rischio di estinzione nel loro habitat naturale. È in atto un piano per rivalutare lo Zoo di Napoli, adeguando gli spazi per gli animali.

SHOPPING

Napoli è sicuramente una meta ideale per chi ama fare shopping. La città offre, infatti, una varietà di possibilità, con prezzi che variano da una zona all’altra. A seconda della disponibilità delle tasche, si può scegliere tra negozi di grandi firme, negozi con prezzi più economici oppure i caratteristici mercatini popolari. Gli amanti dello shopping di lusso non potranno fare a meno di fare una passeggiata per le eleganti strade di via dei Mille, via Calabritto, via Filangieri e via Carlo Poerio, ricche di famose boutique delle marche più prestigiose della moda italiana e non. Per chi invece vuole fare acquisti a buon prezzo e trovare fantastiche occasioni, il posto giusto è il centro storico di Napoli, in particolare la caratteristica via Toledo e Corso Umberto. Qui troverete molti negozi con prezzi accessibili. Il Vomero è un’altra zona molto rinomata per lo shopping napoletano, passeggiando per Via Scarlatti e Via Luca Giordano, potrete trovare grandi marchi, ma è addentrandovi per i vicoletti che potreste fare i veri affari. Non dimenticate di fare una sosta nella storica bottega di cravatte di Marinella, nei pressi di Piazza Vittoria, famosa in tutta il mondo per la qualità e la bellezza dei capi venduti.

Lo shopping costoso della zona di Chiaia

Se deciderete di passeggiare lungo le eleganti strade di via dei Mille, via Calabritto e via Carlo Poerio potrete ammirare le splendide vetrine delle marche più famose come quelle di Gucci, Louis Vuitton, Ferragamo e Cartier. Accanto ai negozi di alta moda potrete apprezzare le antiche e affascinanti botteghe sartoriali di stampo assolutamente partenopeo. Ma ancor più elitaria è quella lingua di strada, piccola e spesso molto trafficata, che segue via dei Mille ovvero via Filangieri, con le sue scintillanti e seducenti vetrine di Pomellato, Hermès e Bulgari. Sempre nella zona di Chiaia, a Piazza dei Martiri, potrete fare un giro nel maxistore Feltrinelli per anche solo sfogliare qualche libro, in un’atmosfera serena e rilassante, in attesa di trovare quello giusto da comprare. Dopo la passeggiata nel mondo dei libri, per trovare il giusto equilibrio tra cultura e shopping sfrenato, dirigetevi verso il negozio di Tramontano a via Chiaia, dove vi innamorerete delle pregiatissime e anche costosissime borse fatte a mano secondo un’antica tradizione napoletana. Verso piazza Vittoria andate a visitare, quasi fosse un museo, la raffinata bottega delle mitiche cravatte di Marinella conosciute in tutte il mondo. I vostri occhi non potranno credere all’incredibile quantità di cravatte adagiate sul massiccio bancone di legno e la scelta non sarà facile anche perché il negozio è piuttosto angusto e i clienti sono veramente tanti.

Il Centro Storico è per tutte le tasche

Se volete immergervi in un’atmosfera più semplice e caratteristica, ma soprattutto se desiderate fare acquisti a buon prezzo e spesso anche dei veri e propri affari, non dovete far altro che dirigervi verso il centro storico della città. Non potete non provare l’emozione di passeggiare lungo Via Roma, che vi sorprenderà con i suoi folcloristici vicoletti che conducono alle particolari e spesso caotiche atmosfere dei quartieri spagnoli, e lungo il Corso Umberto, che è sempre illuminato, anche se non è Natale, dalle insegne dei suoi numerosissimi negozi. In questa zona c’è una grande concentrazione di catene commerciali come Benetton, Sisley, Stefanel, Phard, Camomilla, Calzedonia e per le più giovani Bershka, Zara e Pull and Bear. Ma ce n’è per tutti i gusti anche nell’ambito delle calzature: scarpe di ogni tipo e a qualsiasi prezzo per grandi e piccini. Per gli amanti delle carte particolari segnaliamo “I Cartigiani” nella zona delle Università, in cui potrete farvi fare un diario su misura scegliendo tra le numerosissime varietà di carta o anche acquistare album e cornici fatte a mano con un lavoro attento e meticoloso.

Le passeggiate al Vomero

Le colline del Vomero sono spesso proibitive per chi vuole fare un po’ di shopping non impegnativo, ma al di là delle strade principali come Via Scarlatti e Via Luca Giordano, i vicoletti un po’ più nascosti potrebbero nascondere dei veri e propri affari per le vostre tasche. Vi consigliamo comunque di dedicare un pomeriggio alle strade di questo quartiere perché anche solo ammirare le vetrine passeggiando tra le due schiere di alberi nella pedonale Via Scarlatti, o godersi la tranquilla atmosfera di Via Luca Giordano, recentemente vietata alle macchine, può risollevarvi il morale e farvi trascorrere qualche ora all’insegna del relax. Del resto se è vero che la shopping terapia aiuta a sentirsi meno tristi, è ugualmente giusto affermare che anche solo dare uno sguardo alle vetrine in un luogo accogliente fa sentire ugualmente bene.

Mercatini: una realtà parallela

Non dovete assolutamente perdere l’appuntamento con almeno uno dei mercatini che vi offre la città di Napoli. Nonostante siano tutti affollati, disordinati e caotici, sono molto amati non solo dalle persone in cerca di occasioni, ma anche da coloro che desiderano immergersi in un’atmosfera particolare per cogliere quel lato di Napoli che probabilmente altrove è inafferrabile. In tutti i mercatini le voci si mescolano, si confondo, “J teng a robba bon!” ( io ho della buona merce), “Signurì oggi prezzi pazzi, m’vogl ruvinà!” ( Signorina oggi prezzi molto convenienti, mi voglio rovinare!) e la gente che è lì a scavare tra le “pezze” di qualche bancarella o a trattare sul prezzo, non può far altro che sorridere e continuare a spendere con il buonumore. Il mercatino di Poggioreale, situato a un chilometro dal carcere di Poggioreale, aperto dal venerdì alla domenica, vi stupirà per la sua varietà di scarpe di qualsiasi tipo. Il mercatino di Antignano nella zona del Vomero allestisce le sue bancarelle di abiti, scarpe e accessori per la casa tutte le mattine dalle 7:00 alle 13:30; di egual tipo è il mercatino di Posillipo che apre i battenti solo il giovedì dalle 7:00 alle 13:00. Nella brulicante e variopinta Pignasecca si trova il mercato della Pignasecca che offre prodotti di vario genere, dai vestiti agli alimenti, fino agli accessori per la casa. Gli amanti dell’Antiquariato invece non possono lasciarsi sfuggire il Mercatino dell’Antiquariato nella Villa Comunale, ogni terzo sabato e domenica de mese, che desta molto interesse per il valore degli oggetti d’epoca esposti.

Se vi interessano i mercati, Napoli è il posto giusto:

Porta Nolana

Tutti i giorni dalle 8 alle 14. Piazza Porta Nolana.

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Il mercato di Porta Nolana è il più famoso mercato di pesce a Napoli. Qui, in una situazione colorata e divertente, troverete ogni tipo di prodotto ittico insieme ad alimentari vari. Durante le festività di Natale, non perdetevi le trattative per l’acquisto del capitone, la tradizionale anguilla del cenone della vigilia.Mercato-

Mercatino dell’antiquariato

Ogni terzo e quarto week-end del mese. Villa Comunale.

Un mercatino delle pulci specializzato sull’antiquariato, che anno dopo anno sta conquistando sempre più prestigio e visitatori. Qui troverete una grande varietà degli oggetti esposti, dalla cartolina d’epoca fino all’armadio fine ‘800.

mercato di posillipo

Tutti i giovedì dalle 7 alle 13. viale della Rimembranza.

In questo mercato, frequentato dalla gente “bene” di Napoli, troverete vestiti firmati, scarpe, tessuti ed accessori. Attenzione ai prezzi, non sono sempre economici.

 

Presepe Napoletano

 

Napoli vanta una lunga ed importante storia nell’arte del presepe. Questa tradizione, che ha mantenuto inalterati fino ad oggi i caratteri tipici, ha assunto un ruolo di primo piano in città, tanto che ogni anno attira numerosi turisti. Via San Gregorio Armeno, conosciuta come la “Via dei presepi”, è nota in tutto il mondo per le innumerevoli botteghe che realizzano e vendono presepi. PresepeIn questa strada, dove sembra che il Natale non finisca mai, tutto l’anno i maestri artigiani sono all’opera per realizzare i tipici presepi in sughero. Ma è soprattutto nei giorni di Natale, che la via viene presa d’assalto dai napoletani e, soprattutto, dai turisti. Qui si può trovare davvero tutto il necessario per il presepe: dalle casette in sughero di varie dimensioni, ai mulini a vento e alle cascate azionate dall’energia elettrica, dai pastori in terracotta dipinti a mano a quelli con abiti cuciti su misura. Non possono ovviamente mancare le classiche statuine dei Re Magi e della Sacra Famiglia, in tutte le dimensioni, materiali e prezzi, oltre a quelle più moderne dei fruttivendoli, pescivendoli e pizzaioli. Accanto a queste vere e proprie opere d’arte, frutto del lavoro di famiglie artigiane che si tramandano quest’arte da generazione a generazione, si trovano oggetti stravaganti, ironici e a volte anche irriverenti: la statuetta del politico o del VIP del momento è oramai divenuta uno dei classici sulle bancarelle di via San Gregorio Armeno. Tanto che alcuni artigiani si sono specializzati nella realizzazione di queste atipici pastori. Come non dimenticare Maradona con il suo pallone negli anni d’oro del Napoli o Di Pietro quando era ancora giudice con la schiera di politici condannati durante Tangentopoli. In questo clima colorato e divertente si rivive una Napoli viva e realistica che ancora esiste. Ricordate che se volete acquistare una statuetta in genere si parte dai 35-45 euro per modelli semplici, fino ad arrivare alle migliaia di euro per quelli che riproducono i pastori classici del Settecento.

 

Credenze popolari

 

Napoli è famosa per essere la città delle leggende, dei misteri, ma soprattutto delle superstizioni e dei numeri. La superstizione, che ha origini antichissime, tanto che lo stesso Cicerone la citava nelle sue opere, è la credenza, irrazionale, che particolari atteggiamenti e comportamenti possano avere delle ripercussioni, prevalentemente di carattere negativo, su eventi futuri. Questa poi si trasforma in malocchio quando si basa sull’attribuzione di un potere malefico alle persone. Ma come proteggersi dal malocchio? Oltre agli scongiuri, i napoletani credono nel potere degli amuleti, tra i quali il ferro di cavallo, il gobbetto, il numero 13, ma soprattutto il corno e le corna. Il corno, in particolare, è l’amuleto più diffuso e venduto a Napoli. Ritenuto auspicio di fertilità già nel neolitico, il corno per assolvere il suo scopo deve rispettare dei particolari caratteri: deve essere regalato, deve avere una forma a punta e sinusoidale, deve essere fatto a mano, deve essere duro, e deve essere di color rosso. In città la superstizione è legata anche al gioco del Lotto ed alla lettura della Smorfia. Questo gioco, originariamente conosciuto come “gioco del seminario”, si diffuse nel 1576, quando il patrizio genovese Benedetto Gentile decise di associare ai 120 candidati alla carica di membro del collegio della Repubblica 120 numeri imbussolati in un’urna chiamata “seminario”. A quel punto non mancavo le scommesse sui 5 nomi estratti, che avrebbero fatto parte del Collegio. Oggi i napoletani per avere i numeri giusti si affidano alla smorfia ( da Morfeo), libro che associa ad ogni evento o sogno un numero. Il personaggio più nominato e temuto dai napoletani è “ò munaciell”, lo spiritello dispettoso e stravagante, ma a volte benevole, di un bambino. La leggenda ebbe origine nel 1445, sotto il regno Aragonese, quando una giovane nobile si innamorò di un garzone. Questo amore impossibile finì in tragedia: il giovane amante fu assassinato e l’innamorata rinchiusa in un convento. Da questa relazione nacque comunque un figlio, tenuto per anni nascosto dalle suore a causa della sua deformità. “Munaciell”, chiamato così per gli abiti monacali che indossava, fu sempre temuto per i suoi poteri magici e soprannaturali. Di pari fama, ma antagonista principale del “munaciell”, è “bella mbrian”, lo spirito benigno della casa. Avere questa presenza nelle case significa infatti benessere, salute, prosperità. Rappresentata come una bella donna molto ben vestita, la “bella mbrian” viene invocata soprattutto nelle situazioni difficili. Ma ricordate di lasciarle sempre una sedia libera dove riposarsi, e di non parlare mai di eventuali traslochi, altrimenti potrebbe arrabbiarsi.

 

Sicurezza a Napoli: consigli fondamentali

Gli episodi di cronaca nera che abbondano nei telegiornali nazionali raramente riguardano i turisti e interessano parti della città molto lontane dai luoghi da visitare. Sono invece più frequenti, (anche se molto meno di quello che si pensa )scippi, truffe e imbrogli vari, che si possono evitare seguendo questi semplici consigli. I ladri napoletani “fiutano” le prede più semplici. Sanno riconoscere al volo un turista sprovveduto da uno che invece può creare problemi. Il primo consiglio, quindi, è questo: usate il buonsenso. Se avete un Rolex o un orologio di valore, non esponetelo come un trofeo. Lasciatelo a casa o nella cassaforte dell’hotel. Non andate in giro con la macchina fotografica penzolante al collo, in attesa che passi qualcuno sul motorino e ve la porti via. Per le donne: la borsetta va tenuta chiusa, stretta e sempre sotto controllo: non tanto per gli scippi, che sono diventati molto rari, ma quanto per i borseggiatori che operano nei luoghi affollati e negli autobus frequentati dai turisti. Non portare portafogli e soldi nella tasca posteriore dei pantaloni, ma davanti o nella tasca interna della giacca o del giubbino. I napoletani sono sempre molto gentili, ma se qualcuno si offre di farvi una foto o accompagnarvi da qualche parte, respingetelo con un NO fermo e allontanatevi. Può capitare che alle fermate dell’autobus qualcuno vi racconti una storia strappalacrime di medicine, malattie e soldi che vi verranno restituiti presto: salutatelo e basta. I ladruncoli che rubano negli autobus e nelle metro affollate sono degli insospettabili signori ben vestiti, quindi tenete d’occhio loro.

Uno spazio a parte meritano alcuni tecniche storiche che usano i truffatori napoletani per guadagnarsi la giornata: sono il gioco delle campane o delle tre carte e il cosiddetto “Pacco”. Nelle zone di arrivo dei turisti, soprattutto di fronte al porto e nei pressi della Stazione Centrale, ci sono gruppetti di persone che fanno finta di giocare alle tre carte su tavolini improvvisati. Attenzione, sono tutti “compari”, quasi sempre di una stessa famiglia. Uno di loro farà finta di aver vinto molti soldi per incuriosirvi e farvi avvicinare al tavolo, dove con molto insistenza vi chiederanno di puntare dei soldi che puntualmente perdente. Il Pacco: nel bene e, soprattutto nel male, è il segno della creatività napoletana. Nella zona del porto, a Piazza Garibaldi ma anche semplicemente mentre state passeggiando per strada, qualcuno vi chiederà di comprare per una cifra ridicola l’ultimo modello di telecamera, portatile, telefonino o qualsiasi altro oggetto elettronico di valore. Quello che ha in mano il truffatore è vero: quello che vi ritroverete nel pacco è un mattone, al massimo una brutta copia fatta in legno e dipinta con maestria.

CAPRI

Una delle mete turistiche più rinomate ed ambite dal turismo mondiale. L’isola di Capri è la perla del golfo di Napoli. La vegetazione lussureggiante, i colori straordinari del mare, le grotte meravigliose, l’hanno resa celebre nel mondo. Capri ha incantato nei secoli scrittori, poeti, musicisti, pittori. Tanti i registi che l’hanno scelta come sfondo per i loro film e i personaggi famosi che hanno affollato i tavolini della celebre piazzetta. Uno dei primi estimatori dell’isola fu l’imperatore romano Tiberio, che qui trascorse gli ultimi anni della sua vita. Ma la definitiva vocazione dell’isola fu scoperta alla metà dell’800, quando visitatori da tutto il mondo la scelsero come residenza, formando quella colonia cosmopolita che ha creato il mito di Capri e della Grotta Azzurra…

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Situata a 17 miglia marine a sud di Napoli, questa meravigliosa isola si estende su un’area di circa 10 km quadrati, dei quali 4 appartenenti al comune di Capri e 6 al comune di Anacapri. Per il magnifico clima, il mare cristallino e le bellezze naturali, Capri ha sempre attirato rinomati intellettuali, artisti e scrittori, tutti rapiti dalla sua magica bellezza. Tra questi Charles Dickens, che la descrive con queste poche, ma significative, parole: “In nessun luogo al mondo, vi sono tante occasioni di deliziosa quiete, come in questa piccola isola”. Questo mix di storia, natura, mondanità, cultura, eventi hanno dato vita al Mito di Capri, rendendo la città una delle mete preferite dal turismo internazionale. Per gli amanti del mare e delle immersioni l’isola offre vere e proprie perle. La costa frastagliata è, infatti, caratterizzata da numerose grotte, utilizzate in epoca romana come ninfei delle sontuose ville, e cale che si alternano a ripide scogliere. La grotta più famosa è senza dubbio la Grotta Azzurra, in cui i magici effetti luminosi furono descritti da moltissimi scrittori e poeti. Caratteristici di Capri sono anche i celebri Faraglioni, tre piccoli isolotti rocciosi a poca distanza dalla riva, che creano uno spettacolare effetto scenografico e paesaggistico. IMG_9896L’isola di Capri si trova nella parte meridionale del Golfo di Napoli ed è occupata da due altopiani, separati nel mezzo da una fertile pianura. L’isola si popolò a partire dal VIII a.c., quando greci e fenici scelsero questa terra come dimora. Ma il primo, vero estimatore di Capri fu l’Imperatore Tiberio, successore di Augusto sul trono di Roma.

Intorno al 30 d.c., Tiberio fece costruire nell’isola 12 sontuose ville, tra le quali la celebre Villa Jovis, dando a ciascuna di esse il nome di una divinità.Dalla caduta dell’Impero Romano (476 d.c.) fino a tutto l’Alto Medioevo (1000), Capri rimase sotto il controllo di Napoli, senza tuttavia venir influenzata dai cambiamenti politici che si verificavano nella città dominatrice, causati dall’alternarsi di varie dinastie, tra Angioini e Aragonesi. Nel frattempo Capri doveva risolvere ben altri problemi che continuarono per diversi secoli: presa di mira dalle continue scorrerie dei pirati e dimenticata da Napoli, la popolazione dovette spostarsi dalla costa rifugiandosi nelle alture che sorgevano all’interno dell’isola. Questo provocò una sorta di tracollo dell’economia isolana, basata soprattutto sulla pesca, ma anche la nascita dei due insediamenti urbani di Capri e Anacapri (1200).

Tra il 1200 e il 1500 l’isola fu assoggettata ai normanni e poi agli svevi, passando in mani spagnole e per ultimo, fino al crollo di Napoleone, in quelle dei francesi. È proprio a partire dal 1800 che si assiste al risveglio culturale dell’isola, e questo grazie ad un animato e crescente interesse da parte di artisti ed intellettuali europei. Attratti dallo splendido clima, dalla posizione e dalle meraviglie naturalistiche, inglesi, americani e tedeschi divennero i protagonisti di un’invasione pacifica dell’isola, la quale di conseguenza cominciò ad attrezzarsi per accogliere i turisti .Ai primi del 1900 l’isola accolse alcuni rifugiati politici, tra i quali lo scrittore russo Maxim Gorki e Lenin, seguiti negli anni Cinquanta dal celebre poeta cileno Pablo Neruda, che per alcuni anni visse in esilio nell’isola.

Capri: Arco Naturale Questo ardito Arco è la parte superstite di una grande grotta che si addentrava nella montagna. I flutti del mare ne ampliarono l’apertura e asportarono i detriti. Dopo il sollevamento dell’Isola in età paleolitica, la grotta fu sottratta all’azione erosiva delle onde ed il vento e la pioggia ne trasformarono la superficie.

 

Villa Jovis Delle dodici ville imperiali di Capri menzionate da Tacito negli Annali, Villa Jovis è la più grande. Tiberio diresse da qui le sorti dell’Impero dal 27 al 37 d.C.villa-jovis-and-santa-maria-del-soccorso

 

 

 

 

 

 

Giardini di Augusto I Giardini di Augusto, a pochi passi dalla Piazzetta, sorgono in prossimità di Via Krupp, ideata dall’industriale dell’acciaio tedesco A.F. Krupp, che a tale scopo acquistò il “Fondo Certosa”, dove in parte sorgono i giardini.augusto capri

 

Punta Cannone Sulla posizione strategica di questo pianoro, i francesi piazzarono nel 1808, un cannone per la difesa del settore sud dell’Isola. Nel ‘900 e durante il soggiorno della folta colonia di artisti tedeschi che vi sostavano per dipingere.

 

Giro dell’ Isola – Grotte Il giro in barca intorno all’Isola inizia da Marina Grande. Dirigendosi verso occidente, si costeggiano la spiaggia di Marina Grande e i Bagni di Tiberio. Il tratto di costa successivo è costituito dall’alta falesia calcarea con fenditure e grotte sormontate da una ricca vegetazione autoctona

 

Anacapri: Villa San Michele Costruita dal medico e scrittore svedese Axel Munthe sui ruderi di una villa romana, Villa San Michele é meta di un gran flusso di visitatori, mai cessato dal 1929.

 

Anacapri: Casa Rossa Nel museo della Casa Rossa sono custodite le statue di epoca romana raffiguranti divinità marine rinvenute nella Grotta Azzurra. Inoltre espone immagini di vita vissuta e quotidianità a Capri tra l’Ottocento e il Novecento attraverso le tele di famosi maestri quali Barret, De Montalant..

 

Anacapri: Monte Solaro con seggiovia Il protagonista assoluto è il panorama a 360° che offre la vista splendida del Golfo di Napoli con allo sfondo il Vesuvio,il Golfo di Salerno, passando per la piana di Anacapri, la penisola sorrentina,l’isola di Ischia, Capri con i Faraglioni e ammirando il colore stupendo del mare.

 

 

Anacapri: Grotta Azzurra La Grotta Azzurra, caverna naturale sprofondata in mare dall’epoca preistorica, è oggi una delle maggiori attrattive turistiche di Capri, per l’ammaliante effetto creato dai giochi della luce solare filtrata da sotto l’acqua e riflessa sulle pareti rocciose.IMG_9889

 

 

 

 

 

 

 

 

Anacapri: Fortini Un recente progetto di restauro dei fortini ed il recupero dei sentieri, ha valorizzato una parte dell’isola sotto il profilo storico e paesaggistico. Potete visitare i Fortini scendendo a piedi per Via Pagliaro (lungo la strada per la Grotta Azzurra).

 

La Costiera Amalfitana

Da Positano a Vietri sul Mare 36 chilometri di paradiso. Quattordici località ognuna con le sue tradizioni e le sue peculiarità per le quali vale la pena visitarle almeno una volta nella vita. Immerse in uno scenario incantevole condividono un mare cristallino dai colori intensi, una natura selvaggia, le chiese dalle cupole maiolicate e le case aggrappate all’impervia roccia. La costiera, dal 1997 Patrimonio mondiale dell’Unesco, prende il nome da Amalfi per la sua posizione centrale e per il ruolo storico che ha ricoperto. Nel IX secolo ha segnato le sorti del mediterraneo insieme alle altre repubbliche marinare. Il Duomo, con il chiostro del Paradiso e la Basilica del Crocifisso e la pregiata carta d’Amalfi tra le attrazioni del posto. Da Positano con le sue stradine, le botteghe di abbigliamento e le spiagge bandiera blu, passando per il fiordo di Furore, alla grotta dello smeraldo di Conca dei Marini, dalla piazzetta sul mare di Atrani alle scale di Raito, senza parlare di Ravello e delle altre perle della costiera è un susseguirsi di emozioni, un viaggio tutto da scoprire.

 

Sorrento

« Poche città ponno vantare la sua veramente incantevole, romantica, deliziosa, e quanto mai amenissima situazione, quale non può esprimersi con poche parole; anche pel ridente e leggiadrissimo promontorio del suo nome celebre, come per la purissima e saluberrima aria, onde fu appellata naturae miraculo e altamente rinomata. »

(Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LXVII, p. 233)sorrento1-1

 

Sorrento (Surriento in napoletano) è un comune italiano di 16.592 abitanti

Meta turistica per eccellenza, da sempre per le sue bellezze naturali ed artistiche e le sue tradizioni, Sorrento è il maggiore centro per numero di servizi offerti ed anche il più conosciuto e nominato di tutta la Penisola Sorrentina. È Sede Arcivescovile.

La fondazione è tradizionalmente e leggendariamente attribuita ai greci, ma Sorrento ebbe come primi abitanti stanziali i popoli italici, dagli Etruschi e poi, dal 420 a.C., vi fu importante l’influsso degli Osci. In età romana è ricordata per aver partecipato all’insurrezione degli Italici (90 a.C.); vi fu quindi dedotta da Silla una colonia, a cui seguì più tardi uno stanziamento di veterani di Ottaviano. Fu poi municipio della tribù Menenia. Fu sede vescovile almeno dal 420. Durante la crisi del dominio bizantino in Italia, Sorrento acquistò autonomia come ducato, prima sotto la supremazia dei duchi di Napoli, poi con arconti e duchi propri, sempre in lotta con Amalfi, Salerno ed i Saraceni. La storia di Sorrento si confonde con quella delle altre città campane; prese parte alle leghe anti musulmane; combatté i Longobardi di Benevento; conobbe lotte familiari tra i nobili locali. Obbligato nel sec. IX da Guaimario ad accettare come proprio duca il fratello, Guido, il Ducato di Sorrento riprese la propria autonomia dopo la morte di quest’ultimo per poi perderla definitivamente nel 1137, assorbito nel nuovo regno dei Normanni. Sorrento seguì da allora le sorti del regno, non senza ribellioni e conflitti, specie all’inizio dell’età aragonese. Nel 1558 fu presa e saccheggiata dai Turchi; nell’inverno del 1648 la città sostenne valorosamente l’assedio di Giovanni Grillo, generale del duca di Guisa.

l centro storico mostra ancora il tracciato ortogonale delle strade di origine romana, mentre verso monte è circondato dalle mura cinquecentesche. Vi si trovano il Duomo, riedificato nel XV secolo, con facciata neogotica, e la Chiesa di San Francesco d’Assisi, con un notevole chiostrino trecentesco, con portico arabeggiante ad archi che s’intrecciano su pilastri ortogonali. Nel museo Correale di Terranova sono esposte collezioni di reperti greci e romani e di porcellane di Capodimonte, con una sezione di pittura del XVII-XIX secolo; dal parco si gode inoltre una magnifica vista sul golfo. Presso la Punta del Capo, 3 km a ovest, si trovano resti romani ritenuti della villa di Pollio Felice (I secolo d.C.). Un’altra villa marittima è la “Villa di Agrippa Postumo”, sotto l’attuale “Hotel Syrene”. La villa fu fatta costruire dallo sfortunato nipote di Augusto.

La Penisola, area di antica tradizione casearia, offre itinerari alla ricerca di antichi sapori e storici vini, attraverso prodotti e produttori, espressione del territorio. Si passa dal limoncello di Sorrento all’olio alimentare a denominazione di origine protetta Penisola Sorrentina, dalla pasta di Gragnano ai latticini di Agerola, sostando in veri templi del gusto e girovagando per cantine e frantoi. Si parte da Vico Equense, vero paradiso gastronomico, dove piccoli “artigiani del gusto” realizzano dei grandi prodotti, come la salsiccia e il salame fatto di carne suina e scorza di arancia, ed i magnifici prodotti caseari, dai burrini, caciottine ripiene di un delicato purè di burro, ai caprignetti, piccole palline ottenute da una crema di formaggio caprino (cacio-ricotta) che, dopo essere state cosparse di erbe aromatiche, vengono conservate sott’olio. Il più pregiato di tutti è il rinomato Provolone del Monaco DOP, formaggio stagionato a pasta filata nella caratteristica foggia a melone leggermente allungato o a pera, senza testina. I prodotti caseari della zona sono ancora prodotti in modo artigianale e svariate sono le botteghe gastronomiche e i produttori presso cui si possono assaggiare e acquistare i prodotti tipici, ma anche osservare il ciclo di produzione. Da notare sono le trecce alle olive e le altre specialità dei Monti Lattari.IMG_9726

La reggia di Caserta

La reggia di Caserta, o Palazzo Reale di Caserta, è una dimora storica appartenuta alla casa reale dei Borbone di Napoli, proclamata Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

Situata nel comune di Caserta, è circondata da un vasto parco nel quale si individuano due settori: il giardino all’italiana, in cui sono presenti diverse fontane e la famosa Grande Cascata, e il giardino all’inglese, caratterizzato da fitti boschi.

In termini di volume, la reggia di Caserta è la più grande residenza reale del mondo con oltre 2 milioni di m³ e copre una superficie di 47.000 m².caserta

 

Nel 2013 è stato il decimo sito statale italiano più visitato, con 439.813 visitatori e un introito lordo totale di 1.759.918,97 Euro

Il Palazzo reale di Caserta fu voluto dal re di Napoli Carlo di Borbone, il quale, colpito dalla bellezza del paesaggio casertano e desideroso di dare una degna sede di rappresentanza al governo della capitale Napoli e al suo reame, volle che venisse costruita una reggia tale da poter reggere il confronto con quella di Versailles. Si diede inizialmente per scontato che sarebbe stata costruita a Napoli, ma Carlo di Borbone, cosciente della considerevole vulnerabilità della capitale a eventuali attacchi (specie da mare), pensò di costruirla verso l’entroterra, nell’area casertana: un luogo più sicuro e tuttavia non troppo distante da Napoli.

 

Dopo il rifiuto di Nicola Salvi, afflitto da gravi problemi di salute, il sovrano si rivolse all’architetto Luigi Vanvitelli, a quel tempo impegnato nei lavori di restauro della basilica di Loreto per conto dello Stato Pontificio. Carlo di Borbone ottenne dal Papa di poter incaricare l’artista e nel frattempo acquistò l’area necessaria dal duca Michelangelo Gaetani, pagandola 489.343 ducati, una somma che seppur enorme fu certamente oggetto di un forte sconto: Gaetani, infatti, aveva già subìto la confisca di una parte del patrimonio per i suoi trascorsi antiborbonici.

Il re chiese che il progetto comprendesse, oltre al palazzo, il parco e la sistemazione dell’area urbana circostante, con l’approvvigionamento da un nuovo acquedotto (Acquedotto Carolino) che attraversasse l’annesso complesso di San Leucio. La nuova reggia doveva essere simbolo del nuovo stato borbonico e manifestare potenza e grandiosità, ma anche essere efficiente e razionale.

Il progetto si inseriva nel più ampio piano politico di re Carlo di Borbone, che probabilmente voleva anche spostare alcune strutture amministrative dello Stato nella nuova Reggia, collegandola alla capitale Napoli con un vialone monumentale di oltre 20 km. Questo piano fu però realizzato solo in parte; anche lo stesso palazzo reale non fu completato della cupola e delle torri angolari previste inizialmente.

Vanvitelli giunse a Caserta nel 1751 e iniziò subito la progettazione del palazzo commissionatogli, con l’obbligo di farne uno dei più belli d’Europa. Il 22 novembre di quell’anno l’architetto sottopose al re di Napoli il progetto definitivo per l’approvazione. Due mesi dopo, il 20 gennaio 1752, genetliaco del re, nel corso di una solenne cerimonia alla presenza della famiglia reale con squadroni di cavalleggeri e di dragoni che segnavano il perimetro dell’edificio, fu posta la prima pietra. Tale momento viene ricordato dall’affresco di Gennaro Maldarelli che campeggia nella volta della Sala del Trono.

L’opera faraonica che il re di Napoli gli aveva richiesto spinse Vanvitelli a circondarsi di validi collaboratori: Marcello Fronton lo affiancò nei lavori del palazzo, Francesco Collecini in quelli del parco e dell’acquedotto, mentre Martin Biancour, di Parigi, venne nominato capo-giardiniere. L’anno dopo, quando i lavori della reggia erano già a buon punto, venne iniziata la costruzione del parco. I lavori durarono complessivamente diversi anni e alcuni dettagli rimasero incompiuti. Nel 1759, infatti, Carlo di Borbone di Napoli era salito al trono di Spagna (con il nome di Carlo III) e aveva lasciato Napoli per Madrid.

I sovrani che gli succedettero, Gioacchino Murat, che all’abbellimento della reggia diede un certo contributo, Ferdinando IV (divenuto poi dopo il congresso di Vienna Ferdinando I delle Due Sicilie), Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, col quale ebbe termine in Italia la dinastia dei Borbone, non condivisero lo stesso entusiasmo di Carlo di Borbone per la realizzazione della Reggia. Inoltre, mentre ancora nel XVIII secolo non era difficile reperire manodopera economica grazie ai cosiddetti barbareschi catturati dalle navi napoletane nelle operazioni di repressione della pirateria praticata dalle popolazioni rivierasche del Nordafrica, tale fonte di manodopera si azzerò nel secolo successivo con il controllo francese dell’Algeria.

 

Infine, il 1º marzo 1773 morì Vanvitelli al quale successe il figlio Carlo: questi, anch’egli valido architetto, era però meno estroso e caparbio del padre, al punto che trovò notevoli difficoltà a compiere l’opera secondo il progetto paterno.

« Una delle creazioni planimetriche più armoniche, più logiche, più perfette dell’architettura di tutti i tempi. »

(Gino Chierici, La Reggia di Caserta, Roma, Libreria dello Stato, 1930)

 

La reggia, definita l’ultima grande realizzazione del Barocco italiano, fu terminata nel 1845 (sebbene fosse già abitata nel 1780), risultando un grandioso complesso di 1200 stanze e 1742 finestre, per una spesa complessiva di 8.711.000 ducati. Nel lato meridionale, il palazzo è lungo 249 metri, alto 37,83, decorato con dodici colonne. La facciata principale presenta un avancorpo centrale sormontato da un frontone; ai lati del prospetto, dove il corpo di fabbrica longitudinale si interseca con quello trasversale, si innestano altri due avancorpi. La facciata sul giardino è uguale alla precedente, ma presenta finestre inquadrate da lesene scanalate.

Il palazzo ricopre un’area di circa 47.000 m²;[dispone di 1026 fumaroli e 34 scale. Oltre alla costruzione perimetrale rettangolare, il palazzo ha, all’interno del rettangolo, due corpi di fabbricato che s’intersecano a croce e formano quattro vasti cortili interni di oltre 3.800 m² ciascuno.

La Sala del Trono

Oltre la soglia dell’entrata principale alla reggia si apre un vasto vestibolo ottagonale del diametro di 15,22 metri, adorno di venti colonne doriche. A destra e a sinistra si inseriscono i passaggi che portano ai cortili interni, mentre frontalmente un triplice porticato immette al centro topografico della reggia.casert2

In fondo, un terzo vestibolo dà adito al parco. Su un lato del vestibolo ottagonale si apre il magnifico scalone reale a doppia rampa, un autentico capolavoro di architettura tardo barocca, largo 18,50 metri alto 14,50 metri e dotato di 117 gradini, immortalato in numerose pellicole cinematografiche. Ai margini del primo pianerottolo della scalinata si trovano due leoni in marmo di Pietro Solari e Paolo Persico, mentre il soffitto, caratterizzato da una doppia volta ellittica, fu affrescato da Girolamo Starace-Franchis con Le quattro Stagioni e La reggia di Apollo; sulla parete centrale è addossata una statua di Carlo di Borbone, opera di Tommaso Solari, affiancata da La verità e Il merito, realizzate rispettivamente da Andrea Violani e Gaetano Salomone.

La doppia rampa si conclude in un vestibolo posto al centro dell’intera costruzione. Di fronte si trova l’accesso alla grande Cappella Palatina, ispirata a quella della Reggia di Versailles; questo spazio, definito da un’elegante teoria di colonne binate che sostengono una volta a botte, è stato danneggiato durante la seconda guerra mondiale, quando andarono perduti gli organi e tutti gli arredi sacri, e quindi restaurato. Sul retro della cappella, ancora inglobato all’interno del palazzo, è posto il piccolo e raffinato Teatro di Corte, caratterizzato da una pianta a ferro di cavallo; fu inaugurato nel 1769 alla presenza di Ferdinando I delle Due Sicilie.

 

Invece, alla sinistra del vestibolo si accede agli appartamenti veri e propri. La prima sala è quella degli Alabardieri, con dipinti di Domenico Mondo (1785), alla quale segue quella delle guardie del corpo, arredata in stile Impero e impreziosita da dodici bassorilievi di Gaetano Salomone, Paolo Persico e Tommaso Bucciano. La successiva sala, intitolata ad Alessandro il Grande e detta del “baciamano”, è affrescata da Mariano Rossi, che vi rappresentò il matrimonio tra Alessandro e Rossane (1787). Si trova al centro della facciata principale e funge da disimpegno tra l’Appartamento Vecchio e l’Appartamento Nuovo.

Scalone monumentale

L’Appartamento Vecchio, posto sulla sinistra, fu il primo ad essere abitato da Ferdinando IV e dalla consorte Maria Carolina ed è composto da una serie di stanze con pareti rivestite in seta della fabbrica di San Leucio. Le prime quattro stanze, di conversazione, sono dedicate alle quattro stagioni ed affrescate da artisti quali Antonio Dominici e Fedele Fischetti. Segue lo studio di Ferdinando II, con dipinti a tempera di Filippo Hackert che rappresentano vedute di Capri, Persano, Ischia, la Vacchieria di San Leucio, Cava dei Tirreni e il giardino inglese della reggia stessa. Dallo studio si accede, mediante un disimpegno, alla camera da letto di Ferdinando II, i cui mobili però furono distrutti e rifatti in stile Impero dopo la morte del sovrano a causa di una malattia contagiosa. Oltre la camera è la sala dei ricevimenti, che, mediante una serie di anticamere, è collegata direttamente alla Biblioteca Palatina e quindi alla cosiddetta Sala Ellittica, che ospita un fulgido esempio di presepe napoletano.

 

L’Appartamento Nuovo, posto sulla destra della sala di Alessandro il Grande, fu costruito tra il 1806 ed il 1845. Vi si accede tramite la Sala di Marte, progettata da Antonio de Simone in stile neoclassico e affrescata da Antonio Galliano. Proseguendo oltre l’adiacente Sala di Astrea, con rilievi e stucchi dorati di Valerio Villareale e Domenico Masucci, si giunge quindi all’imponente Sala del Trono, che rappresenta l’ambiente più ricco e suggestivo degli appartamenti reali. Questo era il luogo dove il re riceveva ambasciatori e delegazioni ufficiali, in cui si amministrava la giustizia del sovrano e si tenevano i fastosi balli di corte. Una sala lunga 36 metri e larga 13,50, ricchissima di dorature e pitture, che fu terminata nel 1845 su progetto dell’architetto Gaetano Genovese. Intorno alle pareti corre una serie di medaglioni dorati con l’effigie di tutti i sovrani di Napoli, da Ruggero d’Altavilla a Ferdinando II di Borbone (tranne Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat), poi un’altra serie con gli stemmi di tutte le province del regno, mentre nella volta domina l’affresco di Gennaro Maldarelli (1844) che ricorda la cerimonia della posa della prima pietra. Le successive stanze rappresentano il cuore dell’Appartamento Nuovo e furono ultimate dopo il 1816. Tra queste si ricorda la camera di Gioacchino Murat, in stile Impero, con mobili in mogano e sedie con le iniziali dello stesso Murat.

parco reale di Caserta

parco reale di Caserta si estende per 3 chilometri di lunghezza, con sviluppo Sud-Nord, su 120 ettari di superficie. In corrispondenza del centro della facciata posteriore del palazzo si dipartono due lunghi viali paralleli fra i quali si interpongono una serie di suggestive fontane che, partendo dal limitare settentrionale del Giardino all’italiana, collegano a questo il Giardino all’inglese:

 

la Fontana Margherita;

la Vasca e Fontana dei Delfini;

la Vasca e Fontana di Eolo;

la Vasca e Fontana di Cerere;

Cascatelle e Fontana di Venere e Adone;

La fontana di Diana e Atteone, sovrastata dalla Grande Cascata.

 

Le vasche sono popolate da numerosi pesci, specialmente carpe e carassidi, e vi vegetano piante acquatiche delle specie Myriophyllum spicatum e Potamogeton crispus.

La Reggia al cinema

Il regista cinematografico George Lucas ha girato diverse scene dei film La minaccia fantasma e L’attacco dei cloni, ovvero il primo e il secondo episodio della serie Star Wars, all’interno della Reggia di Caserta (i cui interni sono stati riproposti come la reggia del pianeta Naboo). Inoltre, nella Reggia sono state ambientate alcune parti dei film Donne e briganti, Ferdinando I, re di Napoli, Il Pap’occhio, Sing Sing, Li chiamarono… briganti!, Ferdinando e Carolina, Mission Impossible 3 e Io speriamo che me la cavo; alcune scene della seconda serie televisiva di Elisa di Rivombrosa sono ambientate nella Reggia, anche se in realtà sono state girate all’interno di una località romana.reggia di Caserta, percorsi dii luce

Va segnalata anche la pellicola I tre aquilotti del 1942, per la regia di Mario Mattoli, che vede un giovanissimo Alberto Sordi impersonante la parte di un giovanissimo allievo ufficiale dell’Accademia della Regia Aeronautica, all’epoca dislocata presso la Reggia di Caserta. Tra gli attori ricordiamo anche Leonardo Cortese, Galeazzo Benti e Riccardo Fellini, fratello del più famoso Federico; proprio a Riccardo viene riservata una fugace apparizione in divisa da accademista.

Gli interni del palazzo sono anche presenti nelle fiction RAI Giovanni Paolo II, dove ricreano gli interni dei Palazzi Vaticani, e Luisa Sanfelice.

Dal 17 al 20 giugno 2008 la Reggia è stata utilizzata per alcune riprese della troupe cinematografica del film Angeli e Demoni, ispirato all’omonimo romanzo di Dan Brown, autore anche del best seller Il codice da Vinci.

CUCINA

La cucina napoletana, risalente al periodo greco-romano, è nata dall’unione di una cucina aristocratica, caratterizzata da piatti ricchi ed elaborati (timballi o sartù di riso), e da una popolare, legata agli ingredienti della terra: cereali, legumi, verdure. Ma è la pizza forse il prodotto gastronomico napoletano più celebre nel mondo. Le sue radici sono antichissime, sicuramente risalenti almeno all’epoca romana. La genialità dei napoletani è stata quella di ricoprire la superficie della pizza con i condimenti prima della cottura, in particolar modo con il pomodoro. Se andate a Napoli non potete andar via senza prima aver assaggiato la tipica pizza Margherita, nata grazie al pizzaiolo Raffaele Esposito, che le conferì, in onore della omonima regina, le caratteristiche colorazioni della bandiera italiana. Nel centro storico alcune pizzerie vendono ancora oggi la pizza a libretto o a portafoglio. La cucina napoletana ha antichissime radici storiche che risalgono al periodo greco-romano e si è arricchita nei secoli con l’influsso delle differenti culture che si sono susseguite durante le varie dominazioni della città e del territorio circostante. Importantissimo è stato l’apporto della fantasia e creatività dei napoletani nella varietà di piatti e ricette oggi presenti nella cultura culinaria partenopea. In quanto capitale del regno, la cucina di Napoli ha acquisito anche gran parte delle tradizioni culinarie dell’intera Campania, raggiungendo un giusto equilibrio tra piatti di terra (pasta, verdure, latticini) e piatti di mare (pesce, crostacei, molluschi). A seguito delle varie dominazioni, principalmente quella francese e quella spagnola, si è delineata la separazione tra una cucina aristocratica ed una popolare. La prima, caratterizzata da piatti elaborati e di ispirazione internazionale, sostanziosi e preparati con ingredienti ricchi, come i timballi o il sartù di riso, mentre la seconda legata ad ingredienti della terra: cereali, legumi, verdure, come la popolarissima pasta e fagioli. A seguito delle rielaborazioni avvenute durante i secoli, e della contaminazione con la cultura culinaria più nobile, la cucina napoletana possiede ora una gamma vastissima di pietanze, tra le quali spesso anche quelle preparate con gli ingredienti più semplici risultano estremamente raffinate. Nonostante le contaminazioni avvenute durante i secoli, compreso quello appena trascorso, la cucina napoletana conserva tutt’oggi un repertorio di piatti, ingredienti e preparazioni che ne caratterizzano una identità culturale inconfondibile.

Primi piatti

Il ragù di Eduardo

La necessità di un’accurata preparazione del ragù è evidente dai seguenti versi di Eduardo, che definisce spregevolmente carne c’ ‘a pummarola (carne col pomodoro) la ricetta di una poco accorta sposa:

« ‘O rraù ca me piace a me m’ ‘o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te,

ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso

Sì, va buono: comme vuò tu. Mò ce avéssem’ appiccecà? Tu che dice? Chest’è rraù? E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… M’ ‘a faje dicere ‘na parola?… Chesta è carne c’ ‘a pummarola »

(Eduardo, ‘O rraù.)

 

La varietà dei primi piatti nella cucina napoletana è molto vasta, e comprende sia piatti molto semplici, come pasta al pomodoro e basilico o il semplicissimo aglio e Olio (aglio e olio) fino a preparazioni elaborate, tra le quali il ragù che può richiedere, nella versione più tradizionale, cinque o sei ore di preparazione.

I primi piatti si rifanno a più tradizioni complementari che spesso si mescolano e influenzano a vicenda: quella di una cucina poverissima, basata principalmente su ingredienti della terra, una cucina popolare tradizionale, ricca di frutti di mare e pesce, alimenti dal costo contenuto, vista la pescosità del mare di Napoli, e, infine, una cucina legata alla parte più agiata della città, costituita da carne di ogni genere, uova e latticini, in preparazioni talvolta elaborate.

Primi piatti poveri

Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino sono una delle più semplici ricette napoletane.

Tra gli alimenti più poveri ci sono le freselle, ciambelle biscottate di pane duro, dalla facile conservazione, che, bagnate, sono la base della caponata, condite con pomodoro fresco, aglio, olio, origano e basilico, e, quando disponibili, anche acciughe, olive ed altri ingredienti Altro piatto tipico sono gli spaghetti aglio e uoglio (aglio e olio) spesso conditi con peperoncino.

 

La cucina più povera abbina spesso la pasta con i legumi. Popolarissime sono: pasta e fagioli (pasta e fasule), conditi con le cotiche, pasta e ceci, pasta e lenticchie, e pasta e piselli. Ormai è rarissimo l’uso delle cicerchie. In maniera analoga ai legumi sono preparate pasta e patate (pasta e patane), pasta e cavolfiore, pasta e zucca. Il metodo di cottura della cucina più popolare consiste nel far cuocere prima i condimenti (ad esempio, soffriggere l’aglio nell’olio, quindi aggiungere i fagioli lessati, oppure soffriggere la cipolla ed il sedano ed aggiungere le patate tagliate a cubetti), quindi allungare con l’acqua, portare ad ebollizione, salare, ed aggiungere la pasta cruda. La pasta, cuocendo insieme ai condimenti, conserverà l’amido, che invece viene perso se la pasta viene cotta a parte e poi scolata. Questo procedimento rende il sugo della pasta più cremoso (“azzeccato”), ed è contrapposto ad una tradizione più “nobile” che preferisce preparare questi piatti in maniera più brodosa, aggiungendo alla fine la pasta cotta a parte. Per un primo piatto povero ma più nutriente, la pasta può essere semplicemente condita con uovo alla stracciatella e formaggio, la cosiddetta pasta caso e ova.

Gli spaghetti, conditi con sugo di pomodoro, olive di Gaeta e capperi prendono il nome di spaghetti alla puttanesca. Fantasiosa è anche la ricetta ideata per le tavole più povere, in assenza di costosi frutti di mare: gli spaghetti conditi con un sugo di pomodorini, o anche in bianco, con aglio, olio e prezzemolo vengono definiti spaghetti alle vongole fujute, dove le vongole sono presenti solo nella fantasia dei commensali.phoca_thumb_l_piatto-reginella 2 Lo scarpariello è un altro sugo semplice con cui si condiscono i maccheroni la sua base è di pomodoro e formaggio.

La frittata di maccheroni si può preparare anche con avanzi di pasta, sia in bianco che conditi col sugo di pomodoro. Si mescola la pasta cotta al dente con uovo battuto e formaggio. Può essere arricchita con svariati ingredienti. Alcune moderne riedizioni la vogliono farcita con ingredienti quali prosciutto cotto, mozzarella o provola fresca. Tradizionalmente cotta in padella, c’è chi usa oggi cuocerla al forno per renderla meno grassa. Se ben preparata risulta compatta, e può essere anche tagliata a fette per essere consumata durante gite fuori porta o in spiaggia.

Della frittata di maccheroni esiste anche una versione più piccola, chiamata appunto frittatina, prodotto tipico da rosticceria, preparata con besciamella, carne macinata, piselli e mozzarella e poi fritta in pastella.

Primi piatti più ricchi

La cucina aristocratica usa la pasta per preparazioni elaborate, come timballi, poco utilizzati ormai nella cucina di ogni giorno. Il sartù di riso è un timballo a base di riso ripieno di fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, fiordilatte o provola, piselli, funghi, e condito con ragù, o, nella versione “in bianco” con besciamella.

Tra i piatti “ricchi”, ma comunque di uso comune, vi è la pasta condita con diversi sughi, come:

La bolognese, così chiamata perché vagamente ispirata al ragù emiliano, è preparata con un trito di carota, sedano e cipolla, carne macinata e pomodoro; La genovese, che non ha niente a che fare con Genova, è preparata con un sugo di carne a base di abbondante cipolla rosolata ed altri aromi;

Con il ragù sono tradizionalmente conditi gli ziti, lunghi maccheroni cavi, che vengono spezzati a mano prima della cottura. Il ragù viene anche usato, insieme al fiordilatte, per condire gli gnocchi alla sorrentina, che sono poi tradizionalmente ripassati a forno in un pignatiello, tipico pentolino monoporzione di terracotta.

Primi piatti di pesce

Gli spaghetti alle vongole sono il primo piatto di mare più popolare.

Spaghetti, linguine e paccheri sono abbinati benissimo a frutti di mare e pesce. Di qui i piatti tipici da pranzi importanti (matrimoni, in particolare). I più tipici sono:

Gli spaghetti alle vongole o ai frutti di mare (con vongole, cozze, fasolari, taratufi)

I paccheri con la zuppa di pesce, con scorfani, cuocci, tracine ed altre specie ittiche

La pasta con i calamari (popolarmente calamarata) cotti con una spruzzata di vino bianco

Ma esistono moltissime altre varianti, ad esempio gli spaghetti con il sugo in bianco del merluzzo. La cucina povera a base di legumi si può abbinare ai frutti di mare, così da avere, ad esempio, pasta e fagioli con le cozze, o varianti più moderne come zucchine e vongole o cozze, che però finiscono per perdere ogni connotazione tradizionale.

Piatti di riso

Oltre al già citato sartù di riso, nella cucina più povera, viene preparato tipicamente il riso con la verza, che può essere insaporito da scorzette di formaggio parmigiano, che fondono durante la cottura, o con cotiche di maiale o salsiccia. A base di pesce, invece è il risotto alla pescatora che si prepara con molluschi di vario tipo (vongole, lupini, polpi, seppie, calamari), gamberi, e con un brodo ottenuto da gusci e dalle scorze dei gamberi. Sono diffusi anche a Napoli gli arancini, detti in napoletano palle ‘e riso, più tipici della tradizione siciliana.Tipica durante le stagioni calde, l’insalata di riso è condita con salumi, formaggi, verdure oppure tonno, uova e mayonese, talvolta condita anche solo con sotto aceti di campo.

La pizza

« La pizza napoletana va consumata immediatamente, appena sfornata, negli stessi locali di produzione. L’eventuale asporto del prodotto verso abitazioni o locali differenti dalla pizzeria ne determina la perdita del marchio »Eq_it-na_pizza-margherita_sep2005_sml

(Art. 6 della disciplinare per la definizione di standard internazionali per l’ottenimento del marchio “Pizza Napoletana STG”)

La pizza Margherita, realizzata in onore della regina Margherita di Savoia nel 1889 dal pizzaiolo Raffaele Esposito.

La pizza è forse il prodotto della cucina italiana più celebre nel mondo. Le sue radici sono antichissime, sicuramente risalenti almeno all’epoca romana, quando erano diffuse diverse focacce di grano, citate in alcune opere di Virgilio. Il nome, infatti, probabilmente deriva dal latino pinsa, participio passato del verbo pinsere, che significa schiacciare. La pizza vera e propria, ricoperta di salsa di pomodoro, risale a poco più di due secoli or sono, e fu presto popolarissima sia presso i napoletani più poveri e che presso i nobili, compreso i re Borbone. Il successo della pizza conquistò anche i sovrani piemontesi, tanto è vero che proprio alla regina Margherita di Savoia nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito dedicò la “pizza Margherita” che rappresentava il nuovo vessillo tricolore con il bianco della mozzarella, il rosso del pomodoro ed il verde del basilico. Tuttavia, quella che oggi è chiamata pizza Margherita in realtà era già preparata prima della dedica alla regina Savoia. Francesco De Bouchard già nel 1866 ci riporta la descrizione dei principali tipi di pizza, ossia quelli che oggi prendono nome di marinara, margherita e calzone:

« Le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’olio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di mozzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, ec. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone. »

La cottura della vera pizza necessita il forno a legna che riesce a raggiungere alte temperature tra i 430 e i 485 °C. Per questo motivo, sia la pizza fatta in casa che quella preparata nei locali che utilizzano forni elettrici non riescono a pareggiare l’inconfondibile ed unico sapore della vera pizza napoletana.

Un modo tradizionale di consumare la pizza è di acquistarla e mangiarla per strada. Nel centro storico alcune pizzerie vendono ancora la pizza a libretto o a portafoglio, più piccola della pizza che si mangia a tavola, piegata in quattro insieme ad un foglio di carta per alimenti, ed ancora dal costo molto contenuto. Questa pizza è stata resa celebre da Bill Clinton che, a Napoli per il meeting del G7, del 1994 gustò la pizza in questo modo presso una nota pizzeria in via dei Tribunali.

Con un impasto simile a quello della pizza ma più leggero si producono anche pastacresciute, tipiche delle friggitorie. Nelle pizzerie-friggitorie spesso si vendono anche le pizze fritte, ossia calzoni ripieni ma fritti in olio invece che cotti al forno.

Secondi piatti di mare

Fra le ricette di pesce, primeggiano i polpi alla lucìana, cosiddetti dal popolare borgo di Santa Lucia nel quale nacquero, cotti con peperoncino piccante e l’immancabile pomodoro. Il polpo si prepara anche semplicemente lesso, all’insalata, condito con olio, limone, prezzemolo, ed olive verdi. In una maniera più ricca, viene preparata l’insalata di mare dove oltre al polpo si usano seppie, calamari e gamberi.

Il pesce di media taglia viene spesso cucinato all’acqua pazza, ossia con pomodorino e prezzemolo; quelli di taglia più grande anche semplicemente grigliati, accompagnati, nelle occasioni più importanti, da gamberoni e mazzancolle.

Le cozze sono preparate in vari modi tra cui semplicemente all’impepata, rapidamente lessate e pepate, e condite con qualche goccia di succo di limone, che ogni commensale spremerà sui singoli mitili. Vongole ed altri frutti di mare sono gustati spesso sauté, saltati in padella con aglio ed olio e con prezzemolo tritato a crudo, spesso serviti su crostini, oppure sono preparati al gratin, gratinati a forno con pangrattato.

Anche il pesce più economico, principalmente le alici, viene spesso usato per gustose ricette. Tra queste:

Le alici dorate e fritte, spinate e passate in farina ed uovo prima di essere fritte.

Le alici marinate, sia in succo di limone che aceto.

Le alici arreganate, spinate e cotte rapidamente in tortiera con aglio, olio, origano e condite con succo di limone o aceto.

I cicenielli, piccolissimi pesci, sono preparati lessi o fritti in una leggera pastella, così come è d’uso fare con le alghe di mare. La frittura di paranza è di solito fatta con merluzzetti, triglie, fricassuari (piccole sogliolette), ma possono esserci anche altre varietà di pesce di piccolo taglio, come alici o mazzoni. La frittura va mangiata caldissima (frijenno magnanno, si suole dire in napoletano). I piccoli gamberetti di nassa, i più freschi venduti ancora vivi e saltellanti, sono fritti rapidamente, e senza essere prima infarinati, come invece avviene per la paranza.

Secondi piatti di carne

I secondi di carne non sono troppo vari nella cucina napoletana. Capretto e agnello si gustano cucinati con patate e piselli al forno, specialmente in occasione di Pasqua; il coniglio ha la sua migliore preparazione all’ischitana e il pollo viene rosolato alla cacciatora col pomodoro; le salsicce o le cervellatine sono tradizionalmente soffritte in padella e accompagnate da contorni a base di verdure, specialmente i friarielli, oppure patatine fritte. Le tracchie (spuntature) di maiale sono tipicamente consumate come secondo piatto dopo che sono state cotte al ragù, che è stato usato per condire la pasta. Le tracchie si accompagnano o sono alternative alle braciole, nome napoletano degli involtini, che sono fatte con fettine sottili di vitello avvolte con un ripieno di aglio, prezzemolo, uvetta, pinoli ed altri aromi, e richiuse tradizionalmente con il filo da cucito, e oggi con gli stuzzicadenti. Un modo tipico di cucinare le fettine di carne di vitello è alla pizzaiola, ossia con pomodoro, aglio ed origano. Altri piatti di carne sono stati già citati nella sezione sugli ingredienti.

Piatti di verdure

Sono tradizionali minestre di verdure e legumi, come la minestra di scarola e fagioli, preparata con i fagioli cannellini o spollichini[58], i fagioli alla maruzzara, con pomodoro, aglio, sedano, origano e peperoncino, o la natalizia minestra maritata. Ma talvolta i piatti a base di verdure trasformano ingredienti semplici in piatti molto ricchi ed elaborati.

La parmigiana di melanzane, preparata con fette di melanzane fritte e disposte a strati con salsa di pomodoro, fiordilatte e basilico, e cotte al forno.

Il gattò di patate, pasticcio di patate macinate mescolate con salumi e formaggi, cotto a forno.

I peperoni ripieni, ricetta che nobilita i peperoni accostandoli ad ingredienti semplici, ma gustosi: olive, capperi, pane grattugiato.

Le melanzane a barchetta, tagliate a metà, scavate al centro, e condite con diversi tipi di ripieno.

Fritture

Oltre alla già citata frittura di pesce, molte verdure si cucinano dorate e fritte (carciofi, zucchine, cavolfiore). Nelle fritture più ricche, si aggiunge anche fegato, ricotta e, una volta, si aggiungevano anche le cervella. La mozzarella si può preparare dorata e fritta (con farina e uovo) o in carrozza, come la prima, ma fritta tra due fette di pane ammorbidite nel latte.

 

Tra le fritture napoletane vi sono anche i crocchè di patate ed i sciurilli, acquistabili anche per strada nelle tipiche friggitorie, insieme a scagliozzi, pastacresciute e melanzane fritte.

Le frittate, non solo di maccheroni, fanno parte della tradizione napoletana. La più celebre è la famosa frittata di cipolle che ha per base le cipolle, ben dorate.

Contorni

I contorni non sono piatti secondari nella cucina napoletana, e sono per lo più a base di verdure. Tra questi:

Gli zucchini alla scapece, fritti e conditi con aceto e menta fresca.

Le melanzane a funghetti, in due versioni: fritte a listarelle e condite con pomodorini, oppure soffritte a dadini.

Le melanzane a scarpone, oggi chiamate spesso a barchetta, vengono tagliate di lungo, fritte in poco olio e condite con sugo di pomodoro alla puttanesca.

Le mulignane a ‘ppullastiello, tagliate a fette dopo una prima cottura vengono farcite con mozzarella e poi indorate e fritte.

I peperoni in padella, conditi con olive di Gaeta e capperi.

i peperoni imbottiti, ricoperti di pangrattato e passati in forno.

I peperoni a gratè, derivanti dal francese au graten, sono una versione più leggera di quella in padella, cotti al forno vengono spellati tagliati e conditi con olio, aglio, prezzemolo, olive,capperi e ricoperti di pangrattato.

I peperoncini verdi fritti, non piccanti, che sono poi conditi con salsa di pomodorini.

I friarielli, soffritti con aglio, olio e peperoncino, spesso accompagnano le salsicce (da cui sasicce e friariell’) e cervellatine, per le quali si servono come contorno anche patatine fritte tagliate a cubetti.

Le scarole o il cavolo cappuccia alla monachina, soffritti in padella e conditi con olive nere di Gaeta, capperi, pinoli, uva passa ed acciughe sotto sale.

Rustici

Tra i piatti rustici più diffusi, vi è la pizza di scarole, preparata con scarole soffritte e condite con aglio, pinoli, uvetta, olive di Gaeta e capperi, e ricoperta di una pasta semplice di farina, acqua e lievito. Il casatiello, o tòrtano è il rustico tipico del periodo di Pasqua, consumato anche il giorno di pasquetta durante le gite fuori porta. Oggi i due nomi si usano spesso come sinonimi, ed indicano un rustico ricco di un’imbottitura di formaggi ed insaccati. Nelle versioni originali tòrtano e casatiello erano più semplici, quest’ultimo si distingueva dal primo perché caratterizzato dalla presenza di uova nell’impasto, mentre il primo era ripieno di cicoli:

« Nella sua prima semplicità popolare [il casatiello] non è altro che un pane di forma circolare, come un grosso ciambellone, in cui si conficcano delle uova, anche uno solo, secondo la dimensione del pane, e queste uova, con tutto il guscio, sono fermate al loro posto da due strisce di pasta in croce. La pasta è la solita pasta del pane, ma intriso con lardo e strutto. Cotto al forno, le uova vi divengono sode. »

Anche il babà ha la sua versione rustica. La pasta del babà è infatti neutra, e nella versione da pasticceria acquista il gusto dolce dal bagno di acqua, zucchero e rum. Nella versione rustica, invece, all’impasto vengono aggiunti formaggio e salumi.

In rosticceria sono oggi molto diffusi e apprezzati i panini napoletani, che in realtà non sono panini veri e propri, bensì rustici imbottiti di salumi e formaggio.

Dolci

La tradizione culinaria napoletana annovera una grande varietà di dolci. Tra i dolci principali, sono da ricordare i seguenti:

La sfogliatella, frolla o riccia, ideata nel Settecento nel monastero di Santa Rosa situato a Conca dei Marini, nei pressi di Amalfi, il cui ripieno contiene una crema di ricotta, semolino, cannella, vaniglia e cedro e scorzette di arancia candite. Tra le varianti che si trovano oggi vi è la Santa Rosa, più grande e completata da crema ed amarene, la frolla perché fatta appunto con pasta frolla, e le code d’aragosta, ripiene di una pasta bignè e farcite con vari tipi di crema. Da ricordare inoltre la secolare battaglia tra i sostenitori della riccia e della frolla che da tempi ormai immemori si contendono il titolo di autentica sfogliatella.

Il babà, variante napoletana di un dolce che ha probabilmente origini polacche.baba

Le zeppole di San Giuseppe, fritte o al forno, sono ciambelle ricoperte di crema e di amarene.

La pastiera, del periodo di Pasqua, è un dolce tipicamente realizzato a casa, più che in pasticceria. Tra gli ingredienti vi è il grano, che a Napoli viene venduto già lessato e pronto per l’uso. L’uso di questo ingrediente potrebbe essere legato ai culti della fecondità di epoca greco-romana.

Gli struffoli natalizi, dolce tipico fatto da molte palline piccole e fritte, condite con miele. Questo dolce ha probabili origini greche, come riportato nell’introduzione storica.

La delizia al limone, creazione degli anni settanta, ma entrata di diritto nella tradizione dolciaria campana. A base di limoni della costiera sorrentina e limoncello.54522359a1742f2bf56cbfdf

La torta caprese, a base di mandorle e cioccolato. Con la delizia al limone ed il babà è tra i dolci preferiti per i pranzi e le cene che celebrano matrimoni ed altri eventi importanti.

Famosi sono anche gelati, tra cui le coviglie e gli spumoni di preparazione più tradizionale.

I piatti delle feste

I piatti legati a periodi festivi meritano un capitolo a parte per varietà e ricchezza.

Piatti natalizi

Gli struffoli, sono tipici di Natale, ed hanno probabili origini greche.

La cena della vigilia si fa tipicamente con spaghetti alle vongole, seguiti dal capitone fritto e dal baccalà fritto, accompagnati dall’insalata di rinforzo che è preparata con cavolfiore lesso, sottaceti, peperoni tondi sottaceto dolci o piccanti (le pupaccelle), ulive e acciughe sotto sale.

I dolci natalizi sono:

I roccocò, biscotti duri a forma di ciambella e a base di mandorle.

I mustacciuoli, biscotti di forma romboidale ricoperti di cioccolata. I mostaccioli napoletani sono anche riportati da Bartolomeo Scappi, cuoco personale di Pio V, nel suo pranzo alli XVIII di ottobre.

I raffiuoli, dolci di pan di Spagna ricoperti di una glassa bianca di zucchero

I susamielli, dolci a base di mandorle a forma di “S”.

Le sapienze, variante dei susamielli, che venivano preparate dalle suore clarisse nel convento di Santa Maria della Sapienza a Sorrento.

Gli struffoli, di cui si è già parlato.

La “pasta reale” nella sua versione napoletana, non ancora riconosciuta come facente parte della pasticceria partenopea. Si tratta di dolcetti composti di mandorle tritate finissime, zucchero in peso pari a quello delle mandorle ed albume d’uovo per legare. Nella versione tradizionale il dolcetto viene ricoperto di naspro (zucchero disciolto sul fuoco in poca acqua, del quale poi si cospargono i dolcetti) ma è ormai difficilissimo trovare pasticcerie che lo preparino con tale rivestimento, per via dell’estrema dolcezza del sapore che può risultare stucchevole.

La cena della vigilia si completa con le ciociole, ossia frutta secca (noci, nocciole e mandorle), fichi secchi e le castagne del prete, cotte a forno.

Tipici del pranzo di Natale sono la minestra maritata oppure i tagliolini in brodo di gallina.

Piatti pasquali

La diffusione di pastiera e casatiello risale almeno al Seicento. Lo testimonia la seguente citazione tratta dalla favola la gatta Cenerentola di Giambattista Basile (1566–1632).

« E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato. »

La pastiera è il dolce tipico di Pasqua.

Il piatto principale di Pasqua è il casatiello, anche consumato il giorno di pasquetta durante le gite fuori porta, accompagnato dalla fellata, banchetto di affettati misti (principalmente salame e capocollo), ricotta salata e uova sode, oppure da agnello o capretto al forno con patate e piselli. Il dolce tipico di Pasqua è la pastiera, dolce realizzato tradizionalmente in casa, del quale esistono molte varianti[62], con leggere differenze in ciascuna famiglia. Una descrizione del pranzo pasquale dell’800 non si discosta molto dall’usanza odierna:

« Non descriverò il pranzo Pasquale: aprite la Cucina del duca di Buonvicino, e troverete più di quel ch’io potrei dirvi. Ma i cibi di prammatica sono la minestra di Pasqua, li spezzatello[63] con uova e piselli, l’agnello al forno, l’insalata incappucciata, la soppressata colle uova sode, il tortano, il casatiello, e per corona a suggello del pranzo la pastiera. »

Caffè

La moka ha ormai rimpiazzato la caffettiera napoletana in gran parte delle famiglie napoletane.

« Sul becco io ci metto questo “coppitello” di carta… il fumo denso del primo caffè che scorre, che è poi il più carico non si disperde. Come pure … prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre quattro minuti, per lo meno … nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata … in modo che, nel momento della colata, l’acqua in pieno calore già si aromatizza per conto suo »

(Eduardo nel film Questi fantasmi)

Al termine di un pranzo o di una cena non può mancare una tazzulella ‘e cafè, che talvolta viene servito al tavolo del ristorante, ma più spesso si va a prendere al bar. Tra i caffè più celebri di Napoli vi è sicuramente lo storico caffè Gambrinus, in piazza Trieste e Trento.

Gran parte dei Napoletani ritiene che il caffè partenopeo sia unico per aroma e densità. Molte leggende metropolitane cercano di avvalorare quest’affermazione in base a vari motivi, che vanno dall’acqua del Serino, al tipo di miscela, alla calibrazione della macchina, o, più semplicemente, all’abilità dei baristi napoletani. Nessuna di queste ipotesi ha in realtà mai ricevuto una verifica scientifica.

Nelle case la caffettiera napoletana, detta anche cuccumella, pur ancora in vendita, è ormai stata largamente rimpiazzata dalla moka.

Liquori

Il limo, agrume ormai raro, tradizionalmente usato per la preparazione del liquore agli agrumi.

I pranzi e le cene più abbondanti terminano con caffè e liquore. All’ormai diffusissimo limoncello era una volta preferito il liquore ai quattro frutti, ossia limone, arancia, mandarino e limo, un agrume locale simile al bergamotto, ormai molto difficile da reperire in commercio. Il nocillo, diffuso in molte regioni d’Italia, è tra gli amari tradizionalmente più apprezzati.

Gastronomia da asporto napoletana

A Napoli da tempo immemore è diffuso l’uso di acquistare e consumare cibi tipici per strada. Questa funzione era anticamente assolta dai thermopolia di epoca romana, rinvenuti negli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano e in numerosi altri siti archeologici della zona. Tipici sono alcuni prodotti da friggitoria che si possono ancora oggi acquistare, soprattutto nelle vie del centro storico di Napoli, tra i quali vanno citate le pastacresciute, gli scagliozzi, i sciurilli, le frittatine di maccheroni alla besciamella ed i panini fritti, oltre alle melanzane e zucchine fritte e ai crocchè di patate imbottiti di mozzarella dei quali esiste una versione più piccola e priva di mozzarella detti panzarotti. La missione del pasto veloce, antesignano dei moderni fast food, è presente nel nome vaco ‘e pressa (vado di fretta), nome di una storica rosticceria sita in piazza Dante.

La pizza a libretto e la pizza fritta si trovano ancora presso le pizzerie di via dei Tribunali, port’Alba e piazza Cavour. Alla Pignasecca sono ancora attive alcune botteghe di carnacuttari che vendono vari tipi di trippa, ‘O pere e ‘o musso o la storica zuppa ‘e carnacotta. Da Mergellina a via Caracciolo sono ancora numerosi i venditori di taralli ‘nzogna e pepe (sugna e pepe), mentre rarissima è ormai la presenza de ‘o broro ‘e purpo (il brodo di polpo), una volta declamato dai venditori ambulanti.

 

Fino a non molti anni fa erano diffuse bancarelle che vendevano ‘o spassatiempo (il “passatempo”), ossia noccioline, semi di zucca e ceci tostati, lupini in salamoia, il cui nome deriva dal tempo necessario per sgusciare questi tipi di semi, frutta secca e legumi.

Fino agli ultimi decenni del Novecento un venditore di panini farciti con la ricotta offriva una colazione al sacco a chi si imbarcava per le isole al porto di Pozzuoli.

D’estate venditori ambulanti offrono ancora oggi refrigerio con una semplice granita, definita ‘a rattata (la grattata), ossia, del semplice ghiaccio grattugiato a partire da un singolo grosso blocco con un apposito strumento simile ad una pialla, che viene condito con dello sciroppo dolce. I gusti più tipici sono latte di mandorla, amarena, menta.

 

Provenza e Costa Azzurra


Sei    Provenza e Costa Azzurra viaggio in un sogno di colori, sapori e profumi….  la mia ispirazione

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Viaggiare è come sognare:
la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.

Edgar Allan Poe

 

La Provenza

La Provenza una regione storica della Francia situata nella parte meridionale del paese, fra Rodano, Delfinato, al confine con l’Italia e Mediterraneo. Attualmente costituisce la regione Provence-Alpes-Côte d’Azur, con capoluogo Marsiglia. Il territorio provenzale può essere suddiviso in tre zone principali. La prima è costituita da zone pianeggianti (Crau, Camargue), la seconda è la fascia litoranea nota come Costa Azzurra, che si estende dalla foce del Rodano al confine con l’Italia, la terza è la zona interna prealpina e alpina.

principali sono il Rodano, il Var, la Durance e l’Argens. Per quanto riguarda l’economia, il turismo ha un’importanza fondamentale lungo la costa, mentre nell’interno si pratica l’agricoltura; presente anche l’industria, specialmente nella zona di Marsiglia che è anche un porto molto attivo.

I primi insediamenti nella regione risalgono al Neolitico; ci furono poi insediamenti greci, seguiti nel II sec. a. C. da quelli romani (il nome Provenza deriva infatti dalla denominazione romana di Provincia Narbonensis). La regione fu poi occupata da visigoti, burgundi e ostrogoti. Nel 536 la regione passò definitivamente sotto il controllo dei franchi. Nell’835 divenne un ducato, poi inglobato nel regno di Borgogna (X sec.); passò in seguito ai conti di Arles e successivamente ai conti di Barcellona. Nella prima metà del XIII secolo fu teatro della repressione degli albigesi, con la crociata promossa da Innocenzo III. Dopo una serie di legami con l’Italia, culminati con il trasferimento della sede papale ad Avignone, alla fine del 1400 la Provenza entrò a far parte definitivamente della Francia, raggiungendo i suoi confini attuali con l’annessione di Nizza (nel 1860). La regione provenzale è ricca di resti dell’epoca romana e di edifici risalenti al primo cristianesimo, oltre a bei palazzi di epoca più recente.

Nell’antica versione provenzale della Genesi si sostiene che, prima di creare Adamo, il Creatore si rese conto che gli erano avanzate parecchie cose: grandi distese di azzurro paradisiaco, tutti i tipi di rocce, terreno coltivabile già pieno dei semi di una flora opulenta e tutta una serie di sapori e profumi non ancora utilizzati, dal più evanescente al più forte. -Beh-, Egli pensò, -perché non creare un magnifico compendio del mio mondo, il mio paradiso speciale?-. Così nacque la Provenza. Questo paradiso comprende in sé le Prealpi dai picchi innevati e le colline pedemontane, che ad est declinano fino al mare mentre ad ovest arrivano quasi al Rodano. Negli altipiani selvaggi della zona centrale della Provenza si trova la fenditura più profonda di tutto il territorio europeo: il Grand Canyon du Verdon (Gole del Verdon). L’entroterra costiero è un susseguirsi di ripide catene di boscose colline dove il caldo profumo dei pini, degli eucalipti e delle erbe selvatiche intorpidisce i sensi. La zona rivierasca è composta da una serie sempre mutevole di baie d’aspetto quasi geometrico, che cedono a volte il passo a caotici agglomerati di rilucenti scogli affiorati e a insenature strette e profonde simili a fiordi norvegesi in miniatura: i calanque. Nella Camargue, il litorale stesso diventa un’astrazione mentre terra e mare si confondono in orizzonti infiniti. Se si esclude il delta del Rodano, ogni angolo di questa regione si inquadra in una cornice di colline, o montagne, o strane rocce che erompono all’improvviso. Tutti questi elementi sarebbero però insignificanti senza quella particolare luce mediterranea, al meglio in primavera ed autunno, morbida e splendente al tempo stesso, teatrale.

Per centinaia di anni, la Provenza rappresentò un bersaglio primario per gli invasori stranieri: i Greci crearono alcuni insediamenti sulla costa e lungo il Rodano, comprese Massalia e Nikea, cioè Marsiglia e Nizza, e i Romani più avanti aprirono una via di comunicazione costiera verso le loro città sul Rodano. La Provenza dovette difendere la propria indipendenza combattendo anche contro la Francia, il Sacro Romano Impero, la Borgogna, la Savoia e i Papi, mentre le faide intestine tra feudi rivali rendevano ancora più insicura la vita di tutti i giorni. Ciononostante, il tempo sembra non aver particolarmente intaccato la Provenza, in cui si trovano i migliori monumenti romani di tutta la Francia, oltre a tracce corpose dei primi colonizzatori a Glanum e i contorni ancora visibili di alcuni insediamenti indigeni liguri. Assai più romantici sono però i numerosi villages perché sopravvissuti e i quartieri delle vecchie città, le vieilles villes, con i loro angusti labirinti di strade medievali, passaggi e scalette tortuose che conducono inevitabilmente ad uno château fort e che non sono molto cambiate nel corso dei secoli. Molte di esse non sono mai state restaurate e in parecchie non c’è neppure un bar o un ristorante, ma a volte solo un negozio di alimentari e forse un distributore di benzina. Altre, tra cui tutte quelle che si trovano lungo la costa o nelle vicinanze, sono state tirate a lucido fino a farle diventare esempi eleganti e costosi dell’idea di pittoresco. La Costa Azzurra dev’essere il tratto costiero più costruito, sovraffollato, celebrato e costoso del mondo intero. Ci sono solo due industrie in quanto tali, il turismo e l’edilizia, più il terziario ad esse collegato, fatto di agenti immobiliari, posteggiatori di yacht e parcheggiatori di Rolls-Royce. Nell’Esterel, nella penisola di Saint Tropez, nelle isole di fronte a Cannes e Hyères e nel Massif des Maures la grande bellezza delle colline e dell’orizzonte, il profumo della vegetazione, le mimose in fiore e la strana sintesi di sostanze inquinanti mediterranee che rendono l’acqua così traslucida, obnubilano i sensi.IMG_5086 Questi erano un tempo i motivi di vanto di tutta la costa quando Cannes e Villefranche, Le Lavandou e St-Tropez erano minuscoli villaggi di pescatori. Gli aristocratici e i reali stranieri che nel Settecento avevano fatto di Nizza la stazione balneare invernale più alla moda in Europa, nell’Ottocento cominciarono ad insediarsi ad est e a ovest. Negli anni Cinquanta da queste parti ci fu l’avvento di un turismo di massa ancorché selettivo, gli anni Sessanta portarono branchi di attricette e di hippy, mentre negli anni Settanta il governo francese cominciò a rendersi conto del fatto che la loro principale risorsa turistica rischiava di diventare un vero orrore.

Nei decenni a cavallo del secolo, gli artisti, affascinati dalla luce e dal modo di vivere relativamente tranquillo, diedero addio ai tetri inverni nordici. Tra i grandi che dipinsero e scolpirono in quest’area troviamo Matisse, Renoir, Signac, Mirò, Chagall, Modigliani e Picasso che arrivavano d’estate e sconvolgevano i locali mettendosi a nuotare in mare. Molte delle loro opere fanno parte delle collezioni permanenti di splendidi musei da St-Tropez a Mentone, che già da soli valgono una visita alla Costa Azzurra. Nel 1879 nasceva, ad Aix, Cézanne, e gran parte delle sue tele si ispirano proprio ai paesaggi che circondavano la sua città natale, anche se poche delle sue opere sono rimaste in Provenza. Ad Arles e St-Rémy e nei dintorni delle due cittadine si può ripercorrere il triste passaggio di Van Gogh, ma anche in questo caso restano ben poche opere originali.

Cibo e vino sono altre due ragioni che possono allettarvi a visitare la Provenza, l’unica regione francese in cui frutta e verdura, pesce e frutti di mare sono sullo stesso piano della carne. Gli alimenti che crescono in Provenza, cioè olive e aglio, asparagi e zucchini, pesche bianche, uva moscata, meloni e fragole, porcini e spugnole, mandorle e castagne, basilico e timo, per nominarne solo alcuni, sono parte integrante dell’ambiente caldo e sensuale. Anche i vini, dai rosé secchi e leggeri delle Côtes de Provence fino ai rossi pastosi e delicati dei villages delle Côtes du Rhône e di Châteauneuf-du-Pape, sposano l’intensità della luce solare e ad essa devono il loro colore brillante.

Dove andare: Non è facile esplorare alcune parti dell’entroterra della Provenza, a meno che non si vada a piedi o con la propria automobile. Proprio per questa ragione, sono aree poco edificate e ancora vergini, dove le tradizioni sono ancora forti e le possibilità di soggiorno decisamente scarse. Il Grand Canyon du Verdon e il Parc de Mercantour nelle zone montagnose del nord-est sono però le due mete più spettacolari di tutta la regione.

Tra le città, Nizza, la Regina della Riviera, ceduta alla Francia solo nel secolo scorso, unisce in sé tutto il meglio e il peggio della Provenza contemporanea ed è forse la cittadina più accattivante di tutte. Marsiglia, sinonimo di vizio e di criminalità, di solito evitata dai turisti, è una maestosa metropoli dove prospera la creatività artistica e dove, contrariamente alla sua cattiva reputazione, la permanenza potrà essere assolutamente rilassata, gratificante e divertente. Le escrescenze patinate della costa, Cannes e Montecarlo, rappresentano un divertimento di tipo un po’ contorto. Aix-en-Provence, la piccola Parigi di Provenza, è deliziosa, raffinata e rispettabile. Avignone porta impressa la storia della Provenza medievale e ospita un eccellente festival di arte contemporanea. Se volete vedere resti romani, i posti da visitare sono Orange, Vaison-la-Romaine, Carpentras, Arles e Nîmes. Tra Grasse e Sisteron si può ripercorrere parte del viaggio di Napoleone nel 1815 dall’Elba a Parigi.

Si possono seguire i sentieri della transumanza che attraversano le montagne, imbattendosi in greggi di pecore accompagnate da capre, asini e pastori. Si può osservare la fauna selvatica, fenicotteri, tori e cavalli bianchi, negli strani bassopiani della Camargue, oppure camosci, mufloni e marmotte nel Parc de Mercantour. Se siete appassionati di arte moderna dovete assolutamente andare a St-Paul-de-Vence,Saint Tropez e Haut-de-Cagnes, oppure a Nizza per Matisse e Chagall, a Biot per Léger, ad Antibes e Vallauris per Picasso e infine a Mentone e Villefranche per Cocteau.

Quando andare In piena estate sulla costa il caldo e l’umidità sono a volte opprimenti e folla, gas di scappamento e costi potrebbero sopraffarvi. Per il nuoto, i mesi migliori vanno da giugno a metà ottobre, mentre maggio è un po’ freschino, ma solo secondo i parametri estivi. Per abbronzarsi, lo si può fare da febbraio fino a ottobre. Febbraio è il mese migliore per la Costa Azzurra: musei, alberghi e ristoranti sono quasi tutti aperti, le mimose sono in fiore e il contrasto con zone più fredde è assolutamente delizioso. Il mese peggiore è novembre, quando non c’è quasi niente di aperto e il clima divento freddo e umido. Lo stesso vale per l’entroterra della Provenza. Ricordate che le Prealpi sono di solito innevate dalla fine di novembre all’inizio di aprile. Le passeggiate autunnali vi ricompenseranno con mirtilli e lamponi, genziane viola e foglie rosse che diventano color oro. La primavera porta con sé una tale profusione di fiori selvatici che quasi non si osa camminare.

L’unico inconveniente del fuori-stagione è il mistral (maestrale), il vento del Nord freddo e violento; può durare settimane intere, distruggendo qualunque immagine ci si sia creati nella fantasia sui miti climi mediterranei.

Saint-Paul de Vence

Questo piccolo e romantico villaggio medievale, interamente pedonale, sorge alle spalle di Cagne-sur-Mer, abbarbicato sulla montagna per sfuggire agli attacchi saraceni. Fra le sue stradine, scalinate, fontane e piazzette, troverete angoli di pura poesia, a patto di evitare gli orari di punta di cui gli autobus riversano orde di turisti a caccia di souvenir. È il luogo dove vivono artigiani e pittori, da sempre meta privilegiata di artisti e intellettuali. Merita una fermata per sentire il rumore delle cicale mentre percorrete la romantica passeggiata lungo le mura, da cui si gode una magnifica vista sulla vallata e fino al mare.

  • Almeno una delle 60 gallerie d’arte e botteghe artigiane che qui hanno dimora.IMG_5003
  • Giovani e anziani che giocano alla petanque sotto gli alberi frondosi nella piazza all’ingresso del villaggio.
  • Fondation Maeght: conserva un’eccezionale raccolta di opere di grandi artisti come Chagall, Giacometti, Mirò, Matisse esposte a rotazione oltre a mostre temporanee sempre di grande livello. Bellissimo il labirinto di Mirò, un sentiero che si snoda nel lussureggiante giardino del museo dove sono collocate le sculture dell’artista spagnolo.

Aime e Margherite Maeght erano dei mercanti d’arte di Cannes e avevano come clienti e amici niente meno che pittori come Chagall, Matisse e Mirò ed è stata proprio la loro collezione privata che nel 1964 ha dato vita a questo museo che riceve ben 250.000 visitatori l’anno. Durante l’estate si può visitare dalle 10 alle 19 e ne vale davvero la pena!!! Ci sono bellissimi quadri di Chagall come La Vie, capolavori di Braque e Legere e sculture di artisti come Giacometti e Mirò…insomma, da non perdere.

Quello che vi aspetta a St. Paul non è da meno: ad accogliervi la terra gialla dell’antico campo da bocce, la Pétanque, nella quale giocarono i più famosi artisti che passarono di qui, concedendosi poi ristoro nell’adiacente Cafe de la Place. Qui si può mangiare un piatto del giorno ad 11 euro in compagnia di quadri di Picasso, Mirò, Matisse: la leggenda narra che da quando i primi artisti bohémien e squattrinati ebbero l’abitudine di pagare con le proprie opere, invece che con il denaro, si diffuse anche tra i successori la medesima usanza, facendo così diventare la modesta locanda una vera e propria galleria d’arte ricca di storia. In tanti anni e tanti viaggi non avevo mai visitato un borgo così particolare. Non c’è negozio infatti, o ristorante che non siano tutti di livello più che raffinato, non i soliti negozi di souvenir per turisti ma innumerevoli gallerie d’arte, enoteche, coloratissimi negozi di stoffe e erbe provenzali e locali molto curati tutti con terrazze vista valle.

Non c’è da meravigliarsi se in questo posto hanno soggiornato artisti del calibro dei già citati Picasso, Chagall, Bonnard e Modigliani (che lo scoprirono) ma anche star del cinema come Catherine Deneuve, Sophia Loren e Greta Garbo….

Ma St Paul de Vence è soprattutto un borgo ricco di storia e cultura con la sua Chiesa gotica del XII secolo dove è contenuto un dipinto “Caterina d’Alessandria” attribuito al Tintoretto e il Museo di Storia di St Paul dove si può conoscere meglio le vicende storiche di questo luogo.

Continuando ad inoltrarci per i vicoli acciottolati arriviamo ad una piccola piazza con una grande fontana ed un negozio di dolci e liquori molto invitanti e colorati e poi, proseguendo leggermente in discesa, arriviamo alla Porta sud del borgo oltre la quale si trova il cimitero dove riposano in pace Marc Chagall e i coniugi Maeght. Quaggiù è possibile godere di una vista spettacolare su tutta al vallata e di un grande momento di pace….

Storia di Saint Paul de Vence

Il villaggio da il benvenuto già fuori delle mura dove dall’alto della sua collina, si presenta con tutta la sua bellezza e particolarità. Interamente circondato da mura fortificate, Saint Paul de Vence presenta un unico accesso perfettamente mantenuto e munito ancora oggi del suo cannone. Il celebre cannone Lacan (chiamato così dal nome del Capitano che difese Saint Paul dall’attacco dei nemici) fu utilizzato in varie battaglie e sembra che sia riuscito a proteggere questo magnifico borgo dai continui attacchi provenienti sia dall’entroterra che dal mare. Non si hanno notizie certe sulle origini di questo centro storico, probabilmente sul luogo si trovava un insediamento ligure divenuto poi romano e conosciuto con il nome di San Paolo solo dopo il XII° secolo. Dell’antico castello, rimane solo l’alta torre (il Donjon) oggi sede del Municipio.

La Fontana (monumento storico) è stata costruita nel 1.850 e serve come punto d’incontro del villaggio, come lo era anni fa per attori, artisti e personaggi famosi di tutto il mondo.

 

 

Le Gole del Verdon

Un impressionante canyon dove scorre un incantevole fiume dalle acque smeraldo.

Il fiume Verdon nasce nei pressi del colle d’Allos, sulle Alpi Marittime, e si getta nel fiume Durance, nei pressi di Vinon-sur-Verdon, dopo aver percorso circa 175 chilometri. Due sono i tratti più caratteristici di questo fiume: il primo, tra Castellane e il ponte del Galetas, in corrispondenza del lago artificiale di Sainte-Croix, il secondo, corrisponde appunto al canyon dove il fiume si incanala, le famose Gorges du Verdon appunto.

A rendere questo fiume speciale è il colore delle acque verdissime, per effetto del fluoro e delle micro-alghe. Mentre nel tratto del fiume che corrisponde al lago di Sainte-Croix, un bacino artificiale, presenta una colorazione turchese dovuta al fondo argilloso.

Dall’Italia per raggiungere la zona e percorrere un itinerario lungo il Verdon, occorre raggiungere Moustiers-Sainte-Marie che può essere considerato il punto di partenza.

Moustiers-Sainte-Marie è un villaggio arroccato tra due maestose rupi, attraversate da un ruscello di montagna. Da qui si può scendere verso il lago di Sainte-Croix, a Sainte-Croix du Verdon, circumnavigando il lago fino a Bauduen. Il tratto più spettacolare del percorso delle Gorges du Verdon è situato tra Castellane e Moustiers-Sainte Marie, quando il Verdon si tuffa nelle acque del lago di Sante-Croix. Castellane è una cittadina vivace di origine medievale. E’ piacevole passeggiare nei vicoli del suo centro storico.

Le gole del fiume Verdon spaccano la montagna per 25 chilometri creando il canyon più impressionante d’Europa, grazie alle sue pareti a strapiombo sul fiume, alte fino a 1500 metri. Un famoso speleologo nel 1905 percorse per primo le gole e definì questo tratto: il più americano di tutti i canyon del vecchio mondo.

Gli itinerari più interessanti si concentrano intorno al canyon, le falesie verticali arrivano a un’altezza di 700 metri a strapiombo sul fiume. Da non perdere sono i punti panoramici: Le pas de la Baou e il belvedere Trescaire. Il percorso da fare in auto segue una strada che si apre a fianco della falesia fino a costeggiare l’intero letto del fiume. La strada è spettacolare, nonostante resti distante dal fiume. In alternativa si può costeggiare la riva destra del fiume sulla strada D 952 e seguire il percorso Route de Cretes (20 km circa), per ammirare i punti più panoramici del Gran Canyon.

Per gli amanti dell’escursionismo il sentiero GR4 è ideale per camminate di grande interesse paesaggistico e naturalistico. Anche noto come le sentier Blanc-Martel è un bellissimo trekking di almeno sette ore, che scende al fondo delle Gorges du Verdon.

Moustiers-Sainte-Marie

Moustiers-Sainte-Marie le cui radici affondano nella stretta relazione esistente tra l’uomo e il suo ambiente. Il paese circondato da colline a terrazzo piantate di ulivi si situa alle porte delle Gole del Verdon.IMG_5049

Alcuni monaci venuti dall’isola di Lérins, verso il 433, trovano rifugio in cavità scavate nel tufo e fondano un monastero. Fieramente ubicata sul bordo del precipizio, la chiesa Notre-Dame de Beauvoir, o d’Entremont possiede un porticato romanico, dominato da un piccolo campanile della stessa epoca; la porta lignea risale al Rinascimento.IMG_5052

All’interno, le due prime campate della navata sono di stile romanico, le altre due di stile gotico come l’abside. Era considerato un tempo un « un sanctuaire à répit » (santuario del rito della doppia morte). Secondo le credenze popolari di alcune province, il « répit » è in un bambino nato morto, un ritorno temporaneo alla vita per consentirgli di avere il tempo di ricevere il battesimo prima di morire definitivamente.

Avendo ricevuto il battesimo, il bambino potrà così andare in Paradiso invece di errare nel Limbo dove sarà privato della visione di Dio. Ma il rito della doppia morte è possibile solo in alcuni santuari, la maggior parte delle volte consacrati alla Vergine (Notre Dame de Pitié) le cui intercessioni sono necessarie per ottenere un miracolo.

Un cammino acciottolato, con gradini di piccola pedata e grande larghezza, delimitato da oratori conduce al santuario. Come per rinforzare l’aspetto sorprendente del posto, una catena con al suo centro una stella è sospesa tra le due cime. La leggenda ne attribuisce l’origine ad un cavaliere di Blacas che, nel XII secolo, prigioniero durante le crociate, aveva fatto voto di appendere una catena vicino alla cappella, se sarebbe riuscito a sopravvivere.

 

Dal grazioso disordine dei tetti colorati alla moda provenzale si distacca un alto campanile romanico, arricchito da tre piani di finestre geminate, d’ispirazione lombarda; la chiesa in stile romanico possiede un coro gotico con abside piatta.

Le risorse locali e soprattutto la triade — acqua, legno, argilla fine — hanno permesso abbastanza rapidamente l’istaurarsi di una tradizione di vasai. Nel 1929 viene inagurato il museo storico della maiolica. Attualmente il Museo della Maiolica annovera cinque sale dove sono esposti i migliori pezzi del XVII secolo e contemporanei. La sala delle « terres vernissées » (terre verniciate) vi presenta del vasellame storico ed un assortimento di pezzi in terracotta come le tegole vernicite, canalizzazioni, ecc.

Al giorno d’oggi molti maestri della maiolica propongono pezzi di qualità dai motivi originali. L’attività della maiolica e della terracotta contribuisce al dinamismo economico regionale allo stesso modo dei prodotti locali come il miele, la lavanda e l’olio di oliva.

Curiosità architettoniche e naturali Moustiers-Sainte-Marie

  • Cammino degli oratori e cappella Notre-Dame de Beauvoir Moustiers-Sainte-Marie;
  • Grotta di Sainte-Madeleine Moustiers-Sainte-Marie;
  • Borgo antico e chiesa parrocchiale Moustiers-Sainte-Marie;
  • Il sentiero del patrimonio (aquedotto, fortificazioni, cappella Sainte-Anne) Moustiers-Sainte-Marie;

Con i suoi atelier e laboratori, Moustiers è uno dei principali centri francesi per la produzione della ceramica. Il prestigioso Musée de La Faïence, creato nel 1929 dalla locale Accademia, è stato allestito in una cripta scavata dai monaci di Lérins e racconta la storia della maiolica provenzale esponendo una ricca collezione di stampi, manufatti e utensili d’epoca. Sinonimo di ceramica, faïence è la traduzione francese del nome Faenza: il procedimento faentino di lavorazione delle maioliche consisteva nell’applicare i colori prima della cottura direttamente su una superficie coperta di vernice bianca opaca. Questa tecnica artistica venne introdotta a Moustiers Sainte Marie da Pierre I Clérissy nel 1679. Successivamente tre editti reali emanati nel 1689, 1699 e 1709 imposero alla nobiltà di donare il vasellame d’oro e d’argento alle casse del regno favorendo così anche la diffusione di queste nuove opere d’arte. Nel Settecento Moustiers vide fiorire fornaci, atelier e grandi talenti come i Clérissy, gli Olérys e i Laugiers che nel 1738 introdussero la policromia basandosi sulle tecniche spagnole del gran fuoco sino ai fratelli Ferrat che si ispirarono ai decori delle manifatture di Stasburgo. Le ceramiche iniziarono ad essere esportate a Parigi, a San Pietroburgo e nel Québec anche se poi nel 1840 la moda della porcellana inglese compromise la produzione locale tanto che nel 1874 l’ultima fornace del paese fu costretta a chiudere i battenti. A partire dal 1927, grazie alla riapertura di un laboratorio, l’arte della ceramica è tornata ad essere una delle principali attività artistiche di Moustiers.

Nei numerosi atelier del centro storico del borgo si possono osservare le tecniche di lavorazione della ceramica oltre che acquistare le riproduzioni delle opere create dagli antichi maestri ceramisti. Proseguendo la passeggiata, dopo aver attraversato un piccolo ponte in pietra su cui si affacciano dimore e costruzioni con splendide facciate fiorite, si raggiunge una piazzetta dove si trova la chiesa parrocchiale, monumento storico dal 1913, che mostra orgogliosa il suo campanile romanico considerato uno fra i più belli di tutta la Provenza. Questa bella torre in tufo quadrata si innalza per 22 metri suddivisi in quattro piani con due aperture. Nel 1336, in occasione degli interventi di ampliamento della chiesa, non venne però rispettato il vecchio asse della navata: non se n’è mai saputa con certezza la motivazione anche se fra le più accreditate ci sarebbe la scelta di posizionare il coro in direzione di Gerusalemme o di ricordare la posizione della testa di Cristo sulla croce. L’attuale altare è un sarcofago in marmo bianco del IV secolo che rappresenta il passaggio del Mar Rosso.

Dopo la visita alla chiesa parrocchiale ci si può arrampicare su un sentiero che parte da Rue de la Bourgade e che conduce alla cappella di Notre Dame de Beauvoir: la deliziosa chiesetta trecentesca, abbarbicata a uno dei due versanti della montagna, si raggiunge tramite un ripido percorso di 262 scalini (un tempo erano 365) che si percorre in circa mezz’ora venendo adeguatamente ricompensati dalla meravigliosa vista offerta quando la si raggiunge. Il panorama, che spazia sino al Lac de Sainte Croix, permette anche di ammirare da vicino la stella del cavaliere. I sette santuari che fiancheggiavano il percorso sulla collina nel 1860 hanno lasciato il posto alle 14 stazioni della Via Crucis successivamente decorate con maioliche di Simone Garnier. Costruita alla fine del XII secolo sui resti di un tempio mariano del V secolo, la cappella è un perfetto connubio di stili romano e gotico. Come altri edifici dell’arco alpino, il santuario di Notre Dame (dal 1921 monumento storico) è conosciuto per le sue “suscitations”: nel XVII secolo, i bambini nati morti riprendevano vita con il battesimo qui ricevuto salendo in cielo. Nella gola sottostante l’edificio religioso è tesa una catena di ferro lunga 227 metri al centro della quale è stata appesa una stella dorata a cinque punte del peso di 400 chili. Nonostante sia stata rinnovata nel 1957, la leggenda vuole che a farla issare per la prima volta fra le due pareti di roccia sia stato nel XII secolo il cavaliere Balcas a ringraziamento della Vergine per essere stato liberato dalla prigionia durante la Settima Crociata di San Luigi. Ancora oggi, la stella svetta sulle teste degli abitanti scintillando al sole del tramonto.Per tornare in paese si può ripercorrere lo stesso sentiero oppure addentrarsi in un altro percorso che riporta nel cuore di Moustiers Sainte Marie passando attraverso i boschi (troverete le indicazioni dal sagrato della chiesa). E se vi capita di visitare il borgo l’8 Settembre non perdetevi la caratteristica celebrazione liturgica in onore della natività che si conclude con una simpatica colazione in piazza per tutti.

Informazioni al sito http://www.moustiers.eu

Valensole

Chi vive l’emozione di fermarsi, in piedi, di fronte a un campo di lavanda provenzale, sa che cosa provava l’uomo di fronte all’infinito, come lo dipingevano gli artisti romantici: fischi di vento, cielo e mare. Mare ondeggiante in ogni direzione si guardi, fatto di acqua nei quadri del romanticismo, fatto di lavanda nelle piane del sud della Francia. E’ un’emozione ben nota agli abitanti di Valensole e del rispettivo altipiano, che anche i turisti potranno conoscere avventurandosi verso la “Route de la Lavande” nella stagione della fioritura.

Valensole è un antico borgo di 2.500 abitanti circa, incastonato tra la piana omonima e la Valle di Notre-Dame, che nel tempo ha saputo custodire gelosamente il fascino dei villaggi tradizionali dell’Alta Provenza. Sull’etimologia esistono diverse teorie: qualcuno sostiene che il nome del borgo sia un diminutivo di Valence, la città della regione del Rodano-Alpi; secondo altri, forse più poetici, deriverebbe dal latino “vallis” e “solis”. “Valle del sole” sarebbe dunque il significato di Valensole, e indipendentemente dalla correttezza dell’interpretazione, bisogna ammettere che la definizione è quanto mai adatta: il sole si rovescia generoso su un territorio di quasi 13 mila ettari, illuminando il borgo a 590 m s.l.m. e producendo sulla lavanda un caleidoscopio di viola diversi di cui non si sospettava l’esistenza. Dalla primavera all’autunno, camminando per le viuzze strette di Valensole, ci si può sporgere dai balconi panoramici verso la piana della lavanda, e cogliere un tripudio di colori sempre vario e incantevole: in marzo i mandorli si agghindano di fiori bianchi, in contrasto delicato e fresco con il viola dominante; in luglio le toppe di lavanda si affiancano a qualche appezzamento dorato di grano, in un patchwork eccentrico che toglie il fiato; in novembre, infine, mentre la lavanda si spegne con una nota nostalgica di grigio argenteo, gli ocra caldi dell’autunno prendono il sopravvento. Il clima ideale per questo spettacolo della natura non poteva che essere di tipo mediterraneo. A Valensole e nell’altipiano, infatti, le estati sono calde e secche, le primavere miti e gli inverni freddi ma non rigidissimi: luglio e agosto sono i mesi più caldi, con una temperatura media massima di 29°C e minima di 19°C, mentre in dicembre e gennaio si va da una minima media di 3°C a una massima di 13°C. Se le temperature favoriscono la crescita della lavanda, la scarsità delle piogge rende la zona ancora più invitante per i turisti: qui non piove quasi mai, anche se il cielo può giocare lo scherzo di far comparire un nuvolone carico d’acqua all’improvviso, e scatenare un temporale inaspettato. In poco tempo, comunque, il sole torna ad inondare il viola delle pianure provenzali. Ma il panorama fiorito e la lavorazione industriale della lavanda non sono le uniche risorse di Valensole, che custodisce alcuni gioielli storico-artistici meritevoli d’attenzione. Chi visita il cuore del borgo, ad esempio, non potrà non notare l’imponenza del Castello de Bars, costruito nel 1627, o l’eleganza delle tipiche abitazioni del XVIII secolo. Del 1734 è la bella fontana della Piazza Thiers, con la base circolare e un pilastro centrale da cui zampillano i getti d’acqua, dichiarata monumento storico. Da vedere anche la chiesa parrocchiale di Saint-Denis, antico priorato dell’abbazia di Cluny fondato da Saint Maieul, che domina il villaggio. La navata, ricostruita tra il 1789 e il 1790, è incastonata tra una facciata occidentale in stile romanico e un coro del XIV secolo. Un tempo esisteva certamente un piccolo chiostro, di cui rimangono poche tracce, mentre si conservano tutt’ora le strutture delle fonti battesimali, anch’esse dichiarate monumento storico. A raccontare la storia e la personalità di Valensole, a parte gli edifici del borgo, c’è una ricca rassegna di eventi e manifestazioni che si svolgono durante l’anno. L’occasione più spettacolare e significativa è certamente la celebre Festa della Lavanda, che si svolge la terza settimana di luglio e ha l’intento di far conoscere ai visitatori gli innumerevoli usi e le tradizioni legate alla pianta caratteristica della Provenza. Mentre le signore del posto passeggiano per le vie della cittadella vestite come le lavandaie di un tempo, i turisti possono visitare le coltivazioni e le distillerie, assistere agli spettacoli a tema o acquistare al mercatino i prodotti a base di lavanda, dalle prelibatezze gastronomiche agli olii essenziali, dagli oggetti in ceramica ai semplici sacchetti profumati. Questa è la festa più famosa, che attrae visitatori da tutta la Francia e dall’estero, ma l’agenda di Valensole è affollata anche negli altri periodi dell’anno. Tra gli eventi da non perdere citiamo la Fete de la Saint-Eloi in giugno, una giornata dedicata ai cavalli e ai mestieri legati a loro, e l’Espace du Livre di agosto, un evento culturale che vede riuniti scrittori locali e internazionali per la presentazione delle loro opere al pubblico. Per raggiungere Valensole dall’Italia ci si può servire di vari mezzi: chi desidera viaggiare in aereo potrà atterrare all’Aeroportt International de Marseille-Provence, collegato a tutte le principali città europee e a circa un’ora e 30 min di auto dalla meta finale. Chi preferisce il treno potrà arrivare a Valensole in 20 minuti dalla stazione SNCF di Manosque; in 1 ora e 20 minuti dalla stazione TGV di Aix en Provence. Infine, chi viaggia in auto, dovrà imboccare l’autostrada A51 e uscire a Manosque, seguendo poi le indicazioni sino a Valensole.

Roussillon

Roussillon, villaggio del dipartimento della Vaucluse, nella Francia meridionale, è un piccolo borgo di circa 1300 abitanti. Siamo nella regione Provence-Alpes-Côte d’Azur, nel cuore del Parco naturale regionale del Luberon, dichiarato parte della rete mondiale di riserve della biosfera dall’UNESCO. Roussillon è famoso per essere il villaggio dell’ocra, visto che nei suoi dintorni si trovano alcune delle più famose cave di minerali terrosi (ematite e limonite) dalle quali si ricavano le terre coloranti naturali. Il villaggio nacque durante il periodo di dominazione gallo-romana e nel X secolo venne costruito un piccolo castello a difesa del borgo, ma è soltanto in epoca relativamente più recente, a partire dal XVIII secolo, che s’iniziarono a sfruttare con maggiore intensità le ingenti risorse di ocra di cui il territorio disponeva. Nacquero così delle vere e proprie fabbriche che davano lavoro a gran parte degli abitanti di Roussillon e contribuirono alla crescita economica del paese. L’attività estrattiva è continuata fino alla metà del XX secolo, sostituita oggi dal turismo come vera fonte di guadagno delle persone che vi abitano. Non è un caso, visto che Roussillon fa parte a pieno titolo dell’associazione dei più bei villaggi di Francia (“les plus beaux villages de France”). Già ad una prima vista, il borgo si presenta come una tavolozza di colori di un pittore con le tante tonalità dell’ocra che caratterizzano gli edifici. I vicoli si insinuano tra le case rossastre, rosate e con le mille sfumature che i raggi del sole modificano con il passare delle ore durante la giornata. Passeggiando per le sue strade, dove si susseguono le botteghe e alcuni scorci indimenticabili, si possono scoprire i tanti luoghi simbolo del villaggio: le Beffroi (il campanile) che fungeva da antica porta del Castrum forificato, le tante piazzette (Place du Pasquier, Place de l’Abbé-Avon adiacente alla Porte Heureuse, poi ancora Place Pignotte, Place de la Forge, Place de la Mairie circondata da deliziose case del XVIII secolo e infine Place de la Poste, dove si trova l’ufficio turistico), la chiesa di St.Michel situata proprio in prossimità del bordo della falesia e la table d’orientation, a tutti gli effetti il punto culminante del villaggio da dove si può godere la spettacolare vista panoramica che spazia dal Luberon ai Monti della Vaucluse. Roussillon è strettamente legata all’ambiente circostante: i turisti amano percorrere a piedi il Sentiero delle Ocre, IMG_5134dove un tripudio di colori abbraccia i visitatori che camminano tra le falesie variopinte – si va dal giallo al violetto, passando per tutte le tonalità – in mezzo alla vegetazione della cosiddetta Chaussée des Géants (Passeggiata dei Giganti)IMG_5114. Esistono due percorsi segnalati: uno più breve (di mezz’ora) e l’altro da circa un’ora che consentono di ammirare il paesaggio e vedere da vicino come si presenti l’ocra nel suo stato originario. Per sua stessa natura, la polvere dell’ocra “sporca” i vestiti, per cui suggeriamo di non indossare abiti bianchi e soprattutto di scegliere un vestiario che sia poi facilmente lavabile. L’accesso al sentiero è a pagamento e per chi volesse approfondire il tema dell’ocra esiste la possibilità di visitare l’interessante “Conservatoire des Ocres et de la couleur“, realizzato all’interno di un’antica fabbrica, l’Usine Mathieu, dove si lavorava l’ocra nei secoli scorsi. Il Conservatorio delle Ocre si trova a sud-est del paese, sulla strada D104 per Apt

Gordes

Gordes è un bellissimo borgo antico,IMG_5193 che rimane arroccato sul bordo meridionale dell’alto Plateau de Vaucluse. La pietra dei suoi edifici costruiti in stretto contatto, che sembrano sovrapporsi alle rocce e tra di loro in una disordinata armonia, sono fatti di una pietra color beige che si illumina di arancione con il sole della mattina. La vista da sud è uno dei panorami più suberbi della Provenza, con Gordes che rimane circondato dai campi, boschi e piccoli villaggi arroccati sulla Montagne du Luberoncon e con il castello del dodicesimo secolo che svetta imponente su tutta la città e la vallata. Gordes si può visitare in qualsiasi stagione.

 

Il suo fascino muta con il variare dei colori della vegetazione e del cielo. In estate può essere un ottimo spunto per trascorrere una serata al fresco della collina e sfuggire alle temperature torride della pianura provenzale, mentre in inverno se la nebbia attanaglia le vallate, Gordes emerge luminoso con le sue case di pietra dorate dai raggi del debole sole. La primavera è un altro ottimo periodo, quando la Provenza si ricopre di fiori e la calda luce valorizza l’impatto visivo del borgo medioevale di Gordes. Il nome “Gordes” deriva dalla parola celtica “Vordense”. Vordense è poi evoluta nel tempo nel nome attuale di Gordes. La vista da nord del castello mostra sia le parti antiche che le ristrutturazioni di epoca rinascimentale. Era il 1031 quando un castello fu costruito sulla montagna e usando la parola latina “castrum” nacque “Castrum Gordone”. Nel 1148 si aggiunse nei dintorni l’Abbazia di Sénanque, e la città assunse sempre più importanza, ma poi furono i lavori del rinascimento che modellarono il castello di Gordes nel 1525, trasformandolo nella grande attrazione turistica che è oggi.

Tutti gli edifici in Gordes sono fatti di pietra e fanno di terracotta su’ tetti. Per preservare la struttura antica le recinzioni non sono ammesse, e si deve fare uso solamente di muri in pietra. Per la gioia dei fotografi l’energia elettrica e tutti i cavi telefonici sono stati messi in condotte sotterrane. In più tutte le strade sono lastricate di pietre, dando un tocco in più al sublime paesaggio storico. Uno dei punti panoramici più belli di Gordes si trova lungo il percorso che dalla autostrada A7 conduce al borgo medioevale. Per arrivare a Gordes l’uscita della A7 (tratto Marsiglia-Avignone) consigliata è Cavaillon, che si raggiunge oltrepassando il fiume Durance. Da qui si gue il percordo della D2 che conduce a Robion, all’incrocio con la N100 a Coustellet, ma poi si presegue ancora sulla D2 fino alla periferia di Gordes. Ad un certo punto la D2 piega verso destra, e alla rotonda invece di proseguire a Gordes, si svolta a sinistra, dove si possono trovare molti punti panoramici per contemplare un vista fantastica sul centro di Gordes. Una volta alla settimana,più precisamente il martedì mattina, a Gordes è giorno di mercato. Questo è un ottimo momento per visitare la città e vedere i prodotti tipici della Provenza. In una giornata di mercato oltre che godervi i vicoli, gli scorci imprevisti e suggestivi del borgo, affronterete le bancarelle dei mercanti provenzali dove vi verrà offerto cibo, vestiti, strumenti musicali , artigianato della Provenza, decorazioni, e molto di più. Salendo le stradine tortuose arriverete al castello. Del nucleo primitivo del Castrum Gordone rimangono solamente due torri, coronate da piombatoi, ben visibili lungo la facciata nord. Al primo piano del castello troviamo una superba sala lunga ben 23 metri e dal soffitto in legno. Qui è posizionato un magnifico camino, che fu scolpito nel 1541 in bello stile con delle nicchie che dovevano ospitare delle statue. Il castello ospita anche im museo Vasarely, aperto negli anni ’70. Cinque stanze furono messe a disposizione di Victor Vasarély per il suo “Museo Didattico” (Musée didactique) come riconoscimento per avere contribuito ai costi di restauro. Il pittore ungherese (nato nel 908) è uno dei più importanti artisti del Costruttivismo. Da visitare nei dintorni di Gordes. Le attrazioni turistiche principali della zona sono il Village des Bories e l’abbazia di Sénanque, quest’ultima copertina di quasi tutte le guide della Provenza, per le sue coltivazioni di lavanda (vedi foto). Gordes si trova infatti in una regione del Vaucluse con molti edifici interessanti in pietra a secco Bories, in un certo senso degli equivalenti dei nostri trulli pugliesi. Ce ne sono nelle campagne, nelle immediate vicinanze del villaggio, tra cui un gruppo famoso chiamato i tre soldati . Appena accanto a Gordes, ad occidente, si trova il Village de Bories, un antico borgo con tutti edifici in pietra a secco: un incredibile collezione di case, muri, fienili e una varietà di altre strutture , tra cui un negozio del periodo della fabbricazione della seta. Il Village des Bories rimane aperto dalle 09:00-17:30, e costa circa 5 euro per adulto. Ancora vicino a Gordes, si trova Fontaine-de-Vaucluse. Il principale punto di interesse è la sorgente della Sorgue che si trova ai piedi di una rupe alta 240 metri, e stupisce per la sua imponente portata. A nord, ancora in Valchiusa (Vaucluse), ma non più sullo stesso gruppo di colline, si trova il celebre Mont Ventoux, soprannominato il “Gigante della Provenza” a causa della sua dimensione imponente, un prestigiosa località legata al ciclismo su strada che spesso viene visitato dal Tour de France.

 

Les Baux-de-ProvenceIMG_5243

La Provenza si mostra in tutta la sua bellezza nel paesaggio magico delle Alpilles, una catena montuosa con orientamento ovest-est dove si trovano incredibili formazioni rocciose che si possono ammirare lungo la strada che proviene da St. Remy in direzione di Arles. Pareti di roccia verticali si alternano a zone ricche di foreste, rendendo affascinante il paesaggio curva dopo curva. La massima suggestione si raggiunge però a Les Baux, dove i resti di un antica fortezza si fondano con il colore chiaro delle rocce in un connubio che vi riporta indietro nel tempo, al tempo del medioevo quando i signori di Baux dominavo su questo angolo di Provenza.IMG_5248

Il nome di “Baux”, ha dato il nome ad una roccia, la bauxite, scoperta per la prima volta proprio nelle Alpilles, e il nome proviene dal villaggio di Baux-de-Provence. Si tratta di una roccia molto importante dal punto di vista economico, per la sua ricchezza in alluminio. Per arrivare a Les Baux si utilizza la A8 che dal confine italiano conduce verso Aix-en-Provence e Marsiglia, per poi immettersi sulla Autostrada A7. Arrivati a Salon de Provence si può decidere se proseguire sulla A7fino a Cavaillon e da qui proseguire per St. Remy e Les Baux, oppure piegare sulla A54 in direzione di Arles-Nimes e uscire in direzione di Mouries e affrontare le Alpilles dal versante sud fino ai magici paesaggi di Les Baux. Appena dentro l’ingresso del borgo si trovano strette strade ciottolate, bar con terrazza, negozi di souvenir e turisti. Les Baux è un sito turistico molto popolare, vedrete spole di autobus raggiungere il parcheggio durante il giorno, ed è quindi consigliabile visitare il villaggio ed il castello al mattino presto, arrivando già alle 9 di mattino o prima, per gustarsi la magica solitudine delle strade medioevali. Il periodo migliore per visitare il sito è la primavera e l’estate, ma sono anche i momenti di maggiore affollamento. In inverno è più difficile imbattersi nei tour organizzati e le Alpilles hanno un fascino speciale nelle giornate di nebbia in pianura. Le prime tracce della presenza umana sul pianoro di Les Baux-de-Provence dal punto di vista archeologico è attestata dal periodo neolitico, circa 6000 anni avanti Cristo. La presenza di un castello è invece attestata da documenti dallaseconsa metà del 10° secolo. Il primo noto membro della famiglia di Les Baux, Pons Le Jeune, è citato in un testo della fine del 9° secolo. La famiglia resse le vicende del sito, con anche fasi cruente, fino all’ultima superstite, la principessa Alix, è che morì al castello nel 1426. La storia è stata lunga e movimentata durante questo periodo: conflitti (guerre in Les Baux), rivolte, assedi, le guerre di religione, nonostante ciò durante il 16 ° secolo Les Baux divenne un sito prospero, che vide un grande sviluppo architettonico con la costruzione di nuovi appartamenti nel castello e molti palazzi privati. Purtroppo, ci sono poche tracce rimaste di opere d’arte (pittura e arti decorative) risalenti a questo periodo aureo. Il castello fu infine distrutto nel 1632, durante il periodo del Cardinale Richelieu, a causa di problemi provocati da ribelli che vi avevano preso rifugio. Questa distruzione volontaria spiega molto la condizione un po’ fatiscente degli edifici di oggi. Il Castello (Château des Baux) si trova a nord-est del pianoro nel punto più alto (241m) e comprende molti edifici di epoche diverse in diversi stati di conservazione, mostrando i cambiamenti che i signori e gli abitanti di Les Baux hanno applicato attraverso i secoli: tra questi si nota l’estensione del castello stesso e le varie modifiche della Sainte Chapelle – Catherine e la “Ruelle castrale”. Il fascino intenso che il castello emana è dovuto al fatto che il gruppo di edifici è impostato sulla roccia, sfruttando le sue naturali cavità e pareti. Esso include bastioni, le torri, un mastio, una cappella e varie abitazioni. Appartenente al castello medievale, la cappella di Santa Caterina è in parte scavata nella roccia e in parte costruita in pietra. Il coro è di fronte ad est e l’ingresso volge ad ovest. La sua struttura è semplice: rettangolare e composta da una navata con due baie, una sola delle quali ha conservato la sua copertura.

Tracce di archi sulla pareti interne mostrano le modifiche architettoniche successive del complesso. Le parti più antiche potrebbero invece risalire all’11° secolo. La Ruelle Castrale è una corsia che separa il castello dalla Maison du Four e conduce dalla scalinata di pietra alla Cappella di Santa Caterina. Il punto di partenza per il tour di Castello è la Tour de Brau che oggi ospita il museo di storia di Les Baux che ha una mostra di modelli di Castello nel 13 ° secolo e durante il Rinascimento. Il palazzo di Tour de Brau, che apparteneva ad una famiglia dello stesso nome nel corso del 15° e 16° secolo, è stato probabilmente costruito all’inizio del 12 ° secolo. Si tratta di una delle più interessanti residenze del vecchio e nobile paese di Les Baux. Il villaggio: Grand – Rue è la strada principale del villaggio, fiancheggiata da una parte e per quasi tutta la lunghezza da grandi case di una volta appartenenti ai più ricchi borghesi e alle nobili famiglie. L’Hotel de la Manville, oggi il municipio, è senza dubbio la più grande di queste residenze e uno delle meglio conservate. Fu costruita nel 1571 da un architetto di Vivarais per Claude de Manville, che proveniva da una famiglia protestante di Tolosa. Claude I de Manville è stato un capitano della flotta Reale e uno dei cavalieri del Santo Sepolcro. Al primo piano ora nella Camera di Consiglio del Municipio troviamo un monumentale camino (1572) sormontato da un fregio decorato e resti di colonne doriche. La chiesa di Saint-Vincent è uno dei più antichi monumenti del borgo e si trova a “Place Saint Vincent”. Questo monumento ha una pianta quadrata e orientata est-ovest. Tutte le chiese della Valle del Baux sono costruite nello stesso modo, in perfetta conformità con il simbolismo cristiano, che pone la facciata verso il tramonto, da dove viene il buio e l’altare in direzione della luce, che simboleggia Cristo. La chiesa all’interno possiede tre navate. Quella di sinistra, la chiesa primitiva e la parte più antica, risale al 10° secolo. La sua volta semicircolare è decorata con festoni triangolari caratteristici del periodo carolingio. Questa navata ha tre cappelle intagliatenella roccia. La navata principale in stile romanico risale al 12 ° secolo. Nel 1550 una galleria venne aggiunta sopra l’entrata. Sopra l’altare maggiore vi è un bel dipinto raffigurante la sentenza di condanna di Saint Vincent che fu fatto martire. La navata di destra, in stile gotico nel lato nord dell’edificio è composta da 3 cappelle, una delle quali ospita il cenotafio della famiglia Manville, che possiede una fiammeggiante volta gotica. Sulla facciata sud si trova una torretta circolare sormontata da una cupola decorata con la “lanterna dei morti” dove veniva posta una fiamma accesa ad annunciare la morte di un abitante del villaggio. La porte Eyguières, permetteva agli abitanti del villaggio di recuperare l’acqua della pianura del Vallon de la Fontaine, dove si trova una sorgente e una lavanderia. Gli abitanti locali la chiamano semplicemente la porta lou Porteau. Lo stemma della casa di Grimaldi, anche se danneggiato durante la Rivoluzione, è ancora visibile sopra la postierla. Fondata come marchesato nel 1643, Les Baux e le sue torri appartenevano alla famiglia Grimaldi fino al 1790. Anche se la Rivoluzione francese ha abolito i privilegi, il principe Alberto di Monaco conserva il titolo onorario di Marchese di Les Baux.

 

Saint-Remy-de-Provence: Tra Nostradamus e Van Gogh

Sono meno di diecimila gli abitanti che godono della bellezza delicata di Saint-Remy-de-Provence, villaggio di fondazione romana immerso nella campagna della Francia meridionale, nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Chiamato in Occitano Provenzale “Sant Romieg de Provença”, il borgo è abbracciato dalle Alpilles, le prealpi impreziosite dal fogliame argenteo degli ulivi. Tra gli estimatori di questi luoghi senza tempo, dove la vegetazione che vibra al vento pare sussurrare, ci fu il celebre Vincent Van Gogh che per un anno, dal 1889 al 1890, fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Saint Paul de Mausole e dipinse ben 150 quadri ispirato dal panorama di Saint-Rémy-de-Provence. Alcuni dei suoi capolavori più noti, come “La notte stellata” IMG_5292o un famoso “Autoritratto” vennero realizzati proprio durante la sua permanenza in città.IMG_5288

Delle 150 tele, che si diffusero immediatamente in varie parti d’Europa e del mondo, Saint-Remy conserva altrettante copie realizzate con maestria, esposte tutto l’anno al Museo Estrine. Si tratta di un palazzo dall’architettura raffinata ed elegante, piacevole da percorrere in ogni scalinata o corridoio, ma è specialmente un omaggio e un monumento al genio del grande pittore. Un altro personaggio legato alla cittadina di Saint-Remy-de-Provence è nientemeno che Nostradamus, che dopo esser venuto alla luce nel piccolo borgo provenzale si trasferì ben presto altrove. Ancora oggi la casa natale reca una targa in suo onore, ma non è consentita la visita all’interno. La principale attrattiva del paese, situata poco al di fuori del cuore cittadino, sono le rovine dell’antica Glanum. Glanum fu un insediamento celto-ligure che tra il II e il I sec a.C. visse sotto il dominio greco, per poi romanizzarsi nelle mani dell’imperatore Augusto. Fu Augusto a trasformare la piccola Glanum in un centro importante, dotato di foro, basilica e curia. Si narra che nel periodo di suo massimo splendore, in età romana, l’insediamento potesse competere in bellezza e imponenza con le città più ammirate del tempo, come Marsiglia, Arles e Orange: secondo gli studiosi, infatti, i resti che oggi possiamo osservare sarebbero solo una minima parte dell’antica maestosa città. Si sono conservati sino ai nostri giorni i templi dedicati alla Fonte Sacra, i resti della basilica, del foro, della curia e di altri templi. Nella parte residenziale, poi, rimangono le terme e la villa di Cybele, oltre ai resti di altre case appartenute a personaggi sicuramente ricchi e potenti.

Ma i primi monumenti di Glanum ad essere scoperti dagli archeologi, per lungo tempo considerati gli unici rimasti, sono il massiccio Mausoleo del 30 a.c. e l’Arco Trionfale, in corrispondenza dell’ingresso in città. Tutti i giorni è possibile visitare il sito, in orari diversi a seconda della stagione, pagando un biglietto che vale decisamente la pena di acquistare. Ma chi osserva gli antichi scavi non deve pensare che i ritrovamenti si limitino a ciò che vede: molti oggetti, infatti, sono stati prelevati da tempo e trasferiti all’Hotel de Sade. Il museo raccoglie una collezione straordinaria di statue, capitelli, frammenti di colonne e di fregi, suppellettili e oggetti della vita quotidiana del tempo. Non mancano poi a Saint-Rémy-de-Provence le occasioni per fare festa e divertirsi. Protagonista immancabile delle manifestazioni è il vino, a cui è dedicato in particolare il Festival d’Estate di Saint-Rémy: la festa si svolge in luglio, è completamente gratuita e dalla mattina alla sera offre la possibilità di visitare le cantine ed assaggiare i prodotti più pregiati di oltre 30 produttori locali.

Le feste popolari legate alla tradizione sono invece la sagra del bestiame, alla fine di settembre, e il festival della transumanza durante il fine settimana di Pentecoste. Raggiungere il borgo fuori dal tempo non è difficile, e le possibilità per arrivare sono varie. Trovandosi proprio nel centro della Provenza, circondato da Marsiglia, Avignone e Arles disposte a triangolo intorno ad esso, Saint-Remy è facilmente raggiungibile con molte strade locali. Il modo più veloce è prendere l’autostrada A7, uscire a Cavaillon e proseguire verso Saint-Remy servendosi delle indicazioni. Chi preferisce arrivare in aereo potrà atterrare all’Aeroporto di Marsiglia, a circa 74 km. Una volta atterrati si verrà accolti dallo splendido clima della Provenza, caratterizzato da temperature miti, brezza fresca e una luce magica. In inverno non si scende mai sino a temperature molto rigide, infatti in gennaio i valori medi vanno da 1°C di minima a 7°C di massima. In luglio invece, il mese più caldo, si va da 16°C di minima media a 29°C di massima media. Luglio è anche il mese meno piovoso, con una media di soli 5 giorni di pioggia al mese, mentre il periodo più colpito dalle precipitazioni è quello che va da ottobre a gennaio, con una media di 10-12 giorni di maltempo al mese.

LA BASILICA DI SAINT- MAXIMIN

Strettamente correlata al Convento Reale Domenicano e alla Sainte Baume, il luogo conserverebbe il teschio di Maria Maddalena e sarcofagi del IV secolo d.C. Il racconto della nostra visita.

Spesso si tende a dimenticare che i luoghi in cui ci rechiamo in visita per uno specifico motivo, sono in realtà anche ricchi di storia millenaria e di vestigia importantissime. E’ il caso di Saint Maximin, che ufficialmente ha una sua storia ben documentata a partire dall’XI secolo, ma bisogna spostarsi nella preistoria per poterne dare una adeguata collocazione. Più recente, almeno della vastità della Storia,è l’epoca gallo-romana, di cui conserva notevoli tracce. Conserva anche importanti edifici di diverse epoche,tra cui i resti di mura del XIII secolo, quand’era fortificata, le arcate del quartiere ebraico medievale, l’Hotel de Ville(il municipio), l’Hotel Dieu (del 1681, era un ospedale detto di Saint Jacques, che disponeva di personale medico e sanitario per la cura di malati e orfani; accanto vi si trovava la cappella dei Penitents bleus,che fungeva da necropoli). La città deve comunque la sua ‘fama’, innegabilmente, alle vicende legate a Maria Maddalena. Spesso lo si trova riportato come Saint Maximin-La Sainte Baume, incorporando sia la località in cui sorge la basilica con i resti della Santa di Magdala e il convento reale domenicano, sia la grotta dove leggenda narra visse gli ultimi trent’anni della propria vita. A circa trecento m di altitudine, Saint Maximin è una piana residuata dal bacino di un antico lago disseccato, circondata dal massiccio della Sainte Baume, dal Monte Aurélien e dalla Montagna della Sainte Victoire.

Qualche rapido ‘ripasso’ per inquadrare gli eventi. Secondo alcune leggende, ma anche nel breviario della diocesi di Aix en Provence, dopo la morte di Gesù,si perpetrò presto una persecuzione da parte degli Ebrei. Parecchi apostoli, assieme a Marta, Maria Maddalena, Lazzaro, Maria Salomè, Maria di Giacomo,vennero arrestati e imbarcati su una nave priva di vele e di remi che -guidata dalla Provvidenza -raggiunse le rive della Provenza (Marsiglia?).Volendo ipotizzare una situazione di disagio sociale,politico, o religioso sul tipo cui assistiamo oggi nel mondo, non ci sarebbe niente di così sconvolgente che una ‘carretta del mare’ (o una nave ‘di linea’ che solcava anche allora il Mediterraneo) abbia in verità potuto solcare i mari e, respinta o non ospitata in altre terre, abbia poi trovato accoglienza sulle coste provenzali.

Ciascuno dei personaggi avrebbe preso strade diversificate, diffondendosi a predicare la Buona Notizia di Gesù Cristo. Dopo l’Evangelizzazione di questi territori, Maria di Magdala (Maddalena) si ritirò in eremitaggio nella grotta della Sainte Baume, dove visse trent’anni in solitudine e penitenza. Avvertita dal Cielo della sua morte imminente, avrebbe ridisceso il lungo cammino ( o, secondo una leggenda, trasportata dagli angeli) per incontrare Saint Maximin, che era divenuto il primo vescovo di Aix, dal quale volle ricevere la Comunione. Il luogo del presunto incontro è ricordato come Santo Pilone (eretto nel 1483).La località sorgeva in origine nei pressi di un ‘castrum’chiamato ‘Redonas’o ‘Rodani’, sviluppato intorno alla pianura così come numerose proprietà agricole che in epoca Romana prendevano il nome di ‘Villa Lata’.

Maddalena sarebbe quindi morta tra le braccia di San Massimino (Saint Maximin) e sepolta nel punto dove oggi sorge la basilica a lui intitolata.

Non esiste documentazione attestante quanto avvenne in realtà. Abbiamo ‘solo’ quattro meravigliosi sarcofagi nella cripta della basilica:uno appartiene a San Massimino, uno a San Sidonio, uno alle sante Marcella e Susanna. E uno…a Maria Maddalena. Una ricostruzione ideale è che questi resti fossero stati venerati fin da allora e -giunti al VIII secolo (716) – per il pericolo delle profanazioni delle incursioni saracene, nascosti sotto terra,dove appunto si trovano ancora oggi, nella parte sotterranea dell’edificio. Sarebbero stati ritrovati nel 1279 da Carlo Ii d’Angiò, a quel tempo conte di Provenza e nipote del re di Francia Luigi il Santo,che nel 1254 era tornato dalla Crociata. In quel tempo, la ‘caccia’alle reliquie era fenomeno attestato e diffusissimo. Abbiamo potuto constatare come tanti luoghi si fregino di conservare un determinato ‘reperto’attribuito a un Santo, quando non alla Santa Croce, alla Madonna,a Gesù in persona (si pensi al Sacro Caliz di Valencia, ad esempio o al Sacro Catino di Genova) e via discorrendo. Possedere una di queste Reliquie significava enorme prestigio per tutte le Istituzioni Civili o Religiose che vi gravitavano attorno, con un grande coinvolgimento di fedeli e pellegrini. Allora ma anche oggi.

Vediamo invece come si è giunti a costruire questa grandiosa basilica, il più grande edificio gotico della Francia meridionale e monumento Nazionale dal 1840.

Scavi condotti tra il 1993-’94 hanno messo in evidenza un precedente edificio, paleocristiano, del V secolo, al quale era stato aggiunto un battistero, forse nel secolo seguente, che comunicavano tramite tre porte. Torna il legame con l’acqua, e la presenza del battistero attesta come il luogo fosse già consacrato al culto da tempi antichi. Il livello cui si trovava è pressappoco lo stesso di quello della cripta attuale dov’è custodita la tomba di Maddalena. Qui si trovava presumibilmente dunque anche la chiesa primitiva,sulla quale venne innalzata una chiesa. Le reliquie vennero inglobate in essa e se ne persero le tracce. Fino a che Carlo II d’Angiò venne a conoscenza della storia di Maria Maddalena e fece cercare le reliquie, facendo scavare nel punto in cui si trova la cripta oggi e le trovò. Sembra che il re -su indicazione di padre Gavoty- sia stato accompagnato in un campo vicino a Villalata, vi abbia trovato una pianta di finocchio tuta verdeggiante (queste erano indicazioni che Maddalena,in un presunto sogno, avrebbe dato a lui affinché venissero ritrovate le sue spoglie). Aiutato dai contadini, si mise a scavare scoprendo la cripta e portando in luce i sarcofagi. Carlo ordinò di far aprire quello di San Sidonio (c’è il motivo e più avanti lo scopriremo):un soave profumo si sprigionò dalla tomba,come se fosse stato aperto un magazzino di erbe aromatiche,controllò l’interno e fece fermare la procedura:per lui quelli erano i resti di Maria Maddalena. Tutto venne richiuso e fu riaperto nove giorni più tardi,alla presenza di un gran numero di persone,prelati,gentiluomini,archivisti di Arles e Aix en Provence.Tutti si meravigliarono del profumo che lo scheletro emanava:la lingua era rimasta incorrotta,seccata ma aderente ancora al palato; mancava l’osso mascellare inferiore e,pare,fossero rimasti anche dei capelli. In tale occasione viene fatto un inventario. Fu subito un evento che si ripercosse a livello civile e religioso e l’ elevazione delle reliquie avvenne nel maggio 1280. In previsione di una grande affluenza di pellegrini, pensò di dar loro degna venerazione facendo costruire una chiesa più grande, negli anni compresi tra il 1295 e il 1296, con annesso convento dei Domenicani,che non viveva di elemosine ma ricevendo dal conte stesso una sovvenzione. I lavori proseguirono fino al 1301, poi si interruppero per riprendere nel 1305.I successori di Carlo II d’Angiò, ma anche pontefici e re, pare si dessero molto da fare per portare a compimento l’opera, che non vedrà la fine che nel corso del XVI secolo. Ma la facciata, come si può notare dalla foto, è grezza, perché non fu mai terminata.

 

Bellissima la navata centrale, terminante con un’abside molto caratteristica:ha infatti sette lati. In origine il numero totale delle vetrate della chiesa era di 66, oggi ne sono rimaste 44 e, per di più, hanno perso tutto il loro valore. I vetri originali istoriati e colorati, infatti, decorati da Didier de la Porte nel 1521,sono stati distrutti durante le guerre di religione (fine XVI sec.).Oggi sono vetri incolori.

La basilica ha tre navate e straordinarie misure. La navata centrale è lunga 72.60 m e alta 29 m sotto la volta; quelle laterali 64,20 m di lunghezza, 16,60 m di altezza e 6,90 di larghezza. Ciascuna cappella è alta 10,25 m; la larghezza complessiva delle tre navate con le cappelle è di 37,20 m, mentre tra i pilastri la navata centrale è lunga 13,20 m; profondità cappelle:5,10 m. La basilica è strutturata in modo che la navata centrale conti nove campate; le laterali otto, ognuna corrispondente ad una cappella.

Il convento reale domenicano

I lavori della basilica procedettero sempre insieme a quelli del Convento Reale Domenicano,per volere di Carlo II e dei suoi successori. Questo convento doveva essere molto importante per tutti loro ed è oggetto di non pochi misteri, a nostro avviso:su richiesta di Carlo II d’Angiò, il papa Bonifacio VIII autenticò le reliquie di Santa Maria Maddalena con una Bolla dell’ 8 degli idi di aprile 1295 indirizzata al re e mandò via i monaci che lì vi erano installati fino a quel momento (probabilmente legati alla chiesa precedente):erano i monaci dell’abbazia di Saint-Victor di Marsiglia era stata fondata da Jean Cassien nel 415 d.C. (unitamente aveva fondato un Priorato della Sainte Baume, ai piedi del Pic des Beguines, in cui accoglievano sia gli anacoreti che i cenobiti, cioè monaci che vivevano in comunità). Questi monaci seguivano la Regola benedettina e a quanto sembra di capire non crearono problemi nel momento in cui venne loro ordinato di lasciare il convento, forse per evitare diatribe sconvenienti per la cittadina: Carlo II d’Angiò era pronto infatti ad usare anche la forza per ottenere il loro allontanamento, dicono le cronache! Non è strano, questo fatto? Perché voleva a ogni costo i Domenicani? Forse i monaci di Saint Victor sapevano una versione della ‘storia’ delle reliquie diversa da quella che si voleva propagandare?

Ufficialmente, Carlo II d’Angiò era in debito di gratitudine con i domenicani perché avevano avuto un ruolo importante nella sua liberazione quand’era prigioniero a Barcellona.Per questo li avrebbe voluti nel ‘suo’convento reale, di cui lui era praticamente il leader. Lui infatti sceglieva il Priore, sulla base di tre nomi che gli venivano presentati, e possiamo immaginare come quei tre nomi fossero già -presumibilmente- ‘pilotati’….Il Convento reale, di fatto, godeva di protezione speciale della Santa Sede, ed era esentato (con tutte le sue dipendenze) dalla giurisdizione dell’abate di Saint-Victor e di quella di ogni ordinario:in pratica doveva obbedire solo al proprio Priore, che però, venendo nominato dal re, era in sostanza una figura emissario del re stesso ed è ovvio non potesse decidere difformemente dalle volontà del re. Questi, infatti, decise il nome del primo priore che doveva installarsi (Guglielmo di Tonneins), decise il numero di frati predicatori che dovevano risiedere nel convento(20 monaci) di Saint Maximin e quelli da insediare alla Sainte Baume (4 monaci) e non solo: il papa stabilì che questo priore dovesse prendersi cura delle anime e del territorio senza essere sottoposto ad alcuna giurisdizione diocesana e senza obbligo di rendere alcun conto;ordinò (con apposita Bolla) che il re potesse visitare il convento quando lo desiderava e che, addirittura, il Priorato era in possesso del re Carlo II, rappresentato dal vescovo di Sisteron, Pietro di Lamanon. Ma c’era qualcos’altro che apparteneva al re, insieme al priorato e al convento, agli edifici, le pertinenze, i terreni, etc.: le reliquie della benedetta Magdalena e dei santi di Provenza. Chi avrebbe contravvenuto a queste disposizioni papali sarebbe stato scomunicato.

La Bolla venne letta il 20 giugno 1295, nella primitiva chiesa di Saint Maximin davanti all’altare di San Michele, alla presenza di molti testimoni. Ingenti somme venivano regolarmente versate ai domenicani per la prosecuzione dei lavori del convento e della basilica, per il loro mantenimento e sostentamento. Nonostante tutto, si dimostrarono a più riprese insufficienti, costringendo l’arresto dei lavori per periodi di tempo più o meno lunghi. Naturalmente si pensò alla costruzione di ambienti idonei ad alloggiare visitatori di spicco (soprattutto monarchi), che volevano venerare le reliquie della santa Maddalena e gli altri Santi provenzali. Attualmente, in quell’antico Ostello reale, risiede il Palazzo di Città o Municipio(dal 1796) ,che affaccia sulla stessa piazza della basilica.

Il convento era dotato di tutti i locali propri di un monastero, che facevano corona attorno al chiostro, che risale al 1434-’80 circa. Il re Renato ampliò a 48 il numero di frati (anzichè 24) e fondò un Collegio Teologico, filosofico, canonico per giovani religiosi del convento, con motivazione di ‘incrementare la gloria e l’onore di santa Maddalena’ definita dal re ‘secretariam et solam apostolam J.Christi’ (1476). Un bel riconoscimento per la figura di Maddalena, che l’agiografia ufficiale ci ha sempre mostrato come una peccatrice redenta…!

Questa situazione privilegiata del convento reale di Saint Maximin restò invariata per secoli;ad essa ricorsero sempre i frati quando v’era necessità di far valere i loro diritti acquisiti.

I Frati Predicatori animarono l’esistenza del convento e molti di essi presero parte attiva alla costruzione. Alcuni dei più bei lavori sono tutt’oggi apprezzabili all’interno,come lo stupendo pulpito ligneo scolpito, opera di padre converso Luigi Godet (finito nel 1756) su cui è rappresentata tutta la storia di Maria Maddalena convertita, abbigliata secondo i costumi del tempo del re Luigi XV. Altro manufatto conosciuti in tutto il mondo per la sua magnificenza,è l’organo(1773) eseguito da fra Giovanni Spirito Isnard, domenicano del convento di Tarascona, che era uno dei più abili organari dell’epoca. Sculture eseguite dai frati si trovano nel coro, che conta ben 94 stalli lignei; tra di esse, quelle del frate converso Vincenzo Funel. Diremo anche che non mancano gli artisti italiani che hanno partecipato, con diverse loro opere, all’arricchimento della basilica stessa.

Le vicende subite dal convento nel proseguo del tempo sono molto variegate:venne anche distrutto dalla popolazione -in parte- perché serviva materiale per ricostruire le mura cittadine, distrutte dalle incursioni del 1357;una perdita che pare costò al convento 8.000 fiorini! Nel 1590 una Congiura fece assediare il convento di Saint Maximin che venne risparmiato, insieme alla chiesa di Santa Maddalena, per intercessione del priore;ancor oggi si vedono i segni delle cannonate che tentarono di aprirsi un varco nella basilica. Con la Rivoluzione francese, i domenicani vennero scacciati (alcuni andarono all’estero,altri rinunziarono alla vita comune,rimanendo sul territorio) e il grande refettorio dei monaci venne adibito a sala per spettacoli! Nel 1793 (nel periodo del Terrore ) le celle dei monaci furono adibite a prigioni per i rei sospettati di avversione al regime e il piccolo refettorio divenne un ‘club’ rivoluzionario locale. Nel 1796 gli edifici monastici furono venduti, e una parte di essi venne occupata da abitazioni private; molta parte andò verso l’abbandono e le profanazioni. Le cronache descrivono una situazione desolante. Come alla Sainte Baume, anche qui arrivò in ‘soccorso’ padre Henri Lacordaire, il quale definì questo luogo ‘il Terzo Sepolcro della Cristianità’ dopo Gerusalemme e Roma (nella sua opera ‘La Vita di Santa Maria Maddalena’).Egli ricomprò nel 1859 tutti i locali del convento, riportandovi anche i domenicani, i quali restarono qui fino al 1957, quando decisero di trasferire la Scuola di studi teologici a Tolosa e decisero di vendere il convento(2).Questa Scuola era divenuta un centro importante di cultura intellettuale,artistica e poetica, riuniva il Centro di formazione e studi della Provincia di Tolosa.Su decisione del Maestro dell’Ordine dei frati Predicatori si decise di trasferire il tutto in detta città.

Un altro pozzo, attualmente esterno agli edifici conventuali, si trova nei pressi dell’Ufficio del Turismo,che oggi è l’unica via di accesso per visitare il chiostro; è protetto da una grata e appare molto profondo. Un tempo faceva parte dell’Antico Collegio e si doveva trovare attiguo al refettorio(come da pianta generale):

Maria Maddalena a Saint Maximin

Potremmo sinteticamente ‘riassumere’ in tre punti essenziali la presenza di Maddalena nella basilica (reliquie, sculture, dipinti), tuttavia mancheremmo di obbiettività in quanto la sua figura troneggia ovunque. E’ lei la protagonista assoluta di questa chiesa. Entrando nell’edificio, dopo che la bocca rimane per un buon lasso di tempo aperta per lo stupore suscitato dalla maestosità,dalla bellezza e dalla linee austere e slanciate che i costruttori hanno saputo imprimerle, si vedrà immediatamente l’abside, in fondo alla navata centrale, caratteristico perché formato da sette lati aperti da una doppia fila di vetrate. Qui si trova l’altare maggiore in marmo prezioso, con medaglioni d’oro;è sormontato da un’ urna in porfido rosso eseguita dallo scultore italiano (romano) Silvio Calce, che contiene le reliquie di S.Maria Maddalena. Più precisamente, dovremmo dire ‘conteneva’ perché andarono disperse nel 1793. L’urna fu donata dall’arcivescovo di Avignone a Santa Maria Maddalena per riporvi le sue reliquie,e fu benedetta da papa Urbano VIII nel 1634. Furono deposte in loco alla presenza del re Luigi XIV e della corte il 5 febbraio 1660.

L’urna è sormontata da una stata bronzea di Maddalena eseguita da Alessandro Algardi.In precedenza,le reliquie della Maddalena venivano esposte al pubblico durante le sue feste, in particolare il 22 luglio, sua ricorrenza, sicuramente dentro un altro reliquiario.

Molte le raffigurazioni di Maria Maddalena nell’abside, sia nei dipinti che negli stucchi, in diversi momenti della sua vita terrena: in tre diverse tele di Boisson, la vediamo -centralmente- alla Sainte Baume, a sinistra al Santo Sepolcro (vuoto perché Gesù è Risorto);a destra penitente. Vi sono inoltre altre raffigurazioni della Santa: a sud del presbiterio un bel bassorilievo in cui è ritratta mentre assume la Comunione da San Massimino (a destra) del Lietaud, e a nord Maddalena in estasi (Rapimento di Maria Maddalena),di autore ignoto.Il marmo proviene da Roma. Sovrasta l’altare con l’urna, una scintillante Gloria in gesso dorato dove, tra un coro di angeli, emerge la SS.Trinità sotto forma di colomba bianca (dempre del Lietaud, nativo de La Ciotat, località costiera non distante,che fu allievo del Bernini e discepolo di P.Puget).

Molto bello è anche l’altare ligneo detto della Passione,di Antonio Ronzen (scuola veneziana), situato nell’abside della navata nord. Opera del XVI secolo, raffigura diciotto medaglioni scandenti le scene della Passione di Cristo, che ‘convergono’ verso la scena che domina la parte centrale, la Crocifissione, in cui ai piedi della croce,in un abbraccio doloroso e passionale, c’è Maria Maddalena. Figure angeliche raccolgono il sangue di Cristo in tre calici:uno da quello che zampilla dal costato,due da quello sgorgante dai polsi. La scena in cui si svolge la narrazione evangelica, non è riferita a quella consueta del Golgota, ma si vede una cittadina costiera (notare le vele che solcano l’acqua), probabile allusione all’Apostolato provenzale di Maria Maddalena. La figura a destra, per chi guarda, racchiude un piccolo mistero. Per tempo fu ritenuto un priore del convento di Saint Maximin, padre Damiani, mentre si è appurato che si tratta del donatore di questo altare, il signore di Semblançay, Giacomo di Beaume.

Rappresentazione (di fr. Gudet) di Maria Maddalena nella cappella omonima:l’immancabile Calice nella sua mano destra. Il dipinto si trova su un armadio detto delle reliquie. Si trova di fronte alla cripta.Gli armadi sono due e hanno avuto sempre la funzione di conservare preziosi reliquiari, tanto che un inventario eseguito dopo il saccheggio del 1793, durante la Rivoluzione, cita un peso di 800 chili di reliquiari! Attraverso la cappella successiva,procedendo lungo la navata laterale sinistra, si poteva accedere anticamente direttamente al convento;oggi vi sono delle fotografie della vita comunitaria dei Domenicani quando si trovavano nel convento reale.

La cripta ipogea è il monumento più antico della Provenza, secondo una tradizione, noto come oratorio di Saint Maximin, primo vescovo di Aix en Provence e compagno di esilio e di apostolato di Maria Maddalena.Secondo gli storici, questo era un monumento funerario di epoca gallo-romana.La tradizione situa davanti a questa cripta la dipartita della Santa Maddalena, dopo aver ricevuto la Comunione dal San Massimino. Sarebbe poi stata interrata,insieme a lui alla sua morte, proprio qui. Su un pieghevole distribuito nella basilica, abbiamo trovato un accenno al fatto che la basilica sorga su un sito religioso merovingio, di cui non sappiamo però altro.

Scendendo la prima rampa di scale d’accesso,sulla destra si nota una statua di Maddalena sul masso della penitenza, con accanto il Calice. La croce ha una corda incrociata a formare una X, nel punto di intersezione.

Ricorderemo come questo luogo,così come la grotta della Sainte Baume,è meta obbligata di ogni Compagnons, cioè i Compagni di Dovere, attivi in Francia come Gilda di Mestiere itinerante, che si rifà alla leggenda di Hiram e usa simboli massonici, come abbiamo visto parlando delle vetrate della Sainte Baume. Maddalena è la loro santa protettrice, e il loro ‘tour’ iniziatico ha come penultima tappa la basilica in cui ci troviamo (per poi terminarlo alla Sainte Baume). Secondo la loro simbolica, Maria Maddalena simbolizza la progressione lenta che, durante tutta una vita seminata di successi e di fallimenti, permetterà all’iniziato di scoprire poco a poco il senso della sua esistenza.E’ qui che lasciano firme e sigilli del loro passaggio, e a loro sembra essere attribuito il ricorrente graffito di un ‘ferro di cavallo’, che abbiamo rilevato infatti copiosamente, sulla parete destra della balaustra, dove c’è la statua di Maddalena vista sopra.Tali simboli -che dovrebbero rivestire un intento simbolico preciso per i Compagnons de Devoir- sono purtroppo mischiati a segni non ben decifrabili e afinalistici lasciati molto probabilmente dai solit’ buontemponi’ nel corso del tempo.

Nonostante ci si renda conto che la leggenda ha il suo fascino,e che non ne vorremmo restare vittime,ci arrendiamo:trovarsi in questo ambiente è altamente suggestivo. Sopra di noi la basilica superiore, edificio imponente e vastissimo; la cripta è così intima, piuttosto ristretta, antichissima e ‘sacra’, perché fin da tempi remoti luogo scelto per sepolture, e poi non dimentichiamo che qui c’era la presenza dell’acqua e del battistero paleocristiano. Maddalena è come una goccia in un Culto primigenio.

La volta fu ricostruita, non è originale, ma risale al tempo della costruzione della chiesa superiore. All’interno della cripta si trovano 4 sarcofagi datati al IV secolo, di magnifica fattura e riccamente istoriati, destinati a personaggi illustri. A sinistra sono allineati quello di Saint Maximin, e quello di Santa Susanna e Marcella (sepolte insieme);a destra quello di San Sidonio. Di fronte, centralmente, c’è quello di Santa Maria Maddalena, che funge anche da altare, su cui è posto un reliquiario dorato contenente il suo teschio. Tutti i reperti sono protetti da vetri chiusi.

Nel reliquiario(opera di Revoil del XIX secolo) che racchiude il teschio, è inserito un cilindro di cristallo, chiuso da entrambi i lati da sigilli d’argento dorato, contenente il brandello di carne (o tessuto osseo) della fronte della Maddalena, quello che, secondo il Vangelo, Gesù avrebbe toccato il mattino della Resurrezione, pronunciando le parole ‘Noli me tangere’. Nel febbraio 1789 una ricognizione sui resti avrebbe fatto staccare queste reliquie, oggi visibili in questo cilindro. Sono state datate queste componenti organiche?A che epoca risalgono?Domande che per ora non hanno risposta;non abbiamo trovato nemmeno una menzione in loco. Speriamo di ricevere ulteriori nozioni in merito da chi ha potuto approfondire il mistero. Unico elemento utile è che i reperti ossei depongono per un’età della donna di circa 50 anni al momento della morte,e che era di origine mediterranea. Secondo il Vangelo di Filippo,apocrifo,Maddalena sarebbe morta a circa 60 anni d’età,nel 63 d.C. circa.

Il sarcofago attribuito a Maria Maddalena è stato datato al IV secolo e il marmo di cui è costituito è stato analizzato nel 1953 in un’indagine condotta dal prof.Astre,della Facoltà di Scienze di Tolosa ed è risultato un materiale rarissimo proveniente dalla cave imperiali di marmo del mar di Marmara,vicino a Costantinopoli.Non è quindi in alabastro, come si credette per secoli ma ugualmente di enorme pregio e finezza. Questo marmo veniva trasportato a Roma (o ad Arles per la Provenza) e lavorato per essere impiegato nella statuaria nobile o illustre. A chi dunque fu originariamente destinato questo manufatto?

All’interno della vetrata che protegge le sante reliquie di Maddalena,sulle pareti laterali si vedono quattro lastre lisce, che recano incise delle figure e delle scritte in latino. Si suppone che siano del V-VI secolo e sono state identificate come altrettante figure citate nell’ Antico Testamento:il sacrificio di Abramo, Daniele nella fossa dei leoni, la casta Susanna(o un’orante?) e, dal Nuovo Testamento, la Vergine Maria Bambina.

Interrogativi irrisolti

Ricorderemo infine, per completare il quadro,poichè a noi piace ‘capire’ quanto abbiamo di fronte, ciò che abbiamo già avuto modo di accennare nella sezione dedicata alla Sainte Baume. La basilica di Saint Maximin è meta di pellegrinaggio da secoli e lo è tuttora, per la presenza delle reliquie di Maria Maddalena o di Magdala. Un’altra abbazia, però, quella di Vezelay, in Borgogna, dichiara di averle in custodia.Da dove arrivavano? I fatti risalirebbero all’XI secolo (1049), quando l’abate Geoffrey de Roussillon, dichiarò di esserne entrato in possesso, convincendo il papa Leone IX a porre il monastero sotto la protezione della Santa Maddalena. Da allora, sarebbe iniziato un culto intensissimo verso l’abbazia borgognona, stuoli di fedeli e pellegrini vi si recavano per venerare le reliquie della Santa. Storicamente nulla è accertabile, anzi pare che gli studiosi concordino nell’affermare che fosse stata un’ iniziativa dell’abate per incrementare il prestigio delle propria abbazia. Comunque, in questa prospettiva, Vezelay sarebbe stata il punto di partenza del culto maddaleniano in Francia. E Saint Maximin, allora?

Il ritrovamento delle supposte reliquie da parte di Carlo II d’Angiò risale al 1279, oltre duecento anni dopo l’avvio del culto a Vezelay. O la storia leggendaria ha delle ‘falle’ non colmate, oppure i conti non tornano.

Ammettendo che anche a Saint Maximin si sia sviluppato un culto parallelo a Vezelay, dove si trovavano le reliquie della santa o quelle venerate come tali?
Si è detto: ‘nascoste’ fin dall’VIII secolo (per proteggerle dai saraceni) nel punto in cui si trovano ancor oggi (cripta) e però genericamente ‘dimenticate’. Com’è possibile?
Qualcuno doveva saperlo, forse proprio quei monaci benedettini che già erano insediati a Saint Maximin, molto prima che Carlo II d’Angiò scoprisse i presunti resti della donna di Magdala e desse avvio al suo culto incessante. Cosa sapevano i monaci al riguardo?
Chi aveva parlato a Carlo II delle presunte reliquie a Saint Maximin? E perché lui sapeva che si trovavano nel sarcofago di San Sidonio? Qualcuno lo aveva informato.
Perché il conte di Provenza angioino Carlo II (che era anche re di Gerusalemme e di Sicilia,duca di Puglia e principe di Capua come si legge nel suo stemma personale) volle allontanare a ogni costo i benedettini, mettendo al loro posto i domenicani? Anche con la forza, se necessario?
I monaci precedenti conoscevano bene il luogo e presumibilmente le sue vicende:avrebbero potuto ‘mandare all’aria’ i suoi piani di trasformazione della Provenza in una meta privilegiata per il pellegrinaggio a Maddalena? Perché?
Sapevano non essere quelli di Maddalena oppure non desideravano affatto che venisse reso noto un culto che avrebbe potuto scompaginare la tranquilla vita monastica che avevano scelto di fare?
Già, ma il culto di chi? Sembra che vi fosse un’iscrizione che citava roi Eudes,e si suppose fosse Eudes d’Aquitania ma egli regnò in Francia nel 710…Non poteva essere, la data era troppo tarda!(e qualche secolo dopo, quando la scienza cominciò a contestare l’appartenenza delle reliquie di Maria Maddalena, l’iscrizione scomparve).Di nuovo venne apposto il coperchio al sarcofago,vennero messi i sigilli.Il 6 maggio 1280 Carlo II d’Angiò fece riaprire di nuovo la tomba per prelevare le ossa di Maddalena e riporle in differenti reliquari e si ebbe una sorpresa:venne trovata un’altra iscrizione dentro il sepolcro, non molto leggibile che diceva:”Qui riposa il corpo di Maddalena (Ici repose le corps de Madeleine).
Da dove spuntava quella seconda iscrizione? Per colmo della peculiarità, un testimone(Bernard Gui) disse trovarsi all’interno di un globo rivestito da cera molto vecchia.
Gli studiosi hanno convenuto che questo monumento funebre apparteneva ad una ricca famiglia cristiana gallo-romana o merovingia.
Adesso non ci si dica che qualche lettore possa avere la classica ‘idea lampante’ in testa e che colleghi Merovingi con la saga del Graal inteso come Sang real,cioè la fantomatica stirpe originata da Gesù e Maddalena (tesi sostenuta da alcuni libri di straordinario successo ma priva di fondamento,almeno secondo la storiografia ufficiale).Fantomatica non tanto:i Merovingi sono certamente una dinastia reale che ha regnato in Francia.E’ fantomatico il fatto che sia potuta originare dai nostri due divini personaggi. Sento già che qualcuno sussurra che Maddalena potrebbe aver partorito in Provenza,e lei e la sua discendenza sepolta appunto a Saint Maximin,un segreto che se fosse autentico avrebbe certamente indotto a tanta venerazione, nonché alla massima segretezza. Se fosse, però. Ma manca qualsiasi certezza.

Carlo II d’Angiò aveva altre mete. Tutto si sarebbe svolto esattamente come era successo secoli prima a Vezelay: portare certi luoghi ad un elevato livello di importanza religiosa e civile con una mossa ‘politica’ degna di re o di persona potente che dir si voglia. Fossero o non fossero le reliquie di Maria di Magdala, l’operazione doveva svilupparsi come da progetto. L’affluenza dei pellegrini fu, come entrambe le città di erano prefisse, fin dal principio immane.

Secondo altre fonti, l’abate di Vezelay,nel 1049, sarebbe venuto a Saint Maximin per prendere le reliquie di Maddalena e trasferirne il culto là ma i suoi resti sarebbero stati messi, nel frattempo, nel sarcofago di un altro Santo, Sidoine (o Sidonio),che ancora oggi si trova nella cripta della basilica di Saint Maximin. Quando l’abate di Vezelay nel 1049 venne per prelevarle, volendone trasferire il culto in quella Abbazia, portò via quelle di San Sidonio e non quelle di Maddalena, che sarebbero ancora qui a Saint Maximin, indisturbate. Dunque in questo caso i sarcofagi comunque erano noti, si sapeva della loro esistenza, non potevano essere interrati! Quindi Carlo II d’Angiò che necessità aveva di farli scavare? Forse nel frattempo (dal 1049 al 1279 per capirci…) erano stati sotterrati nuovamente? Per timore che l’abate di Vezelay magari tornasse, resosi conto(ardua impresa!) dello ‘scambio’ e della presa per il naso, e reclamasse le reliquie ‘autentiche’? Prossimamente ci piacerebbe recarci anche all’abbazia di Vezelay, per renderci conto di come è vissuta la vicenda (e cosa si dice) in merito alle venerate reliquie di Santa Maria Maddalena. Un dato è certo e documentabile:in Provenza esiste un vero culto per Maria Maddalena;sulle guide turistiche si danno per scontate cose che in Italia stentano ad essere chiarite o sottolineate,come il fatto che Gesù avesse anche delle donne tra i suoi Discepoli alcune delle quali lo seguirono fino alla sua morte in croce. Tra di loro Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Maria Salomè. Che evangelizzarono esattamente come i loro compagni maschi, gli Apostoli. A ciò deve aggiungersi un’altra leggenda, che vorrebbe Maria Maddalena sbarcare non a Marsiglia ma a Saintes Marie de Ratis, cioè Saintes Maries de la Mer, ma questa è un’altra storia, che racconteremo a parte, perché dobbiamo spostarci in Camargue!

Ci pare che esista una gran commistione di interrogativi e poche certezze. Ma come diciamo spesso in casi come questi, in cui la ‘reliquia’ è uno degli aspetti fondamentali per una religione, il parametro con cui si può osare di trovare una giustificazione è l’atto di fede, spontaneo, incessante. Esso non vuole compromessi:è volontà di seguire un proprio bisogno di credenza, nè può venire troppo a lungo manipolato. Forse Vezelay o Saint Maximin hanno solo fatto riaffiorare un culto ancestrale che esisteva dalla notte dei tempi. Andava solo rivestito di una matrice cristiana cattolica. Forse, è solo un’ipotesi.

 

 

Cannes

Cannes sembra essere fatta di sfarzo: è nei sontuosi alberghi che si ergono sul lungo mare, negli eleganti suppellettili dei caffè all’aperto, è nelle vetrine di negozi lussureggianti, nella scintillante mondanità che popola i locali notturni. A Cannes, perfino le palme hanno un’aria aristocratica quando sventolano mosse dalla brezza.

C’è veramente poco di provenzale in questa città che conta 75.000 abitanti e si distende imponente sul Mediterraneo. Più che altro sembra di essere in via Montenapoleone a Milano, l’unica differenza è che se svolti l’angolo, invece di via Manzoni, c’è lo splendore del mare. Il mito di Cannes risale al 1834 quando Lord Brougham, colpito dalle bellezze del luogo, comincia a promuoverla come luogo di vacanza. Da quel momento, il piccolo villaggio di pescatori, di cui oggi non rimane più traccia, diventa una città e contemporaneamente un esclusivo luogo d’incontro per artisti, capitalisti, politici, aristocratici. A Cannes si ha l’impressione di essere capitati nel bel mezzo di un grandioso appuntamento mondano: è questo il fascino che da più di cento anni questa città continua a esercitare. Non c’è un periodo ideale per essere qui in riviera, la vita non si ferma mai, nemmeno in inverno. In ogni caso la città offre il meglio di sé in estate, quando il porto è pieno di yacht, tutti i locali sono aperti e le vie sono affollate da una moltitudine di visitatori. Indicata sia per un breve soggiorno, sia per una vacanza più lunga, Cannes gode di un clima particolarmente temperato, pertanto è meglio mettere in valigia indumenti leggeri. Calzoncini e t-shirt, però, non saranno sufficienti: per sentirvi a vostro agio in questo ambiente così esclusivo è necessario avere in valigia almeno qualche abito elegante da indossare nelle ricche serate cittadine. Non abbiate paura di dimenticare qualcosa, nei negozi di Cannes si può trovare di tutto, anzi forse l’unica cosa che vi sarà veramente utile è una valigia vuota dove mettere tutti gli acquisti, ovviamente se avete un budget sufficiente. In città c’è più da fare che da vedere. Si può passeggiare sul Boulevard della Croisette, un lungo viale che costeggia la baia sempre colmo di gente, caffè all’aperto e negozi d’artigianato; arrostirsi al sole su spiagge dotate dei migliori confort; oppure prendere il traghetto che porta all’isola di Sainte Margherite, dove spiagge meno frequentate e un bosco di eucalipti vi permetteranno di allontanarvi per qualche ora dalla frenesia che caratterizza Cannes. Ma l’attività che distingue questo luogo di vacanza è spendere soldi. Potete scegliere fra una sterminata gamma di prestigiose boutique dove acquistare i più esclusivi articoli di lusso, oppure tentare la fortuna nei numerosi casinò, come il casinò Croisette o Le Carlton Casinò entrambi sul boulevard principale. A Cannes è essenziale conservare un po’ di energie e risorse da spendere durante le sfavillanti serate che animano la città. Bar, club e discoteche come L’Atelier (Pointe Coisette) dotato di una affascinate terrazza, o Le Baoli (Port Pierre Canto) frequentato da VIP e modelle, o ancora L’Amiral (Hotel Martinez, 73 Boulevard de la Croisette) uno dei preferiti fra i protagonisti del Festival di Cannes, danno vita a serate esclusive. Per chi non si accontentasse dello splendido mare, dello shopping e della vita mondana, la città della Costa Azzurra è in grado di offrire attrattive artistico – culturali di sicuro interesse.

Potete visitare la fortezza dell’Ile Sainte Margherite nella quale secondo il racconto di Dumas sarebbe stato imprigionato Maschera di ferro, e che ora ospita il Museo Marittimo in cui sono raccolti i reperti rinvenuti nei fondali della baia di Cannes, oppure la Cappella e Museo Bellini (Parc Fiorentina, 67bis), una piccola chiesa in stile barocco costruita nel XIX secolo che ospita numerosi lavori del pittore Manuel Bellini, o ancora La Malmison (Croisette, 47), un edificio che risale al 1863 in cui sono raccolti numerosi dipinti d’arte contemporanea. Più moderno, ma ugualmente interessante è Le Palais de Festival, dove oltre al festival del cinema, si tengono diversi concerti musicali e eventi teatrali. Cannes è una città ricca di eventi, ma quello che l’ha resa famosa è il rinomato Festival del Cinema che si tiene ogni anno a maggio. Inaugurato nel 1946 ha continuato a esercitare il suo fascino nel tempo richiamando attori, registi da tutto il mondo. Oggi è forse la manifestazione più esclusiva per presentare la propria opera cinematografica

 

Eze

Inerpicandosi per i tornanti d’oro del suo nero percorso, per riprendere i termini di Stephen Liégard, l’inventore dell’espressione Costa Azzurra, che il visitatore arriva ad Èze, lasciando alla sua sinistra il Sentiero di Nietzsche. È durante l’ascensione che il filosofo compose uno dei capitoli di Così Parlò Zarathustra.IMG_5421

All’entrata del villaggio, la Postierla del XIV secolo, nonostante i segni del tempo e le offese saracene e francesi, sembra ancora attendere gli eventuali assalitori. Un cannone del XIV secolo protegge la prima porta ad arco pieno. Dei merli tradiscono la presenza di bertesche sul cammino di ronda, raggiungibile da una scala situata proprio dietro la seconda porta, coronata da un arco spezzato.IMG_5457

Per meglio scoprire Èze bisogna lasciarsi guidare dall’istinto, fidarsi degli aromi di un gelsomino per trovarsi in uno dei suoi vicoli inondati di sole, su frammenti del muro risalenti all’età del bronzo, di fronte ad oggetti in ferro battuto minuziosamente lavorati ai quali si aggrappa un’indisciplinata camelia o di fronte a pitture a trompe l’œil come le false persiane su di una facciata della Via Principale.

Tra tutte le case del villaggio, quella dei Riquier in Piazza Pianeta, si distingue per la porta ornata di bassorilievi. I Riquier, originari di Nizza, furono tra i primi signori di Èze, ed il villaggio fu il loro più antico feudo fuori Nizza. La loro dominazione durò da XIII al XIV secolo. Nel 1930, uno degli ultimi proprietari di Casa Riquier ha collocato la Fontana all’italiana, il cui rifornimento idrico restò per molto tempo a carico delle cisterne del villaggio. Bisognerà attendere fino al 1952 perché l’acqua arrivi alle case.

Èze accoglie altre notevoli dimore, e in particolare lo Château de la Chèvre d’Or (Castello della Capra d’Oro) e lo Château Èze, antica residenza del principe Guglielmo di Svezia dal 1923 al 1953.

I pianterreni, trasformati in boutique e in atelier di artisti, servivano un tempo da cantine per i vini, o da stalla per il bestiame. Bisogna immaginare questi vicoli percorsi dagli asini di ritorno dai campi terrazzati della vallata dell’Aighetta, o di San Lorenzo d’Èze, carichi di fichi, di carruba, di olive e di agrumi quali i mandarini di Èze.

Centenario dell’unione di Èze alla Francia

La cappella della Santa Croce, conosciuta anche con il nome di “Cappella dei Penitenti Bianchi”, datata 1306, sarebbe il più antico edificio del comune.IMG_5458

È là che si riunivano i membri dell’ordine laico della Confraternita dei “Penitenti Bianchi” di Eza, incaricati di portare l’assistenza del villaggio alla Provenza fino alla fine del XIV secolo. In questa cappella, tra il 15 e il 16 aprile del 1860, gli abitanti votarono all’unanimità il ritorno del loro villaggio alla Francia. All’interno raccoglie oggi un ricco mobilio, e in particolare un crocifisso attribuito a Ludovico Brea.

La facciata spoglia della Chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione, iniziata nel 1764 e consacrata nel 1772, contrasta con la magnificenza della navata e del coro, che si caratterizzano per gli ornamenti barocchi e le pitture trompe l’œil (pitture che ingannano l’occhio). All’interno, una croce egiziana ricorda che Èze (in latino Isia) affonda le sue radici nei misteri della dea Iside. Secondo la tradizione i Fenici vi avrebbero eretto un tempio in suo onore. Nel piccolo cimitero disposto sulle terrazze di fronte alla vallata dell’Aighetta, riposa dal 1974 l’attore e umorista Francis Blanche.

In vetta al villaggio, a 429 metri sul livello del mare, si può gustare uno dei panorami più eccezionali della riviera. Il profilo dei cactus e le vestigia del castello si stagliano nel cielo.IMG_5433 Queste ultime testimoniano lo zelo con il quale i soldati di Luigi XIV smantellarono questa fortezza quasi circolare disposta su vari livelli. Il Giardino Esotico, creato nel 1949 dall’ingegnere agronomo Jean Gastaud, raggruppa un centinaio di varietà di piante. Le sue agavi, aloe, euforbie e cactus (tra i quali l’Opuntia, con le sue spine traslucide che riflettono la luce mediterranea) s’incrociano e si riproducono in mezzo a queste aride rovine che sembrano illustrare a loro modo il motto del comune: Moriendo Renascor (Morendo Risorgo).

Storia

Come il resto del litorale delle Alpi Marittime, il territorio del comune d’Eza (Èze ed Esa) è occupato sin dai tempi antichi.

Il monumento più rimarchevole è quello del Monte Bastida (Mont-Bastide) che sovrasta Beaulieu-sur-Mer e la baia di San Giovanni, su uno sperone roccioso che costeggia la Cornice Grande (Grande Corniche).

La tradizione locale, fondata sulle elucubrazioni degli eruditi del XIX secolo ed inizio del XX, ne fece una fondazione fenicia, un palazzo miceneo od un oppidum ligure risalente alla prima Età del ferro.

Le ricerche recenti hanno permesso di mettere in luce un grosso borgo agricolo protetto da una solida cinta muraria, la cui organizzazione urbana è molto chiusa. Grandi abitazioni in pietra secca che sostengono un piano, s’organizzano attorno ad una grande via che attraversa il villaggio da una parte all’altra. Il piano terra (pianterreno) di ogni casa ricovera strutture od impianti di pressaggio, destinate alla produzione domestica del vino o dell’olio d’oliva.

Le tracce d’occupazione più antiche rimontano al I secolo a.C., ma il periodo più forte d’attività si situa tra l’epoca d’Augusto e quella dei Flavi.

Bruno Richerii, cavaliere, originario di Nizza, vicario di Hyères nel 1328, fu cosignore d’Eza. Come per i Badat, il gentilizio Richerii, antico casato consolare nizzardo, sarebbe stato nobilitato nel XIII secolo, grazie alla sua ricchezza e per il favore dei Genovesi che tale famiglia supportava[4]. Famiglio del re Roberto d’Angiò, Bruno era il figlio di Giovanni Richeri (Jean Riquier), cosignore d’Eza, e di Beatrice Badat.

Nel 1333, con suo fratello Marino, possedeva una parte della signoria d’Eza, mentre alcuni anni più tardi, la parte di Marino sembrava esser passata nelle mani di Bruno. Secondo A. Venturini, egli avrebbe avuto per successore suo figlio, Onorato, cosignore d’Eza.

Il 24 luglio 1316, re Roberto d’Angiò domandò al siniscalco di rimettere, se vi fosse stato posto, Bonifacio Richieri, detto Bruno, figlio del defunto Giovanni Richeri (Jean Riquier) d’Eza, ed i suoi fratelli, nel possesso dei castelli di Mentone e di “Pepino” e di far cessare il disturbo che era loro apportato da Balianus Ventus e “consortes sui”.

Il 27 maggio 1348, il fratello del sotto-vicario d’Aix nel 1325 e del vicario di Grasse dal 1340 al 1341, Giovanni, Luigi Rebuffelli fu nominato castellano d’Eza[8]. Onorato Richerii, vicario di Hyères nel 1376, succedette a Bruno e divenne cosignore d’Eza[9].

Dopo il periodo altomedievale di appartenenza di Eza alla Provenza, il paese passa alla Contea di Savoia nel 1388, e da quel momento storico seguirà il destino del Ducato di Savoia.

Epoca moderna[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1543, Eza subisce l’offensiva della flotta ottomana di Solimano il Magnifico, alleato di re Francesco I di Francia, e durante i secoli XVII nel XVIII, durante la sua appartenenza al Regno di Sardegna e Piemonte, il villaggio sarà occupato e devastato più volte dall’esercito francese.

Il comune di Eza ha seguito quindi, con tutta la contea di Nizza, fin dal 1388, le vicende storiche prima della Contea di Savoia e del Ducato di Savoia, e poi dopo il Congresso di Vienna, dal 1815 al 1860, le sorti del Regno di Sardegna e Piemonte, per essere poi annesso nel 1861 alla Francia.

 

La cucina Provenzale

La cucina francese è diventata famosa in tutto il mondo e, oggigiorno, i ristoranti francesi sono ormai presenti in quasi tutti i continenti. Tuttavia, la varietà e la creatività dei piatti tipici restano una prerogativa del paese in cui questi sono nati! In Francia, ci sono molte regioni che propongono diverse specialità e vari prodotti locali. In questo articolo, ci soffermeremo sulla cultura del cibo della Provenza nel Sud della Francia, zona che offre una gastronomia davvero particolare rispetto alle regioni del nord e del centro. In Provenza, le possibilità in cucina sono infinite, e questo grazie ad un clima mite e a una zona invidiabile che permette agli abitanti di gustarsi pesce fresco, carne, frutta e verdura tutto l’anno (e non dimentichiamo l’influenza degli altri paesi del Mediterraneo).IMG_5221

 

Marsiglia e la bouillabaisse

Tradizionale bouillabaisse con rouille a Marsiglia

Il piatto tipico più famoso dell’intera zona è forse la bouillabaisse di Marsiglia, la gustosa zuppa o stufato dalle molte varianti. Secondo la maggior parte delle ricette provenzali, la bouillabaisse deve contenere almeno tre tipi di pesce locale, come il pesce ragno, la gallinella di mare, il grongo europeo, lo scorfano rosso e un paio di pesci nobili, ad esempio il pesce San Pietro o la bottatrice.

A Marsiglia, la bouillabaisse viene servita in un modo molto particolare: brodo di pesce con un po’ di rouille (una salsa provenzale piccante e al gusto di pesce) versato su crostini o pane, e in un piatto a parte il pesce saltato in olio d’oliva con altra rouille. Il pesce è spesso accompagnato da vino bianco, ma la Provenza è invece famosa per i suoi tipici vini rosati. Per saperne di più sui vini della regione e sulla vendemmia annuale cliccare qui.

Piatti e prodotti provenzali

 

Calissons d’Aix in Provenza

Anche se Marsiglia e la bouillabaisse sembrano costituire l’esempio più famoso della cucina provenzale, in realtà quasi tutte le città della Provenza sono associate a un prodotto o a un piatto specifico. Ad esempio, Mentone viene associata ai limoni, e addirittura ogni anno organizza una sagra in onore di questo frutto. Nizza (tecnicamente parte della Costa Azzurra) ha dato il suo nome alla Salade Niçoise, che può essere tradotta grosso modo con “insalata di Nizza”.

Aix en Provence è nota per un prodotto più dolce: i Calissons d’Aix. I calissons sono dolcetti tipo biscotti a forma di petalo che consistono in un impasto compatto ricoperto di glassa. Il composto è preparato con mandorle tritate e canditi, il tutto ricoperto con una glassa bianca. In tal modo, si ottengono pasticcini molto dolci e gradevoli.

L’elemento comune a tutti questi piatti è l’utilizzo di diversi prodotti originari della Provenza. Infatti, ingredienti come l’aglio o le olive sono onnipresenti nella maggior parte dei piatti. L’aioli, ad esempio, è un’altra salsa provenzale che, come la maionese, è un’emulsione di uova aromatizzata con aglio e olio d’oliva. Per tradizione, è servita con verdure e pesce (di solito merluzzo) lessati e uova bollite, e viene gustata durante diverse feste estive.IMG_5242

Le olive sono l’ingrediente fondamentale della tipica tapenade, dove vengono sminuzzate finemente e mescolate a capperi, acciughe e olio d’oliva. La tapenade può essere usata sia come crema da spalmare sia come condimento ed è un must di ogni pasto provenzale.

Olive e olio d’oliva sono ingredienti essenziali dei piatti provenzali

In ogni giardino in Provenza troverete degli olivi, oltre alle erbe quali la lavanda, il basilico, il rosmarino e il timo. Inoltre, data la vicinanza al Mar Mediterraneo, nella maggior parte dei piatti tipici vengono impiegati tutti i tipi di pesce fresco. Infine, il clima mite permette a diversa frutta e verdura di maturare tutto l’anno e di avere in estate una grande abbondanza di prodotti freschi.

Un piatto che li utilizza molto è la ricca soupe au pistou, che consiste in diverse verdure estive, fagioli, pasta e, ovviamente, il pistou (la versione francese del pesto alla Genovese). Talvolta è servito con formaggio grattugiato, ma rimane comunque un ottimo piatto.

Cosa e dove mangiare in Provenza

La cucina del sole

Quando chiedevano a Cezanne, che in Provenza è nato, cresciuto e morto, quale fosse il suo piatto preferito, rispondeva “Le patate con un filo d’olio”. Un piatto semplice, proprio come la cucina provenzale, che ha saputo

valorizzare i prodotti semplici della terra e del mare: i pesci, la carne, le erbe aromatiche che nascono spontanee, le verdure e il vino, creando una cucina semplice ma unica, molto simile a quella italiana anche se con una propria identità forte. La gastronomia della Provenza è definita “cucina del sole”, perché come tutte le altre cucine mediterranee usa prodotti che trovano nel sole la fonte principale del proprio gusto. I protagonisti sono l’olio di oliva, l’aglio, rosmarino, timo, maggiorana, combinate sapientemente. Basta fare un giro per una qualsiasi delle cittadine, per accorgersi che i provenzali con la cucina ci sanno fare. Quasi come gli italiani!IMG_5071

Una cucina “quasi italiana” e “quasi spagnola”.

La Provenza è una regione molto estesa, che parte dal confine con l’Italia e arriva fino quasi in Spagna. La cucina quindi varia molto a seconda delle zone: ad est, al confine con l’Italia, è molto simile a quella della nostra Liguria, con la socca frittelle di farina di ceci o la pissaladière, pizza con olive, acciughe, cipolle. Superata la Costa Azzurra la cucina si fa più aromatica e corposa. Ecco i piatti principali della Provenza.

Pesce

La costa della Provenza è una miniera di pesce e frutti di mare: pesci di ogni tipo, acciughe, cozze, ostriche, ricci di mare e gamberi sono i protagonisti della tavola di mare. Le ostriche e le cozze sono così diffuse che esistono bar e ristoranti che offrono solamente Huitres, moules, e champagne. La summa della cucina provenzale di mare è la Bouillabaisse, una zuppa di pesce che secondo gli estimatori raggiunge la perfezione se cucinata nella zona di Arles. La bouillebaisse è una zuppa di pesce, sulla cui composizione ognuno ha una propria idea: tutti però sono daccordo sul fatto che ci vogliono rana pescatrice, triglia, anguilla, pomodoro e zafferano. Si serve prima il brodo di pesce e poi il pesce, che si accompagna con crostini e rouille, una maionese piccante al peperoncino. Anche la brandade è da provare: un purè di stoccafisso con olio d’oliva a crudo.

Carne

Se il pesce prevale sulla costa, verso l’interno è la carne che spadroneggia. L’agnello della zona del Luberon è considerato uno dei migliori al mondo. Gli stufati, i daubes, cotti anche per otto ore di fila e tirati maestosamente con il vino rosso locale sono una vera delizia. Se passate per la Camargue e non avete scrupoli animalistici, ricordate che lì c’è il gardiane de taureau, carne di toro stufata accompagnata da un delizioso riso aromatizzato alle noci. Dal toro si ricava anche salame, salsicce e molto altro.

Vino e liquori

Siamo in Francia, quindi l’unico problema per i vini è districarsi tra le centinaia di etichette di rossi e rosè. Provate il rosè della Cotes de Provence, in particolare quelli venduti nella zona di ad Aix-en- Provence. Lungo le strade, fermatevi in una delle numerose cave, cantine in cui allegri contadini vi faranno assaggiare le loro produzioni, ovviamente cercando di vendere qualche bottiglia. La Provenza è famosa per due liquori: il pastis e l’assenzio. Entrambi hanno la base nell’anice stellato, ma mentre il pastis è usato sopratutto per gli aperitivi, l’assenzio è un liquore che definire digestivo è riduttivo. Oltre all’anice stellato ha anche un’estratto dalla pianta di assenzio. Non è lo stesso assenzio di cui erano ghiotto Van Gogh e che si ritiene lo abbia mandato fuori di testa: ha la stessa radice ma è molto più leggero, se così si può dire. Bevetelo con moderazione, molta moderazione.

Dove mangiare in Provenza

I francesi, come gli italiani, si siedono a tavola tre volte al giorno: la loro colazione (petit dèjeuner) si fa tra le 7 e le 9. I francesi al mattino preferiscono caffè o tè, un croissant o pane burro e marmellata. Le dejeuner (il pranzo) si fa tra le 12 e le 14. Il pranzo francese è composto da almeno due portate: un antipasto, hors d’oeuvre e un piatto principale, entrée che di solito è accompagnato da un tagliere di formaggi a cui seguono frutta e dessert. Per le diner ( la cena), non c’è molta differenza rispetto al pranzo. Si cena tra le 19 e le 21, sempre con due piatti a cui seguono frutta e dessert. La Francia ha una grande varietà di luoghi dove mangiare. Le due grandi istituzioni della gastronomia sono i bistrot e le brasserie. Il bistrot richiama alla mente atmosfere di artisti e poeti; cucina semplice di grande tradizione popolare, una buona carta dei vini, servizio informale e simpatico, conto accettabile, sono gli elementi che hanno decretato il successo di questo posto tanto amato dai francesi. Altrettanto amate sono le brasserie; nate come luoghi di produzione e consumo della birra, le brasserie sono diventate il posto dove si cucinano i piatti tipici della tradizione francese. Se volete gustare la grande varietà dei vini francesi e provenzali, il luogo ideale sono i Bar à vin o i Bar à champagne. Qui potrete trovare le piccole e grandi etichette del vino francese, di solito accompagnate da assaggi di formaggi e salumi francesi.

 

Artigianato Provenzale

Cos’è che rende qualcosa tipicamente “francese”? Il fatto che provenga semplicemente dalla Francia non è sufficiente. Per la maggior parte delle persone, ciò ha a che vedere con un’idea impossibile da esprimere a parole, l’essenza di un certo non so che capace di suggerire la perfezione dell’arte di vivere. Molti pellegrini alla ricerca di questa particolare essenza si ritrovano alle porte di Parigi, e rimangono impressionati dall’arte e dal fascino della Ville Lumière. Ma quando gli stessi parigini pensano al caldo e ai semplici piaceri del vivere alla francese, pensano inevitabilmente alla Provenza.IMG_5064

Purtroppo si sa che ogni viaggio deve finire, prima o poi. Ma potete sempre portare via con voi un po’ di Provenza! Quei particolari oggetti o sapori che vi aiuteranno a rievocare il tiepido ricordo del sole, dell’aria, e la sensazione che i segreti della vita di un luogo siano stati in qualche modo svelati.

I Calisson

I Calisson sono dei dolcetti tipici della Provenza, composti da frutta candita e mandorle, e somigliano molto a dei biscotti di marzapane al gusto di melone. Della lunghezza di circa 5 centimetri, solitamente sono a forma di mandorla e vengono guarniti con un sottile strato di glassa reale. Le origini di questi dolcetti sono legate alla città di Aix-en-Provence, ed è qui che potrete trovare i migliori Calisson del mondo. Sebbene vadano tenuti a temperatura ambiente e si conservino molto bene, sono più buoni serviti freddi. Siete già in viaggio? Date un’occhiata a cos’altro potete fare ad Aix-en-Provence in meno di 48 ore.

 

L’olio d’oliva e le Herbes de Provence

Ogni chef sa che l’olio d’oliva è il re di tutti gli oli in fatto di salute, sapore e tecniche di cottura. Ma non accontentandosi di questo primato, gli artigiani in Provenza hanno cercato di raggiungere la perfezione nei loro oli. Questo ha portato alla nascita di “Herbes de Provence”, un olio d’oliva di ottima qualità, nel quale sono stati lasciati in infusione timo, lavanda ed altre erbe aromatiche. Tutti gli chef di fama mondiale vi si affidano quando devono cucinare pollo arrosto, agnello, patate, zuppa, stufato, carne alla griglia o formaggio di capra. Come lo preferiscono in Provenza? Come salsa in cui intingere un crostino di pane appena sfornato! Se volete saperne di più sui piatti tipici del Sud della Francia, cliccate qui.

Ma non compratene giusto una bottiglia da portare a casa! Una delle cose più belle del trovarsi in un posto nuovo è cucinare i piatti tipici con gli ingredienti locali. La maggior parte degli alberghi, purtroppo, non dà la possibilità agli ospiti di preparare da mangiare. Se vi fermerete qui per meno di un mese, prendete in considerazione l’idea di soggiornare in una delle nostre ville o appartamenti vacanza. Se invece resterete in Provenza per più tempo, date un’occhiata alle nostre ville e appartamenti ammobiliati.

Il sapone provenzaleIMG_5227

Saponette profumate del miglior sapone al mondo: il Savon de Marseille

Il sapone provenzale lavorato o a tripla lavorazione è noto per essere fra i migliori al mondo. Per produrlo, il sapone, una volta lavorato a freddo, viene frantumato, lasciato essiccare, ed infine pressato per tre volte con dei rulli, in modo da rimuovere ogni traccia di soda caustica. Questo processo rende la saponetta così ottenuta molto più dura di quelle normali, e molto meno dannosa per la pelle. È ottimo, infatti, per quelli che hanno una pelle delicata, e l’assenza di soda caustica permette alle essenze profumate di sprigionarsi. La schiuma che ne deriva, inoltre, è molto più abbondante e cremosa. Un altro sapone di origine francese molto famoso è quello di Marsiglia. Il Savon de Marseille viene prodotto attraverso una collaudata tecnica medievale, secondo la quale l’olio d’oliva viene riscaldato per dieci giorni prima di essere versato in degli stampi ed essere tagliato. Vari negozietti in Provenza vendono sia il Sapone di Marsiglia sia quello lavorato, quindi non dimenticatevi di comprare delle saponette alla vostra fragranza preferita!

 

 

I mazzi di lavanda essiccata

I mazzi di lavanda essiccata della Provenza profumano l’ambiente e leniscono i dolori

I campi di lavanda sono oggi sinonimo di Provenza, e alcune delle più belle fotografie della regione mostrano innumerevoli colline di piante violacee ondeggianti. Secondo la medicina olistica, l’odore della lavanda possiede anche delle proprietà curative, in quanto capace di calmare i dolori articolari, di purificare e di favorire il rinnovamento. Proprio per questo, la lavanda è presente in molti aspetti della vita in Provenza, dal tè ai sacchettini profumati, ma anche nei pot-pourri e perfino nel gelato. È ampiamente utilizzata anche come deodorante e profumatore per ambienti, e molti francesi la mettono nei cassetti e negli armadi per profumare i vestiti. Si ritiene sia di buon auspicio lasciare ad essiccare un mazzo di lavanda fuori o vicino alla porta di casa, quindi non potete tornare a casa senza!

Le specialità enologiche

Esistono tanti tipi di vino quanti sono i tipi di persone, e la qualità può variare anche da un acro all’altro. L’uva da vino può rivelarsi estremamente instabile, e la qualità dipende da molti fattori, dal terreno alla quantità di pioggia in un anno. Fortunatamente, il territorio ricco e il clima costante, fanno della Provenza uno dei più grandi produttori di vino del paese, totalizzando la bellezza del 40% di tutto il vino francese. Il vino rosso è il più comune in questa regione, ma i rosé della zona di Aix-en-Provence meritano assolutamente un assaggio.

Le cicale

Esatto, gli insetti. Ma non proprio, in realtà. Diversamente dagli Stati Uniti, dove spuntano ogni 10 o addirittura 17 anni, le cicale in Francia si ripresentano ogni anno. Note per il loro corpo largo e l’insistente canto, la loro costante presenza ha ispirato la gente del luogo, che ne ha fatto una forma d’arte popolare. In tutta la Provenza, infatti, potete trovare cicale decorative in plastica o vetro dipinti. Gli abitanti locali le appendono in giro per la casa e alcune di queste hanno una cavità all’interno per introdurvi fiori o lavanda essiccata. Non sapete bene dove comprarle? Provate nei negozietti nei pressi di Saint-Rémy-de-Provence.

I prodotti in maiolica

Poche cose sono più rappresentative della Provenza come degli oggetti in ceramica dai colori vivaci sparpagliati disordinatamente su tavoli ormai segnati dallo scorrere del tempo. La maiolica è fra le ceramiche più diffuse in Provenza, ed è caratterizzata da allegri disegni dipinti su uno sfondo interamente bianco. Ed il colore bianco è proprio il tratto distintivo di questi pezzi in ceramica, caratteristica che risale al XVII secolo, periodo in cui quest’arte stava cominciando a svilupparsi e i forni dovevano raggiungere una temperatura superiore ai 1000 gradi Celsius per ottenere il risultato desiderato. Faience blanche, dalla città di Faenza che per secoli è stata tra i maggiori produttori di maiolica, è il termine francese con cui si identifica la ceramica che è stata cotta bianca ma priva di decorazioni. Il prodotto in maiolica più famoso è un’ampia terrina, ma in ogni caso molti artigiani in Provenza vendono una vasta scelta di prodotti in questo materiale.

I profumi

La fabbrica di Fragonard, profumiere di livello mondiale

Se siete alla ricerca di un profumo, non potete che andare a Grasse. Grasse è nota a tutti per essere la capitale mondiale del profumo, con una fiorente industria nel settore nata verso la fine del XVIII secolo. I “nasi”, famosi in tutto il mondo, vengono formati a Grasse per distinguere più di 2.000 diverse fragranze, e la città produce più di due terzi dei profumi e degli aromi alimentari di Francia. Visitate la fabbrica di profumi del celebre Fragonard, oppure create la vostra fragranza personale in una delle botteghe di Galimard, a Grasse o ad Eze. Persino l’aria della città profuma da lontano di fiori, grazie alle numerose coltivazioni di gelsomino e caprifoglio, e ciò la rende una mèta ideale per i veri romantici.IMG_5298

Gli utensili in legno d’olivo

Dimenticate i mestoli in acciaio inox e le usurate terrine in plastica. Non solo gli utensili in legno d’olivo sono più belli ed ecologici, ma sono anche indistruttibili: un buon set di questi utensili può durarvi anche una vita. La venatura dell’olivo, inoltre, è molto stretta, e questo tiene alla larga i batteri, mentre il contrasto dato dai suoi cerchi di colore scuro lo rende uno dei legni più apprezzati al mondo. Fortunatamente, il legno d’olivo cresce in abbondanza in Provenza, quindi non dovreste avere problemi a reperire un bel set di utensili in questo materiale.

Le stoffe provenzali

Qual è la naturale reazione a dei tessuti talmente diffusi da mandarne in rovina degli altri? Quella di vietarne la produzione, naturalmente! Nel 1686 i colorati tessuti provenzali, creati su modello di quelli indiani, vennero banditi dalla produzione e dal commercio. I mercanti più furbi cercarono di eludere la legge spostandosi nel Contado Venassino vicino ad Avignone, che, in quanto territorio del papato all’epoca, non era soggetto alla stessa limitazione. (Avignone vi incuriosisce? Scoprite qualcosa in più su questa storica città!) Nacque così un prospero mercato nero, destinato a chiudere i battenti 30 anni più tardi, quando la legge si impose sulla città. Solo nel XIX secolo le antiche fabbriche riapparvero e cominciarono a produrre tessuti con stampati i rivoluzionari disegni che li avevano resi così popolari agli esordi. Se volete acquistarli, andate ad Aix-en-Provence, e capirete cos’è che ha reso i tessuti provenzali così popolari da diventare persino illegali.

 

Guida all’Alsazia e Friburgo nella Forestra Nera


colmar-turismobaratonet-1L’Alsazia

L’Alsazia (Alsace in francese, Elsass in dialetto alsaziano, variante del tedesco alemanno) è una regione francese composta da due dipartimenti: il Basso Reno (Bas-Rhin, Unterelsass) a nord e l’Alto Reno (Haut-Rhin, Oberelsass) a sud, vi è parlato oltre al francese l’alsaziano, un gruppo di dialetti alemanni molto francesizzati e non facilmente capiti da chi parla tedesco normale.

Geografia

La città principale e capitale naturale dell’Alsazia è Strasburgo (Strasbourg, Straßburg), che è anche il centro urbano più grande, nonché capoluogo del dipartimento del Basso Reno (o Bassa Alsazia o Nord-Alsazia). Seguono, per grandezza, Mulhouse (Mülhausen), e Colmar, quest’ultima capoluogo del dipartimento dell’Alto Reno (o Alta Alsazia o Sud-Alsazia, Sud-Alsace o Südelsass in tedesco).

Il territorio della regione confina con la Germania a nord (Renania-Palatinato) e a est (Baden-Württemberg), con la Svizzera a sud (cantoni Basilea Città, Basilea Campagna, Soletta e Giura) e con le regioni Franca Contea a sud-ovest e Lorena a ovest.

L’Alsazia è una regione che comprende anche il Territorio di Belfort.

Con la sua superficie di soli 8.280 km² è la più piccola delle regioni francesi.

La morfologia delle regione presenta:

• a est, la pianura dell’Alsazia, percorsa dal Fiume e caratterizzata da un’agricoltura cerealicola.

• a ovest, i Vosgi tagliato dalle valli degli affluenti del fiume Ill. In questa zona si erge il Grand Ballon che con i suoi 1.424 metri segna l’altitudine massima della regione. L’economia della zona si caratterizza per i pascoli d’altura.

• le colline meridionali, con i filari di vitigni alsaziani, uniscono le due zone.

Clima

Se il clima alsaziano non gode di una buona reputazione è principalmente a causa del rigore degli inverni. D’ altra parte la presenza delle vigne testimonia del calore e del soleggiamento del periodo estivo. Al riparo dei Vosgi, l’Alsazia ha una media di precipitazioni inferiore a quella delle regioni vicine. Colmar gode del resto di un microclima molto secco : è la seconda città più secca di Francia, con solo 550 mm di pioggia per anno ! Il clima alsaziano è semi-continentale con delle forti escursioni.

La primavera (dal 21 marzo al 21 giugno)

Benché a volte capricciosa, la primavera è generalmente dolce e luminosa con qualche acquazzone e la possibilità di ondate di freddo. Le cime più alte dei Vosgi ancora innevate contrastano con il verdeggiante colore dei prati. Nel mese di maggio, la fioritura invade le campagne e annuncia l’arrivo dell’estate.

Storia

A differenza delle regioni confinanti, l’Alsazia non ha mai conosciuto un periodo di unità e autonomia. Per molti secoli è stata suddivisa in piccole zone politiche, principalmente fu sottomessa al Sacro Romano Impero.

Abitata anticamente da popolazioni celtiche (Sequani, Rauraci), fu sotto il dominio romano dal 58 a.C. fino al V secolo, quando fu invasa dai Vandali, dagli Alani e infine dagli Alamanni. Fu conquistata dai franchi di Clodoveo alla fine del V secolo, cristianizzata dai monaci di s. Colombano ed entrò a far parte del regno di Austrasia nel VI secolo.

Sotto i Carolingi fu costituita in contea e col Trattato di Verdun (843) fu assegnata a Lotario; alla morte di Lotario II passò alla Germania e fu incorporata al ducato di Svevia. Fu quindi divisa nei due langraviati dell’Alta e della Bassa Alsazia, che restarono sotto gli Asburgo fino al 1648.

In realtà l’Alsazia, durante tutto il Medioevo, fu costituita da un mosaico di signorie, di fatto autonome, accanto alle quali le principali città, sottrattesi alle autorità feudali, costituirono una lega, la Decapoli alsaziana (1354), sotto la protezione dell’imperatore, ma di fatto indipendente. Poco dopo anche Strasburgo si emancipava dalla signoria vescovile.

Durante la guerra dei Trent’anni l’Alsazia, che era stato un fertile territorio per la diffusione della Riforma, subì l’influsso francese e le Paci di Westfalia (1648) cedettero alla Francia i langraviati dell’Alta e della Bassa Alsazia e la prefettura della Decapoli.

Luigi XIV rese definitiva l’unione di tutta l’Alsazia, compresa Strasburgo (1681), alla Francia, cui rimase fino al 1870, quando fu annessa assieme alla Lorena alla Germania (Trattato di Francoforte, 1871), in seguito alla guerra franco-prussiana. Nel 1919 fu restituita alla Francia con il Trattato di Versailles. Occupata dai Tedeschi nel 1940, fu liberata dagli Alleati nel 1944. Diverse forme del dialetto alsaziano, variante molto francesizzata del tedesco alemanno, sono tuttora parlate e diffuse in questa regione.

Colmar

Colmar è stata definita da qualcuno un libro di fiabe nordiche a cielo aperto.colmar_12

La capitale dell’Alto Reno conta circa 65.000 abitanti ed è situata in felice posizione tra il Reno e i monti Vosgi. Con i suoi edifici medievali e rinascimentali, affacciati sulle strade acciottolate, rappresenta la tipica città alsaziana. La città in realtà ha due anime, una francese e una tedesca. La storia ha deciso che Colmar dovesse essere francese ma l’anima tedesca non è meno presente, a partire dalla lingua alle scritte dei locali in carattere gotico, dai cognomi delle famiglie ai nomi dei vini, allo stile architettonico della maggior parte delle case e dei palazzi. Nonostante questo, le popolazioni germaniche di queste terre si sono sempre più sentite parte della nazione francese.

Colmar fu attivo centro dell’arte renana e di questo prestigioso passato rimangono ricche collezioni, sopratutto risalenti al XV e XVI secolo.

A livello urbanistico la città conserva la divisione in piccoli quartieri, ognuno dei quali in passato era legato (ed ospitava) una specifica corporazione. Lungo le caratteristiche vie del centro storico si trovano antiche case in legno e pietra dalle facciate riccamente decorate. Tra tutte forse la più rappresentativa è la Maison Pfister, all’incrocio tra rue des Marchands e rue Mercière. Tutto l’anno queste strade antiche invitano a infinite passeggiate, tra case medievali, facciate pastello, botteghe artigiane, giardini e cortili segreti.

Place de la Cathédrale, la piazza principale della città, è dominata dalla gotica chiesa di Saint Martin del XIII -XIV secolo. La facciata dell’edificio in pietra arenaria gialla è tripartita da contrafforti e fiancheggiata da un campanile con pinnacolo di rame in stile mongolo (1572). Il timpano del portale duecentesco presenta rilievi che raffigurano l’Adorazione dei Magi e il Giudizio Universale. Nel transetto destro si apre il portale di Saint Nicolas con sculture di Maistres Humbert risalenti al XIV secolo. L’interno a tre navate è celebre per il cupo deambulatorio (ovvero il corridoio) che circonda il coro esagonale. Nella cappella si trova un pregevole crocifisso in legno risalente al XIV secolo.

L’Église des Dominicains, situata nell’omonima piazza, è una chiesa gotica sconsacrata, dal fascino particolare e suggestivo dove vale la pena entrare. La chiesa è nota per le splendide vetrate trecentesche dalle quali entra la luce ad illuminare gli interni altissimi e bui. Belle le opere lignee del ‘700 e celebre il dipinto della Vergine al roseto, capolavoro di Martin Schongauer del 1473 dove la vergine, con splendidi capelli rossi e ricci, indossa una veste rossa dello stesso colore delle rose che le fanno da sfondo e il bambino che porta in braccio le cinge teneramente il collo.17

Il Musée d’Unterlinden, MUSE_D~1assolutamente da non perdere, ha sede in un monastero domenicano del XIII secolo; è famoso in tutto il mondo per la bellezza dell’Altare di Issenheim.musee_unterlinden-_2 Questo altare è un’opera grandiosa e complessa, dove si mescolano pittura, scultura e architettura. L’altare è lungo 6 metri e alto 3. Si tratta di un telaio di legno fatto da 4 ante dipinte fronte/retro e apribili/chiudibili, due sportelli fissi e una predella (una fascia dipinta che veniva collocata sotto il quadro e ne completava la rappresentazione). Le ante rappresentano scene differenti a seconda della loro posizione. La prima rappresentazione sulle ante (quando gli sportelli sono chiusi), da sinistra a destra, mostra San Sebastiano, la Crocefissione e Sant’Antonio (nella predella, la fascia lunga e stretta in basso è rappresentato il Compianto sul Cristo morto). La seconda rappresentazione, ottenuta aprendo i primi sportelli, presenta la Annunciazione, l’Allegoria della Natività e la Resurrezione. La terza rappresentazione che si ottiene aprendo le ante successive mostra al centro le statue lignee di Sant’Antonio Abate, Sant’Agostino e San Girolamo, mentre nella predella in basso mostra le sculture con il Cristo fra gli apostoli, eseguite da Niklaus Hagenauer di Strasburgo (fine XV secolo). Il polittico (ovvero il dipinto diviso in più parti contornato da cornici di legno) in esso custodito, con scene tratte dal Nuovo Testamento, è stato dipinto da Mathias Grunewald negli anni 1512-1516.

Tutto il complesso pittorico che oggi costituisce l’Altare di Issenheim era un tempo ospitato nel monastero ospedale a cui abbiamo accennato ed aveva funzione terapeutica e consolatoria insieme, accompagnando i malati nella speranza della guarigione e nella fede della salvezza.

Colmar è irresistibile durante tutto l’anno, ma a Natale sembra veramente di essere dentro una fiaba camminando in città. Le luminarie decorano tutte le case e i palazzi, ci sono 5 mercatini nelle piazze del centro, una pista di pattinaggio all’aperto, canti di natale provenienti da ogni angolo. Il centro storico è rigorosamente chiuso al traffico e oltre a degustare prodotti tipici, dolcetti e bevande fumanti potrete acquistare addobbi natalizi, prodotti dell’artigianato locale, originali ricordini da regalare agli amici o custodire come ricordo di una vacanza suggestiva.

Qualche notizia storica per meglio comprendere l’essenza di questa cittadina. Nel IX secolo Colmar si chiamava Columbaria, per via dei suoi allevamenti di piccioni. A partire dal XIII secolo la città vide affermarsi una ricca borghesia a scapito del potere ecclesiastico. In questo periodo la città prosperò grazie soprattutto al commercio del vino. Allo stesso tempo fiorirono le arti. Nel 1675 Colmar entrò a far parte del regno di Francia con il conseguente riaffermarsi del cattolicesimo nella zona. Quindi nel 1871, con la sconfitta di Napoleone III, l’Alsazia tornò alla Germania fino alla fine della Prima Guerra Mondiale. Rioccupata dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, tornò definitivamente alla Francia nel 1944.

Come accennavamo poco prima, a partire dal XIII secolo Colmar si arricchì molto grazie al commercio del vino. Tutt’oggi la città è un importante e famoso centro vinicolo, che ogni anno, in agosto ospita, la grande Foire des Vins, un vero festival dei vini alsaziani con espositori di prestigio e una grande affluenza di pubblico. Questo festival può definirsi davvero storico ed ha superato le 60 edizioni. Quasi 400 gli espositori, grande teatro all’aperto con 10.000 posti dove ogni anno si tengono concerti e performance, e poi ancora convegni, tavole rotonde e ovviamente degustazioni.

La storia del vino alsaziano è molto particolare. Il vino, sopratutto il bianco di queste zone, era apprezzato sin dall’anno 1000 d.C. Purtroppo le tante guerre che segnarono il secolare scontro tra francesi e tedeschi arrecarono distruzioni e devastazioni a queste terre e ai vitigni. Pensate che addirittura dopo la Guerra dei Trentanni fu necessario un completo reimpianto dei vigneti. Luigi XIV rilanciò e valorizzò questo patrimonio ma, con l’annessione alla Germania nel 1871, l’amministrazione tedesca decise di favorire la regione della Mosella, a scapito dell’Alsazia, spingendo in queste terre per la coltivazione di uve e vini a buon mercato. Fu anche per questo fatto che i viticoltori furono ben felici di tornare alla Francia nel 1918. Da quel momento infatti la regione tornò ai vertici mondiali per produzione e qualità dei vini. Tra gli altri si ricordiamo i Pinot bianchi, i Tokay Pinot Grigi, il Muscat e i Pinot Neri.

Ristoranti a Colmar

Capitale europea e alsaziana, Strasburgo è anche la settima città francese. Ad un tempo universitaria e turistica, è una città giovane che offre un perfetto equilibrio fra patrimonio storico e dinamismo economico. Così, gli amanti dei monumenti, della buona tavola e della cultura avranno tutti i motivi per innamorarsi di questa città. La ricchezza e la quantità dei luoghi da scoprire impone una selezione preliminare da parte del visitatore, secondo i suoi gusti e i suoi interessi prioritari.

Ad ogni quartiere la propria identitàstras notre

La città di Strasburgo, come molte grandi città, possiede dei quartieri con identità distinte, intimamente legate alla loro storia e ai loro abitanti. La città si limitava al vecchio centro fino al XIX secolo. Questo spiega la sorprendente ricchezza di questo settore, che è incontestabilmente il più bello esteticamente e il più pittoresco della città. Circondato dalle acque dell’Ill, in esso si concentrano i principali luoghi e monumenti che hanno reso famosa Strasburgo : la Cattedrale, la Maison Kammerzell o la Petite France. A est del centro storico si trova il quartiere tedesco, formato da larghi viali fiancheggiati da maestosi edifici « haussmanniens ». Si può, in particolare, ammirare place de la République e i suoi imponenti monumenti, il palazzo universitario o la Posta Centrale. Uno dei settori più animati di Strasburgo è senza dubbio il quartiere della Krutenau, popolare e studentesco. Numerosi bar, ristoranti e negozi di quartiere animano questo quartiere accogliente, che conserva l’aspetto di un piccolo villaggio. Infine, ci sono i quartieri residenziali (in particolare l’Orangerie e la Robertsau) che offrono delle passeggiate molto piacevoli. Qui si possono scoprire le istituzioni europee e splendide case padronali.

La Maison Kammerzell222px-Kammerzell-Haus-Strassbourg

La Maison Kammerzell, un vero gioiello cittadino, ha assistito ai momenti di maggiore sfarzo di varie generazioni di mercanti e commercianti.

Edificata verso la fine del XVI secolo da un ricco commerciante di tessuti, questa dimora ospita attualmente un ristorante dove si possono assaggiare le migliori specialità francesi, dal choucroutes al foie gras, al tarte flambée dessert.

Il piano terra ricorda ancora l’attività commerciale dei suoi proprietari (archi e portici dovevano proteggere e riparare venditori e clienti), mentre la parte superiore, quella destinata ad abitazione, presenta la classica decorazione a graticcio tipica delle case alsaziane, anche se nella Maison Kammerzell, il legno delle travi è impreziosito da ricche decorazioni e intagli che raffigurano i segni zodiacali, personaggi biblici, eroi dell’antichità e medievali.

Petite France, grazie ai suoi meravigliosi canali, è il quartiere più caratteristico del centro storico di Strasburgo, dove in passato abitavano e lavoravano pescatori, mugnai e conciatori.6_of_10_-_La_Petite_France,_Strasbourg_-_FRANCE

Le bellissime case in legno a vista risalgono al XVI e XVII secolo. I tetti spioventi proteggono i granai dove un tempo venivano fatte seccare le pelli. A un estremo di questo quartiere si trovano i Ponts Couverts considerato uno dei punti più pittoreschi di Strasburgo.The-Alsace-La-Petite-France-Strasbourg-Alsace-France-646x970

Essi hanno conservato il loro nome nonostante abbiano perso le coperture nel XVIII secolo. Sono dominati da quattro torri del XIV secolo, vestigia di antichi bastioni che vegliavano sull’indipendenza della repubblica strasburghese.

Subito dopo l’annessione di Strasburgo alla Francia nel 1681, una nuova cinta muraria venne edificata dall’ingegnere Vauban. Dai Ponts Couverts ci si può inoltrare nelle stradine del Finkwiller, antico quartiere di conciatori e pescatori della riva destra, oppure nelle deliziosa rue du Bain-aux-Plantes e rue des Dentelles, tra le case in legno animate di logge, frontoni e alti camini.barrage-vauban-strasbourg-1357767426

A qualche metro di distanza dai Ponts Couverts, intorno al 1690 fu costruita, ad opera di Tarde, la Diga Vauban, detta Grande Ecluse (“grande chiusa”) perché, in caso di necessità, permetteva di inondare tutta la parte sud di Strasburgo.

In cima all’edificio è stato allestito un gradevole belvedere, da dove si possono ammirare la città e i canali. La Diga Vauban è aperta tutti i giorni (eccetto il 14 e 15/07) dalle 9.00 alle 19.30. Ricordiamo che l’ingresso è libero.

La cattedrale di Notre-Dame è stata edificata sull’area dove un tempo si ergeva una cripta di età romanica. La prima pietra è stata posta nel 1015 dal Vescovo Wernher de Hobourg.

Il capolavoro fu completato nel XV secolo con la svettante guglia di coronamento della torre sinistra della facciata considerata da Victor Hugo un “Prodigio di grandezza e leggiadria”.

La struttura presenta elementi romanici influenzati dall’arte gotica, basta osservare la navata centrale con le sue volte ogivali, i pilastri sottili a fasci e le vetrate policrome.

Sulla facciata si aprono tre portali ornati di sculture sontuose. Quello di destra rappresenta la parabola delle Vergini Sagge e delle Vergini Stolte, quello di sinistra rappresenta le Virtù che trionfano sui vivi. Il portale centrale è affiancato da dieci statue di profeti.

A sud, ci sono le due statue femminili che abbelliscono le due porte romane del portale dell’Orologio che rappresentano rispettivamente la chiesa e la Sinagoga. Il portale collocato sul lato sinistro risale al XV secolo e raffigura il martirio di San Lorenzo. Esternamente le centinaia di sculture che sembrano staccarsi dalla parete ne accentuano i chiaroscuri. Il tono dell’arenaria rosa cambia secondo le ore del giorno e il colore del cielo.

Le sere d’estate, la luce crea una scenografia incantevole. Internamente invece la navata slanciata ispira al raccoglimento. Le vetrate del XII-XIV secolo, formate da 4600 pannelli e da 500.000 elementi, raffigurano la storia secolare dell’edificio e della città: dal Nuovo Testamento, nel lato sud, ai re e imperatori, nel lato nord inferiore, alla Vergine Protettrice della città nell’abside, creando dei suggestivi giochi di luce.

Ristoranti a Strasburgo

La Linea Maginot è un complesso integrato di fortificazioni, opere militari, ostacoli anti-carro, postazioni di mitragliatrici, sistemi di inondazione difensivi, caserme e depositi di munizioni realizzati dal 1928 al 1940 dal Governo francese a protezione dei confini che la Francia aveva in comune con il Belgio, il Lussemburgo, la Germania, la Svizzera e l’Italia. Il sistema è caratterizzato dalla non contiguità delle varie componenti e dall’estesa utilizzazione del tiro fiancheggiante in maniera integrata con il tiro diretto. Benché il termine “Linea Maginot” si riferisca all’intero sistema di fortificazioni, esso viene spesso usato solo al riguardo delle difese sul confine franco-tedesco. Le difese sul confine franco-italiano sono anche note con il termine “Linea Maginot Alpina” (in francese Ligne Alpine).linea maginot

Il suo sviluppo e la sua costruzione furono strettamente legati alle esperienze della prima guerra mondiale; martellanti bombardamenti di artiglierie pesanti, l’uso di prodotti chimici (gas asfissianti, vescicanti, ecc), fronti statici articolati su imponenti sistemi trincerati e l’uso di fortificazioni permanenti e campali il più possibilmente protette, fecero credere all’esercito francese, come a tutti gli altri eserciti europei, la necessità di proteggere i propri confini con una o più imponenti linee fortificate, teoricamente inespugnabili da attacchi diretti.

La sua costruzione

Dopo la Grande Guerra, tra lo stato maggiore dell’esercito francese, vi era una forte contrapposizione tra chi propugnava una difesa con un forte esercito mobile, in grado di muoversi rapidamente attraverso il territorio, e chi invece proponeva una difesa statica, formata da una impenetrabile serie di fortificazioni permanenti ancorate al terreno, da predisporre già in tempo di pace.

La linea difensiva francese: la Linea Maginot

Sostenitore per la costruzione della linea fu fin dal 1922 il Maresciallo di Francia Philippe Pétain, che con l’appoggio di altri due ex combattenti a Verdun, il ministro André Maginot (che poi diede il nome alla linea) e il Capo di Stato Maggiore francese Marie-Eugène Debeney, convinse il governo ad iniziare la costruzione di una imponente linea difensiva permanente.

Anche se alla fine prevalse una soluzione intermedia, dove la protezione del fronte nord, al confine con il Belgio, fu affidato a truppe mobili, mentre il confine nord-est con Lussemburgo, Germania e il confine alpino con l’Italia, fu affidato in gran parte ad opere permanenti, la Linea iniziò ad essere costruita, e rappresentò per molti anni un problema per i tedeschi, che nel 1940 “aggirarono” letteralmente con l’impiego dei panzer.

La Linea Maginot fu quindi una difesa costruita non interamente lungo i confini nazionali, ma difendeva solo alcune parti di territorio francese per diverse ragioni:

Ragione geografica: le regioni di Alsazia e Lorena, acquisite dopo la prima guerra mondiale, erano prive di un sistema difensivo adeguato, in quanto le difese tedesche nella zona erano obsolete e non adatte ai nuovi standard, oltre che non disposte verso il nemico. Inoltre la regione essendo priva di ostacoli naturali e avendo grandi vie di comunicazione era facilmente utilizzabile e attraversabile dal nemico; quindi venne ampiamente fortificata con opere permanenti, al contrario dei confini con le Ardenne (ritenute insuperabili da un moderno esercito) e con il Reno.

Ragione economica: le zone industriali e minerarie del paese erano prossime al confine con la Germania, e un attacco di quest’ultima avrebbe potuto privare la Francia delle zone più importanti per l’economia e gli approvvigionamenti dello stesso esercito.

Ragione demografica: le enormi perdite in vite umane causate dal primo conflitto mondiale aveva causato in Francia un decremento delle nascite, non tanto per il milione e trecentomila tra morti, feriti e mutilati, ma perché quei morti erano per lo più giovani che non contribuirono alla naturale crescita demografica, privando la nazione di una nuova leva arruolabile. Per questo la linea fortificata avrebbe permesso di risparmiare sul numero di soldati da impiegare e li avrebbe sottratti agli effetti dei bombardamenti proteggendoli in casematte praticamente indistruttibili.

Ragione militare: il sistema di mobilitazione dell’esercito francese richiedeva all’incirca tre settimane per poter disporre di un esercito in piena efficienza sulle frontiere, lasciandole quindi indifese soprattutto in caso di un attacco portato senza una dichiarazione di guerra. Quindi il predisporre linee fortificate presidiate da reparti appositi, avrebbe consentito di impegnare un eventuale attacco tedesco il tempo necessario per mobilitare l’esercito francese.

Ragione politica: il Trattato di Versailles non era ritenuto sufficiente per garantire la sicurezza alla Francia da un attacco tedesco, ritenuto possibile anche se non a breve termine. In più la Germania non aveva conosciuto le devastazioni materiali che avevano interessato la Francia, in cui si volevano evitare nuove distruzioni, e allo stesso tempo contrastare efficacemente un nemico ancora in perfette condizioni industriali, morali ed economiche anche se in subbuglio politico.

Inizia la costruzione

Interno del Forte di Schoenenbourg, una delle più grandi opere di fortificazione

Gli strateghi francesi concepirono una fortificazione adatta ad una guerra simile a quella appena terminata, ovvero nient’altro che un’evoluzione dei forti di Verdun che ben avevano resistito agli attacchi dell’artiglieria tedesca.

Dato che non era possibile creare una linea fortificata continua, e non avrebbe potuto esserlo, vennero fortificati i settori più vulnerabili e importanti al confine con opere permanenti complesse e fortemente protette, mentre dove il territorio di per sé stesso rappresentava già un grosso ostacolo, vennero costruite casematte isolate che battevano il territorio o vennero predisposti territori da inondare in caso di necessità.

Nel progetto iniziale, quindi, la Linea Maginot era formata essenzialmente da due grandi regioni fortificate al nord-est, la Regione Fortificata di Metz e la Regione Fortificata di Lauter e da tre grandi settori fortificati sulle Alpi, il Settore Fortificato del Delfinato, quello della Savoia e quello delle Alpi Marittime. Solo successivamente vennero realizzate alcune opere a nord nei confini col Belgio, perché le due nazioni avevano firmato un’alleanza nel 1920, secondo il quale l’esercito francese avrebbe operato in Belgio se le forze tedesche lo avessero invaso. Ma quando il Belgio abrogò il trattato nel 1936 e dichiarò la neutralità, la Linea Maginot venne rapidamente estesa lungo il confine franco-belga, ma non con agli standard del resto della Linea.

Tutta la fascia di frontiera era suddivisa in Settori Difensivi (dove non erano previste opere permanenti) e Settori Fortificati (dove invece il fronte era dotato di opere C.O.R.F.), a loro volta questi ultimi erano formati da Sottosettori, Quartieri e ‘Sottoquartieri, comprendenti al loro interno un numero variabile di Opere di fortificazione.

Il problema dei finanziamenti iniziali, venne affrontato dal Ministro della Guerra André Maginot, che riuscì a convincere il parlamento ad investire in questo progetto garantendo i primi stanziamenti necessari all’avvio dei lavori, anche se non fece in tempo a vedere l’opera completa in quanto morì il 6 gennaio 1932.

Il ministro francese della guerra, André Maginot, uno dei principali artefici della costruzione della linea

La Linea venne costruita in diverse fasi a partire dal 13 gennaio 1928 dalla S.T.G. (Section Technique du Génie, Sezione Tecnica del Genio) supervisionata dalla C.O.R.F., i lavori accelerarono però nel 1930, quando Maginot ottenne un cospicuo finanziamento dal governo.

La costruzione principale venne completata entro il 1935 ad un costo di circa tre miliardi di franchi. Le specifiche per le difese erano molto alte, con bunker numerosi e interconnessi per migliaia di uomini, c’erano 108 opere di fortificazione a 15 chilometri di distanza l’uno dall’altro, inframmezzati da opere fortificate minori e casematte. In tutto l’opera è costata 5 miliardi di franchi e nelle innumerevoli fortificazioni potevano alloggiare fino a 2 milioni di soldati.

Ci fu uno sforzo finale nella fase realizzativa, nel biennio 1939-40, con miglioramenti generali lungo tutta la Linea. La Linea finale era più robusta attorno alle regioni industriali di Metz, Lauter e dell’Alsazia, mentre altre aree erano in confronto solo debolmente difese.

L’opera nel concetto

Il concetto base della Linea Maginot era un’ossatura costituita da possenti opere di fortificazione, (in francese grandes ouvrages), distanziati tra loro di circa 5 km completamente collegati sottoterra, con alcune postazioni “emergenti”, armati prevalentemente di mitragliatrici e artiglierie di piccolo calibro, che si proteggevano l’un l’altro e che controllavano i tratti di frontiera e le relative vie di accesso.

Tra questi erano posizionati fortificazioni minori (in francese petites ouvrages), casematte e bunker di varia potenza di fuoco e dimensioni che rendevano continuo il fronte, controllandolo con mitragliatrici e pezzi anticarro.

Molto importante era anche l’ostacolo passivo antistante tutta la Linea, un ostacolo costituito da un profondo reticolato di filo spinato e sei file di putrelle infisse nel terreno che doveva fermare la fanteria e i carri nemici. In posizione arretrata poi c’erano due linee di resistenza che consentiva alle truppe di ripararsi dai bombardamenti.

Altrettanto fondamentale fu la costruzione di una importante rete stradale e ferroviaria che consentiva un adeguato approvvigionamento di materiali a tutta la Linea, e garantiva una adeguata mobilità lungo tutta la stessa collegando una lunga serie di caserme di sicurezza dove erano sistemati i reparti di uomini a presidio della Linea che così avrebbero potuto raggiungere le varie postazioni in breve tempo.

La Linea Maginot era poi completata da batterie allo scoperto, postazioni di artiglieria su affusto ferroviario, una complessa rete di distribuzione elettrica formata da cavi interrati e interconnessioni tra le diverse opere, una rete telefonica militare e infine una serie di avamposti destinati a rallentare le truppe avversarie prima di raggiungere la Linea principale, e le postazioni più avanzate in assoluto, cioè i dispositivi di confine costituiti da barriere mobili, sbarramenti rapidi, case fortificate ubicati a pochi metri dalla frontiera e necessari a resistere durante i primi momenti dell’attacco e per dare l’allarme in caso di attacco a sorpresa alla linea principale.

Un reticolato anticarro antistante la Linea Maginot

Suddivisione e struttura delle opere

La classificazione principale delle strutture della Linea Maginot riguarda le dimensioni delle opere di fortificazione, suddivise in opere minori e maggiori (in frances petites e grandes ouvrages) dove le prime erano armate esclusivamente con mitragliatrici, mortai da 50mm (in torretta o casamatta) ed eventualmente pezzi anticarro. Queste opere potevano essere sostituite, a seconda dei casi, da un’unica grande casamatta oppure da diversi blocchi (da 2 a 5) collegati da una serie di gallerie sotterranee; le seconde invece potevano collegare fino a 19 blocchi grazie a grandi sviluppi di gallerie sotterranee.

Alcune tra le opere maggiori di fortificazione raggiunsero notevoli dimensioni, ad esempio il forte Hochwald (Grand Ouvrage Hochwald), composto da 14 blocchi da combattimento più 9 casematte del fossato, collegate da 8 chilometri di gallerie, in grado di ospitare 1070 uomini e 21 pezzi, oppure il Grand Ouvrage Hackenberg con 19 blocchi, 8 chilometri di gallerie, 1082 uomini a presidio e 18 pezzi di artiglieria[1].

Generalmente le grandi opere di fortificazione erano formate da due ingressi principali, uno per materiali e munizioni e l’altro per gli uomini; da queste entrate si accedeva quindi a un complesso sistema di gallerie protette dalla roccia, dal quale si poteva accedere a caserme, ricoveri per la truppa, depositi di munizioni e viveri, camere per i gruppi elettrogeni e per i sistemi di ventilazione e comunicazione, oltre che alle numerose postazioni di difesa, il vero fulcro della Linea Maginot.

Dalle gallerie principali, binari a scartamento ridotto conducono a diversi pozzi verticali con ascensori e scale che portavano alle varie casematte di artiglieria o fanteria, torrette di artiglieria e fanteria oppure blocchi misti che comprendevano più tipologie e torrette di osservazione.

Analogamente, le opere minori di fortificazione avevano la stessa struttura di quelle maggiori, ma con dimensioni più modeste, una sola entrata, o, in alcuni casi, potevano essere costituite da un solo blocco di combattimento dove si potevano trovare le postazioni, le camerate e tutti i locali necessari.

Infine per rendere la Linea il più continua possibile, furono costruiti tra le varie opere, una serie di piccole casematte e osservatori per dirigere il tiro.

Diverso territorio, diversa concezione

Al confine con la Germania, il terreno prevalentemente pianeggiante che caratterizzava il confine, fece decidere agli ingegneri francesi la necessità di approntare la Linea sotterrandola il più possibile nel terreno e creando un complesso sistema di gallerie e ricoveri sotterranei per difendere la struttura da eventuali bombardamenti, e nel contempo, per allontanare il più possibile dalla zona di frontiera gli ingressi.

Mentre al confine con l’Italia, il terreno montuoso e quindi la difficoltà dell’avversario di mettere in posizione artiglierie pesanti in prossimità della frontiera, fece propendere gli ingegneri nel decidere di costruire opere di piccole dimensioni con minore sviluppo di gallerie, senza però diminuire la funzionalità e l’efficacia.

L’armamento e la sua protezione

Schema del complesso sistema di funzionamento di una torretta a scomparsa del tipo impiegato sulla Linea Maginot.

Esistono due tipi di protezione per le armi: le casematte e le torrette corazzate.

Le casematte sono dei blocchi in cemento armato spessi fino a 3,5 m in cui vengono installati i pezzi d’artiglieria e le armi di fanteria.

Le torrette corazzate possono essere divise in due categorie:

Le torrette fisse, chiamate “campane” (in francese cloches) servono per l’osservazione e possono essere equipaggiate con diversi tipi di periscopio o, a seconda del tipo, armate con armi di fanteria come fucili mitragliatori e mitragliatrici binate.

L’invasione tedesca durante la seconda guerra mondiale

Il piano di invasione tedesco del 1940 (nome ufficiale Sichelschnitt, ma spesso indicato anche come Fall Gelb) venne studiato tenendo in grande considerazione la Linea Maginot. Una forza civetta si appostò davanti alla Linea, mentre la vera forza d’attacco tagliò attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, attraverso la Foresta delle Ardenne che giaceva a nord delle difese principali dei francesi. In questo modo i tedeschi furono in grado di aggirare la Linea Maginot.

Attaccando dal 10 maggio, le truppe tedesche varcarono i confini della Francia nel giro di cinque giorni e continuarono la loro avanzata fino al 24 maggio, quando si fermarono vicino a Dunkerque. Per i primi di giugno i tedeschi avevano tagliato la Linea dal resto della Francia e il governo francese iniziò a trattare l’armistizio. Quando le forze alleate invasero, nel giugno 1944, la Linea venne ancora una volta ampiamente aggirata, con i combattimenti che toccarono solo una parte delle fortificazioni vicino a Metz e nel nord dell’Alsazia, verso la fine del 1944.

Mentre da nord i reparti corazzati tedeschi avanzavano implacabilmente, il 10 giugno il governo italiano dichiarò guerra ad una Francia quasi in ginocchio e, dopo quasi dieci giorni di stasi nelle operazioni, il 20 gli italiani attaccarono le postazioni francesi senza grandi risultati. Dopo giorni di combattimenti l’esigua avanzata italiana fu aiutata dalla firma dell’Armistizio di Villa Incisa che permise all’Italia di entrare in territorio francese senza incontrare resistenza, concludendo così la Battaglia delle Alpi.

Il dopoguerra

Dopo la guerra la Linea rientrò a far parte delle infrastrutture demaniali militari dello Stato francese, anche se fin dall’inizio ne fu decisa la dismissione, a causa degli enormi cambiamenti che avevano subito le dottrine, le tecnologie e le tattiche di combattimento durante la Seconda Guerra Mondiale, che, di fatto, l’avevano resa assolutamente inutile.

Con la nascita della deterrenza nucleare indipendente della Francia nel 1969, la struttura fu abbandonata e intere sezioni furono vendute all’asta a privati.

Ad oggi gran parte delle strutture sono visitabili, alcune dopo un attento restauro possono essere visitate con all’interno ancora tutti i confort dell’epoca, altre invece sono in parte o del tutto abbandonate ma comunque visitabili con cautela.

La linea come stereotipo

Il termine “Linea Maginot” è stato usato come metafora per qualcosa cui si fa affidamento pur essendo inefficace. In realtà la Linea fece ciò per cui era prevista, sigillando una parte di Francia e costringendo l’aggressore a girargli attorno. Nella visione originaria, la Linea Maginot era parte di un più ampio piano di difesa, nel quale gli attaccanti avrebbero incontrato la resistenza dell’esercito francese, ma i francesi non implementarono l’ultima parte, portando alla perdita di efficacia della Linea.

Forte di Simserhof

É una fortezza di grandi proporzioni composta da tre edifici all’interno dei quali è possibile trovare: torri, percorsi sotterranei, magazzini d’artiglieria e “baracche”. E’ stato costruito tra il 1929 e 1933 ma non è stato utilizzato sino al 1938. Composto da 8 blocchi di combattimento, 2 blocchi d’entrata, 18 pezzi d’artiglieria e 6 cannoni anticarri. Poteva ospitare 800 soldati. Una settimana prima della dichiarazione di guerra il forte era già operativo. Durante la guerra la sua attività si limitava a degli sporadici duelli d’artiglieria contro i cannoni tedeschi situati dall’altra parte della frontiera. Dopo l’armistizio il forte fu occupato dai tedeschi che lo trasformarono in un deposito di munizioni. Dopo la guerra le armate francesi restaurarono il forte e lo rimisero in stato d’attacco. Restò funzionale fino agli inizi degli anni 70. All’interno è presente un museo di artiglieria leggera. La visita aperta al pubblico copre solo 400 metri di galleria contro i 5 km che conta il forte. Per quanto riguarda la parte interna sono presenti numerosi elementi difensivi come per esempio il cancello in ferro ed una trincea coperta da un ponte levatoio, in grado di ruotare verso un altro “appoggio”, al fine di impedire ai veicoli di accedere al forte stesso. Oltre ad una galleria d’entrata è presente una galleria principale che si dirama in numerosi altri tunnel; questa parte del forte conteneva l’infermeria, le cucine e le dispense.

La route des vinscarte-simplifie-GB

Itinerario alla scoperta di una delle regioni vinicole più antiche di Francia. Dove il sole riscalda vigneti che regalano uve sublimi, per etichette eleganti. Un percorso tra Grand Cru e Vendage Tardive da assaporare ospiti delle storiche Maison d’Alsazia, attraverso una strada lunga 170 chilometri

Terra di grande fascino e di storia, l’Alsazia è una delle regioni vinicole più antiche di Francia. Dalle vigne che scendono dai monti Vosgi e arrivano fin quasi alle rive del Reno, si ottengono ogni anno oltre 160 milioni di bottiglie di vino, il 25% del quale è destinato all’esportazione. La fa da padrone il bianco, che ammonta al 20% del totale prodotto in tutta la Francia.

I vitigni coltivati sono sette: il Riesling, forse il più conosciuto, il Pinot gris, una volta noto come Tokay, il Gewürztraminer e lo splendido e meno diffuso Muscat d’Alsace sono i più significativi. A questi vanno aggiunti: il Pinot blanc, delicato e fresco, il Sylvaner, leggero e molto profumato e il Pinot noir, l’unico rosso d’Alsazia, che in questa regione, come nella Loira, si serve freddo.

UN TERRITORIO STORICAMENTE VOCATO – I vini alsaziani devono le proprie caratteristiche, che ne hanno determinato il successo, a due fattori fondamentali: le eccezionali condizioni climatiche e la conformazione dei terreni. Infatti, questa è una zona dove la piovosità è assai scarsa (tra le più basse di Francia) e le ore di sole numerose. Ma non solo, sul microclima giocano un ruolo fondamentale i monti Vosgi, che riparano dai venti e dall’umidità provenienti dall’Oceano Atlantico le vigne distese sui colli del versante orientale. Clima, dunque, ma anche ricchezza e varietà del suolo, che passa dalle zone ricche di granito, gneiss e scisto, fino a quelle silicee e a quelle calcaree, per digradare fino alle piane alluvionali dove poi la vite si ferma. Per quanto riguarda la storia dell’Alsazia, è opportuno sottolineare che le complesse e travagliate vicende storiche, come il fatto che la regione abbia cambiato bandiera quattro volte fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, non hanno impedito lo sviluppo di una tradizione viticola che affonda le proprie radici al tempo dei Romani. Alla fine del primo millennio si contavano oltre 160 distretti dediti alla coltura della vite e nel Medioevo i vini alsaziani erano considerati fra i più cari del mondo; alla fine della seconda Guerra mondiale, nonostante le devastazioni del periodo bellico, erano molte le vigne storiche sopravvissute.

LE DENOMINAZIONI – Oggi l’Alsazia è una regione vinicola fra le più avanzate d’Europa: all’avanguardia sia sotto il profilo della tutela del territorio e della qualità sia a titolo turistico, proponendosi come una destinazione d’eccellenza per il visitatore appassionato. I vini sono identificati in base al livello qualitativo e si distinguono in Appellation Aoc Alsace e Appellation Aoc Alsace Grand Cru: per aver diritto all’Appellation d’Origine Contrôlée Alsace Grand Cru, i vini devono provenire da uve raccolte in 52 territori titolati e strettamente delimitati dei vigneti alsaziani. Sono solo quattro i vitigni autorizzati a divenire grand cru: Riesling, Gewürztraminer, Pinot gris e Muscat d’Alsace; la gradazione alcolica minima deve essere di 10° per il Riesling e di 12° per il Muscat, il Gewürztraminer e il Pinot gris, con un rendimento massimo autorizzato di 70 ettolitri per ettaro. L’etichetta dei grand cru deve indicare obbligatoriamente, oltre alla Aoc, anche la località, il vitigno e il millesimo di riferimento. A questa classificazione se ne aggiungono altre due: Vendage Tardive, per vini ottenuti con uve vendemmiate in sovramaturazione, e Sélection de grains nobles, per prodotti con grappoli raccolti e selezionati a mano e, solitamente, aggrediti dalla muffa nobile, la Botrytis cinerea. Una categoria a parte riguarda i Crémant d’Alsace, spumanti ottenuti con il Metodo Classico, principalmente da uve Pinot blanc.

LUNGO LA STRADA DEL VINO: DOMAINES SCHLUMBERGER – I vini di questa regione sono caratterizzati da notevole eleganza e concentrazione superlativa, capaci di regalare grandi emozioni in abbinamento con i cibi ma, specie nel caso delle Vendages Tardives e delle Sélection de Grains Nobles, possono diventare grandi vini da meditazione. La Strada dei vini Alsaziani prende il via nei pressi di Mulhouse, capitale europea dei musei della tecnica. Lasciata la città, si raggiunge Thann, dove cominciano i 170 chilometri di un percorso goloso dove le soste sono scandite dalle visite alle Cantine e dalla scoperta di un territorio costellato da numerosi paesini da scoprire e gli infiniti appuntamenti con la gastronomia locale. La prima tappa enologica si trova a Guebwiller, unico paese in Alsazia a vantare quattro grand cru (Kitterlé, Kessler, Saering e Spiegel), dove ha sede l’azienda vinicola Domaines Schlumberger, perfetto esempio di equilibrio di tradizione e modernità. Su 140 ettari di vigna 70 sono classificati grand cru, 30 beneficiano di un regime biodinamico e i terreni ripidissimi vengono ancora arati con i cavalli: dispone inoltre di 120 grandi botti di legno secolari alle quali è stato applicato un moderno sistema di termoregolazione, e le rese per ettaro sono bassissime (45 ettolitri su tutta la proprietà). Il risultato è una serie di vini che si caratterizza per eleganza, finezza e concentrazione su tutta la gamma: brillano i grand cru, in particolare il Gewürztraminer Kessler, vino sensuale, di grande struttura, con il suo naso complesso, speziato e floreale e il gusto rotondo e vellutato con ricordi di rose, frutti esotici, spezie e quel finale così fresco e pulito; da ricordare anche il Riesling e il Gewürztraminer della linea Les Princes Abbés, per non parlare delle splendide vendemmie tardive prodotte solo nelle annate migliori. Si lascia la Cantina degli Schlumberger con la sensazione di aver incontrato persone con un rispetto estremo della terra.

MAISON FRICK – Di nuovo in viaggio, si supera il borgo di Rouffach, dominato dal castello d’Isenbourg, oggi trasformato in un raffinato hotel cinque stelle, prima di arrivare a Pfaffenheim, piccolo paesino che ospita l’azienda della famiglia Frick, 12 generazioni di vignaioli nel medesimo luogo e una conoscenza e una sensibilità nei confronti del territorio che li ha portati a scelte anche radicali. Nel 1970 la conversione di tutto il domaine in agricoltura biologica, nel 1981 le prime sperimentazioni in regime biodinamico e dal 2002 la decisione di abbandonare il tappo di sughero a favore di capsule coronate in acciaio inox con un disco di polietilene che assicura l’impermeabilità. Una scelta che Pierre Frick motiva con l’impossibilità di reperire sul mercato prodotti in sughero che garantiscano la salute del vino. Il regime biodinamico interessa tutti gli stadi della vinificazione e l’uso di prodotti chimici è scomparso dalla cantina. Dal 1999 alcune delle cuvée vengono imbottigliate senza zolfo. Il risultato sono vini che non tradiscono quel carattere un po’ sempliciotto di certi biodinamici che s’incontrano dalle nostre parti. I vini della Maison Frick risultano fini, equilibrati, caratterizzati da notevole struttura e complessità che raccontano con grande personalità il terroir di cui sono figli. Vogliamo ricordare lo splendido Gewürztraminer Vendages Tardives – Grand Cru Steinert, con i suoi sentori di rosa, liquirizia e ananas, il gusto rotondo con ricordi di miele, di mela cotogna e rosa e il finale lunghissimo reso ancor più fresco dalla nota di ginepro che rimane in bocca, ma anche il Riesling e il Gewürztraminer della linea Cuvée Precieuse che si fanno notare per la loro pienezza oltre che per il rapporto qualità – prezzo.

MAURICE SCHUELLER – Pochi chilometri più a nord, a Gueberschwihr, opera l’azienda vitivinicola Maurice Schueller, un altro piccolo produttore capace di ottenere vini di enorme personalità. Una Maison che conta una dozzina di ettari lavorati in maniera molto tradizionale, il privilegio di avere tre vigne nel grand cru Goldert e un vitigno, il Muscat d’Alsace, che la famiglia Schueller sa portare allo stato dell’arte. Provatene una bottiglia insieme agli asparagi con le uova e il burro fuso e scoprirete un vino, da noi poco conosciuto, completamente diverso dal suo omonimo della Loira; un prodotto di notevole eleganza e pulizia rigorosa, secco, rotondo e fruttato, assai complesso, dal naso ampio, di aromaticità schietta. Il gusto è minerale, pieno, con sentori di agrumi, quarzo, anice. Il finale lunghissimo, di grande pulizia, con ricordi balsamici. Fra i vini di Schueller, da ricordare anche un Riesling da vecchie vigne, che sposa splendidamente il cotechino e poi un ottimo Gewürztraminer Grand Cru Goldert da abbinare ai formaggi erborinati. Colmar è alle porte, con i suoi vecchi edifici, le ricche facciate, i canali e i vicoli. Percorrendo la zona pedonale, una delle più grandi d’Europa, si può ammirare il patrimonio artistico che va dal Medio Evo al XX secolo. Molto caratteristico il Quai de la Poissonnerie, quartiere dove un tempo veniva venduto il pesce, oggi chiamato Petite Venise.

ZIND HUMBRECHT – Lasciata Colmar, si entra nella parte più suggestiva dell’Alsazia con i colli e i vigneti che regalano una successione emozionante di prospettive. Uno dei paesi più caratteristici è proprio Turckheim dove si trova la Cantina Zind Humbrecht, uno dei nomi meglio conosciuti della regione. Costruita agli inizi degli anni Novanta nel vigneto dell’Herrenweg, è una struttura notevole, edificata con criteri di risparmio energetico e di ergonomia del lavoro. Il Domaine Zind Humbrecht è condotto dal Duemila in regime di coltura biodinamica e l’uso di anidride solforosa per il mantenimento dei vini è quasi bandito; le rese per ettaro vengono tenute a limiti bassissimi e le maturazioni ritardate al limite dell’equilibrio alcool/acidità, al fine di ottenere vini di grande struttura e potenza, conferendo agli stessi una longevità inusuale, che può tranquillamente oltrepassare i 25/30 anni in condizioni di assoluta freschezza. La genialità e l’intraprendenza della famiglia Humbrecht con Léonard e sua moglie Généviève che hanno creato la proprietà, affiancati oggi dal figlio Olivier e da sua moglie Margaret, ha dato vita a un’azienda di riferimento in Alsazia che oggi vanta 40 ettari in proprietà, fra i quali si distinguono il Clos Saint Urbain au Rangen de Thann, in cui si producono Riesling, Pinot gris e Gewürztraminer (Alsace Grand Cru), un vigneto unico, cioè un monopole, con una pendenza di oltre il 70%. I vini che nascono da queste uve sono unici come la terra che li genera: basti pensare allo strepitoso Clos Saint-Urbain Grand Cru Pinot gris. Seducenti per l’equilibrio fra potenza, concentrazione ed eleganza anche Hengst Grand Cru Gewürztraminer e il Brand Grand Cru Riesling.

MEYER-FONNÉ – La strada dei grand cru prosegue serpeggiando fra le vigne fino all’abitato di Niedermorschwihr, dove si resta incantati dal profumo delle marmellate di Christine Ferber. Tra le confetture più sfiziose ci sono quelle allo Champagne Veuve Clicquot, alle fragole di bosco con i petali di rosa e all’amarena e menta. Subito a nord di Niedermorschwihr si entra a Katzenthal dove va visitata la Cantina Meyer-Fonné. Viticoltori da tre generazioni, 12 ettari di vigna sparsi in sette comuni nel cuore dell’Alsazia, cinque grand cru (Wineck-Schlossberg, Kaefferkopf, Furstentum, Sporen e Schoenenbourg) e una filosofia di lavoro che fa cardine sul concetto di flessibilità. Una flessibilità volta ad assecondare le necessità delle diverse vigne, delle diverse stagioni e annate, per ottenere vini sempre vicini al territorio e aderenti alle mutevoli condizioni che la natura impone. Un’attitudine di grande rispetto che filtra nel carattere unico dei vini di casa Meyer-Fonné. Nota a livello internazionale per i suoi Gewürztraminer marcati da un’acidità vibrante, fra i vini di questa Cantina brilla anche il Muscat Vignoble de Katzenthal, snello, fresco, di grande finezza, da provare come aperitivo. Splendido il Riesling Grand Cru Wineck-Schlossberg di eleganza e profondità siderali che ben si sposa con le preparazioni a base di uova, in particolare omelette e sformati agli asparagi.

BINNER – Ecco Ammerschwihr dove incontriamo un’altra famiglia di vignaioli votati alla produzione di vini totalmente naturali: i Binner. Viticoltori dal 1770, oggi dispongono di 11 ettari di vigna dislocati per lo più nei tre superbi grand cru di Schlossberg, Kaefferkopf e Wineck-Schlossberg. I Binner vinificano esclusivamente le proprie uve, un dato questo, che non è scontato in Alsazia dove molti le acquistano, e a volte comprano addirittura il succo. Non solo, l’azienda, condotta con passione dai quattro membri della famiglia, vanta pratiche di agricoltura biologica e biodinamica certificata, inerbamento del terreno fra i filari per proteggerlo dall’erosione, vendemmie in ottobre e novembre per ottenere la massima concentrazione, e raccolte esclusivamente manuali. La vinificazione parte da una spremitura lenta e prolungata, quindi fermentazioni lunghe a bassa temperatura, senza alcuna aggiunta o pratica di cantina, affinamento sui lieviti in grandi botti di legno centenarie, nessun filtraggio e riposo in bottiglia per almeno tre anni prima della commercializzazione. Per molti sarebbe un puro suicidio commerciale, ma non per i Binner. I vini sono potenti, pieni di carattere oltre che di struttura. Citiamo il Riesling Grand Cru Schlossberg, vino immenso ma elegante, potente ma rigoroso, che nasce sul granito della valle di Kaysersberg, dove la roccia letteralmente affiora e regala quella mineralità che caratterizza questo Riesling pieno, indimenticabile e capace di lungo invecchiamento. Altrettanto unico il Muscat Kaefferkopf Cuvée Beatrice, splendido, nitido, aromatico, caratterizzato dal finale lunghissimo fresco e minerale. Interessante è poi provare anche l’ottimo Riesling Wineck-Schlossberg per capire quanto sia evidente la differenza di vigneto a parità di vitigno e lavorazione.

WEINBACH, PAUL BLANK E SIPP-MACK – Arrivati a Kaysersberg, borgo fortificato sul fiume Weiss, con la sua spettacolare conca di vigneti, bisogna visitare il Domaine Weinbach dove Colette Faller, insieme alle sue due figlie, produce etichette fra le più titolate d’Alsazia. Si tratta di vini di grande eleganza e sensualità, basti pensare al Riesling Grand Cru Schlossberg Cuvée Sainte Catherine L’Inedit!, vino di splendida raffinatezza e maturità, in perfetto equilibrio fra snellezza nitida e corposità opulenta, da abbinare all’astice e alle capesante. Poco lontano, a Kientzheim, ci si può fermare al Domaine Paul Blanck, famiglia di vignerons dal 1610. Oltre a visitare la cantina, si assaggiano gli ottimi vini che Chantal Blank illustra con passione. Brilla lo strepitoso Riesling Grand Cru Furstentum Vieilles Vignes, capace di invecchiare a lungo, regalare grandi emozioni e accompagnare situazione che vanno dai formaggi di capra, ai crostacei fino alla meditazione. Subito prima di arrivare a Ribeauvillé, si incontra l’abitato Hunawihr in posizione particolarmente bella circondato da un anfiteatro spettacolare di vigne. È qui che incontriamo Jacques Sipp, titolare dell’azienda Sipp-Mack, che ci racconta con passione e competenza come nascono i suoi vini grazie alle prerogative di un terroir particolarmente vocato. La verticale dei suoi Riesling Grand Cru Rosacker è indimenticabile. Il 2000 è uno dei Riesling più interessanti mai provati, caratterizzato da un bouquet ampio, complesso, fine. Di grande mineralità, con sentori di pietra focaia, idrocarburi appena accennati, quarzo, banana, cedro caramellato e pompelmo rosa. Il gusto è secco, potente, quasi opulento con note di spezia, fichi, tabacco e incenso. Il finale lunghissimo regala ricordi balsamici, di limone e nocciola tostata. Si tratta di un vino da invecchiare almeno 15 anni e bere da solo, oppure tentando un abbinamento con i frutti di mare.

RÉMY GRESSER – A Ribeauvillé bisogna fermarsi alla Maison Liesel, tempio del foie-gras, perfetto con certi Pinot gris e Gewürztraminer della zona. Da non perdere anche la Cantina di Jean Paul Metté, dove si possono degustare oltre 80 distillati. I più curiosi sono all’aglio, al basilico, agli asparagi e al pepe. Il viaggio prosegue in direzione di Andlau, a metà strada fra Colmar e Strasburgo, per visitare una delle aziende più interessanti d’Alsazia: Rémy Gresser. Quattro secoli di storia, 10 ettari e mezzo di vigna, tre grand cru (Kastelberg, Wiebelsberg e Moenchberg), una filosofia di vita e di lavoro che mette il terroir al centro di ogni scelta: dall’agricoltura biologica e biodinamica al rispetto per l’equilibrio naturale fra flora e fauna che permette all’uomo di svolgere il proprio lavoro in armonia con l’ambiente che lo circonda. Una convinzione che si esprime anche in cantina dove i ritmi della fermentazione e della maturazione dei vini di Gresser sono determinati dalla natura. Assolutamente formidabile il Riesling Grand Cru con la sua elegante mineralità, in perfetto equilibrio fra concentrazione e pulizia. Si tratta di un vino che esprime in modo netto il terroir, molto fruttato al naso, complesso e rigoroso in bocca, con un finale lunghissimo e fresco. Vino capace di regalare notevoli sensazioni. Ottimo con il sushi e i crostacei. Seducente il Gewürztraminer Duttenberg Vieilles Vignes, un vino quasi opulento, ma fresco, minerale, pieno, concentrato e potente, dove l’acidità regala lunghezza aerea a un finale di grande pulizia. Da ricordare anche l’ottimo Pinot gris Clos de l’Ourse Vieilles Vignes; di grande struttura e concentrazione, è caratterizzato dall’equilibrio fra estratto, residuo zuccherino e acidità. Ne esce un vino inconsueto e intrigante, tanto al palato quanto per gli abbinamenti che vanno dal foie-gras spadellato fino alle carni bianche e il pollame. Ultima tappa a Barr dove rimane uno degli ultimi bottai della regione e quindi attraverso un paesaggio ordinato dalle vigne si torna verso la pianura prima di raggiungere Strasburgo con i suoi canali, i suoi palazzi á colombage e il parlamento europeo.

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Una doppia cerchia muraria, porte austere e torri massicce, degne di una fiaba cavalleresca, ci danno l’idea che il piccolo borgo alsaziano di Riquewihr (in francese Riquevire) sia un gioiello che merita di essere protetto. Se un tempo le fortificazioni servivano da difesa contro gli attacchi nemici, oggi lo scrigno antico delle mura fa da spartiacque tra il sogno e la realtà, come ad avvertire i visitatori che stanno per addentrarsi in un mondo magico. E in effetti l’atmosfera che si respira in questo lembo orientale della Francia, nel dipartimento dell’Alto Reno, sa inebriare i sensi e stuzzicare l’immaginazione, risvegliando emozioni dimenticate.

Sarà perché Riquewihr è piccola, a misura di bambola, e conta appena 1200 anime; sarà perché è circondata da paesi altrettanto interessanti come Colmar e Ribeauvillé… fatto sta che la cittadina viene considerata tra le più belle del paese, e pochi riuscirebbero a sostenere il contrario: aldilà delle antiche mura c’è una campagna dai toni caldi, con colline dolci traboccanti di vigneti e costellate di borghi minuti. In settembre il sole inonda i campi di una bella luce ambrata, e le viti luccicano con i loro acini dolci, pronti ad essere utilizzati per la produzione di un Riesling squisito.

Ma la quiete attuale non ha sempre regnato a Riquewihr: la storia ha messo a dura prova le sorti del centro, facendolo scenario di guerre e battaglie, eppure gli edifici più belli hanno scampato i maggiori pericoli e oggi si possono ammirare le architetture locali nella veste originaria del XVI secolo. Una vicenda curiosa si era verificata nel XIV secolo: nel 1324 i signori di Riquewihr avevano venduto il feudo al Duca di Wurtemberg, ma il Vescovo di Strasburgo, non essendo stato informato dell’operazione, aveva deciso di colpire il maggior tesoro del borgo, le cantine. Ai soldati venne ordinato di ingurgitare quanto più vino potessero, e il resto venne caricato su dei carri diretti a Strasburgo.

Eppure nessuna controversia è mai riuscita a impoverire davvero Riquewihr, o almeno non a lungo, e grazie alle vigne e alle sue bellezze architettoniche, cui si aggiungono un’accattivante tradizione culinaria e suggestive feste nell’arco dell’anno, la cittadina ha fatto innamorare innumerevoli visitatori anno dopo anno. Il centro storico è completamente pedonale, dominato dalla quiete: soltanto il corri corri dei pedoni nei momenti più vivaci, il chiacchiericcio allegro dei passanti e la musica di qualche artista di strada spezzano la tranquillità. La Rue Général de Gaulle attraversa la cittadella ed è costeggiata da vecchie case: da vedere la Maison Irion del 1606, col suo grazioso balcone angolare, poco lontana dal vecchio pozzo del XVI secolo. E ancora la Maison Jung-Selig del 1561 con le travi scolpite, la Maison Liebrich del 1535 con la sua corte accogliente, la Maison Behrel del 1514 e la Maison Preiss-Zimmer, antica Locanda della Stella, del 1686. Infine la casa del fabbricante di chiodi del 1660.

Ma la fiaba vera comincia dalla Torre del Dolder, indiscutibile simbolo della città: qui, in questa struttura medievale in pietra che funge anche da porta d’accesso, da torre campanaria e da torre di guardia, è allestito il ‘Museo di storia locale’. All’interno della fortificazione del 1291, rinforzata nel corso del XV e del XVI secolo, oggi si possono ammirare utensili di vario tipo, tra mobili austeri, incisioni interessanti, armi e attrezzi da lavoro.

Eppure non c’è bisogno di visitare un palazzo in particolare o di entrare in un museo per respirare un po’ di storia e comprendere lo spirito autentico dell’Alsazia: tutto, a Riquewihr, sembra un’opera d’arte raffinata, testimone di un momento storico glorioso e allo stesso tempo di un gusto delicato, che ricorda il paese dei balocchi. L’intreccio di strade è orlato di dimore antiche, dai colori accesi e le decorazioni caratteristiche, con balconi traboccanti di fiori e i comignoli fumanti nella stagione più fredda.

Proprio la stagione fredda è senza dubbio quella più affascinante, quando l’aria pungente fa apprezzare ancora di più il tepore di una taverna o la dolcezza ristoratrice di una bevanda calda. È anche il momento dei festeggiamenti, e infatti il borgo indossa l’abito della festa, tempestato di luci e gremito di bancarelle: nel periodo natalizio la via principale del paese è completamente invasa dal mercatino di Natale, con l’esposizione di oggetti artigianali e di dolciumi tipici dal profumo speziato. Le case a graticcio si colorano di addobbi e il negozio di Käthe Wohlfahrt si trasforma in un vero e proprio ‘villaggio natalizio’, allestito all’interno di una dimora colombage e popolato di streghe, gnomi e folletti. Nelle botteghe, nelle piazze e nelle strade cittadine l’incanto dura dalla fine di novembre alla fine di dicembre, ma in ogni periodo dell’anno è un piacere camminare nel centro di Riquewihr e scoprire le bellezze paesaggistiche dell’Alsazia.Colmar3

Il merito è anche del clima, caratterizzato da inverni rigidi con un’aria pura e argentina, e da estati miti con temperature non troppo alte, mai appesantite dall’afa.

Ristorante a Riquewihr

Ribeauvillé

Ribeauvillé (in tedesco Rappoltsweiler) è un comune francese di 4.929 abitanti situato nel dipartimento dell’Alto Reno nella regione dell’Alsazia.

Nel medioevo, i signori di Ribeauvillé erano “re” dei menestrelli e trovatori di tutta l’Alsazia.

La leggenda narra di un signore della città che, incontrando in strada un pifferaio disperato per aver perduto il proprio strumento, attorniato dalla sua famiglia in lacrime terrorizzata dalla fame incombente, gli regalò una borsa di monete, dimenticando subito l’episodio.ROUTE-DE-VIN-ALSACE-001

Qualche giorno dopo arrivò al castello un grande sorprendente corteo, capeggiato dal pifferaio che suonava uno strumento tutto d’oro, composto da tutti i possibili artisti ambulanti: suonatori di trombe e tamburi, menestrelli, domatori di orsi, di cani, di gatti, di scimmie – e insomma tutta la straordinaria corporazione degli artisti ambulanti, che veniva a nominarlo proprio re, in segno di gratitudine per la sua generosità.

Così da allora, tutti gli anni, quelli che oggi chiamiamo musicisti ed artisti di strada convennero a Ribeauvillée per una grande festa. Questa festa dei menestrelli si ripete ancor oggi, la prima domenica di settembre, con un grande corteo folkloristico e festival di musica medioevale.

Castello di Haut-KœnigsbourgChateauduHautKoenigsbourg1

Il castello di Haut-Kœnigsbourg (in francese: château du Haut-Kœnigsbourg; in tedesco: Hohkönigsburg) situato sulla cima del monte Stophanberch (755 m), in Alsazia nel comune di Orschwiller presso Sélestat e Saint-Hippolyte, venne citato per la prima volta nel XII secolo.

Lo Stophanberch o Staufenberg si trova all’incrocio di importanti vie commerciali: del grano e del vino (la route des vins, in direzione N-S) e dell’argento e del sale (in direzione O-E) e nel 1114 Federico II di Svevia ne iniziò la costruzione ben comprendendone l’importanza strategica.

Di proprietà degli Asburgo, passa ai Tierstein (come feudo) nel 1479. Questi lo ricostruirono e munirono di artiglieria per un adeguato sistema difensivo.

Durante la Guerra dei Trent’anni il castello resistette per oltre un mese all’assedio degli svedesi ma, alla fine, cadde, venne saccheggiato ed incendiato.

Dopo oltre due secoli di abbandono, nel 1865 divenne di proprietà della non lontana città di Sélestat, la quale nel 1899 fece dono di queste rovine (peraltro conservatesi molto bene) all’imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern. Dal 1871 infatti l’Alsazia era parte dell’Impero tedesco.

Il restauro venne affidato all’architetto Bodo Ebhart, un esperto di fortificazioni e studioso del medioevo, ed i lavori durarono dal 1900 sino al 1908 mentre le rifiniture continuarono fino al 1918.

Un anno dopo, nel 1919 col trattato di Versailles i beni della corona tedesca passarono alla Francia che divenne così proprietaria di Haut-Kœnigsbourg.chateau-haut-koenigsbourg3

Nel 1936, è uno dei luoghi in cui si svolgono le riprese del film La grande illusione di Jean Renoir.

Cenni architettonici

L’attuale castello è il risultato di una minuziosa opera di recupero architettonico, effettuata da Ebhart secondo le indicazioni dell’imperatore Guglielmo II il quale intendeva fare del castello un museo del medioevo oltre che un simbolo della potenza dell’impero.

I lavori di restauro iniziarono da rilievi fotografici, partendo dalle tracce romaniche ancora presenti, ed Ebhart per la ricostruzione di parti fondamentali (mancanti) studiò l’architettura di castelli analoghi del medesimo periodo storico.

Il risultato della ristrutturazione fu controverso anche se, come effetto finale, il castello ora rende bene l’idea di ciò che doveva essere una roccaforte del XV-XVI secolo.

FRIBURGO

La Friburgo tedesca (ne esiste anche una omonima in Svizzera) è storicamente nota come la capitale della Foresta Nera ed è qui che infatti questa bella cittadina universitaria è situata, nella regione amministrativa di Baden-Württemberg, a circa 40 km dal confine francese e 60 dalla vicina Svizzera.

La sua collocazione ne fa una delle città tedesche di maggiore attrativa turistica e giovanile, e non solo. Gli amanti della natura la prediligono per la sua suggestiva geografia e il suo particolare territorio di origine vulcanica. Non mancate di visitare la selvaggia Foresta Nera che si estende, tra verdi vallate e laghetti romantici, per circa 13.500 km² al confine con la Francia e la Svizzera; o di ammirare la suggestiva valle di Hollental (la Valle dell’Inferno) dove gli amanti del trekking troveranno, tra sentieri e piccole cascate, la direzione per raggiungere il monte Zugspitze, la montagna più alta della Germania, situata al confine con l’Austria.

Terra di origine vulcanica, tutta l’area di Friburgo gode inoltre di un clima mite e solare, pare infatti essa sia la regione più calda della Germania. Tale è la combinazione favorevole tra clima e territorio che Friburgo è anche conosciuta per la sua storica produzione di vini.

Tra i giovani, e in particolare nell’ambiente Erasmus, la bella e solare Friburgo è conosciuta per essere una cittadella universitaria, sicuramente la più popolare in Germania, arrivando ad avere una popolazione universitaria di ben oltre i 25 mila studenti. Ma il numero degli studenti cresce ogni hanno sempre più, visti i nuovi progetti in ambito comunitario e internazionale come il nuovo Erasmus Mundis. Rimasta per ben quattro secoli sotto la corona austriaca, Friburgo ha orientato la propria vita economica e intellettuale attorno alll’Università, che fu appunto fondata nel 1457.

La cittadina in se che conta poco più di 250.000 abitanti offre numerosi siti culturali, storici e architettonici, tra questi l’emblema di Friburgo, la sua Cattedrale (Münster) con il suo alto campanile in stile gotico (116 m) la cui cima si raggiunge con 600 piccoli gradini, l’antico edificio artigianale Kaufhaus o le antiche porte della città o la verde collina Schlossberg; e ancora colorati ristorantini, locali all’aperto e piccole taverne o bars, punto di incontro del mondo universitario, il tutto condito dalla purezza dell’aria e dai profumi della foresta.header_Freiburg-Altstadt-dpa21384689

Di particolare interesse sono, inoltre le tradizioni locali di Friburgo, come il festival del vino nella seconda metà di settembre o il Carnevale (Carneval as Freiburg) celebrato in maniera peculiare con danze nelle strade.

Anche l’urbanistica è una tradizione a Friburgo e questo è in particolare accentuato dai noti Bächle, dei piccoli canalini pieni d’acqua, più comunemente chiamati ‘rivoli’ (larghi circa 30 cm e profondi 5-10 cm), presenti nelle strade pedonali del centro della città; un tempo venivano costruiti come parte del sistema fognario e usati per sopperire alle emergenze portate dal fuoco in caso di incendi. Non si possono poi non notare i caratteristici ‘mosaiken’ di Friburgo, dei disegni a mosaico situati a fronte negozio nella pavimentazione dei marciapiedi che raffigurano l’attività del locale: un mosaico raffigurante una caraffa di birra quindi indica un pub, Gasthau, (che inoltre sono anche rappresentati da delle caratteristiche statue satiriche in legno), un diamante indica la presenza di una gioielleria, una mucca di una macelleria, e così via.

Le attrazioni a Friburgo non mancano e il visitatore ha una vasta scelta attrazioni da ammirare, dalle vellutate colline della Foresta Nera al simbolo cittadino della Cattedrale di Munster che insieme alle tante vive attrazioni culturali, ai bar, i ristoranti o ai club fanno di Friburgo una delle mete più ambite delle Germania e del suo confine con la Francia e la Svizzera.Friburgo,-Alemania

Ristoranti a Friburgo

La cucina dell’Alsazia

L’Alsazia è terra di alta cucina e patria di innumerevoli specialità. Il genio della cucina alsaziana consiste nel saper adoperare gli ingredienti più semplici (uova, patate, cavoli, ecc.) per creare veri e propri capolavori. È una cucina di origine contadina “imborghesita” da creazioni deliziose quali il foie gras, il pâté in crosta e la pasticceria, senza tradire la sua essenza.

-Birra

I birrai alsaziani erano riuniti in corporazione già nel 1268! E oggi la loro passione per la birra è la stessa di allora. Più della metà della birra consumata in Francia viene infatti prodotta in Alsazia.

Le birrerie

-Bibeleskäs

Questo formaggio fresco contadino viene servito con patate saltate. C’è chi lo preferisce su un letto d’aglio, di prezzemolo, di erba cipollina o di cipolla.

-Pretzel

Questo salatino a forma di cuore è il simbolo dei panettieri fin dal XIV secolo. La sua origine è tanto lontana quanto misteriosa.

Baeckeoffe

Pasticcio di patate stufate nel vino bianco alsaziano che associa tre tipi di carne: maiale, manzo e montone. Viene cotto in un piatto speciale sigillato da una pasta salata.

-Carpe (“carpa”)

Allevata negli stagni fin dal XII secolo, viene degustata in vari modi, fra cui le ricette della cucina tradizione ebraica.

Choucroute

Il cavolo grattugiato e messo a salamoiare nelle botti, una volta era l’unica verdura invernale. La choucroute, piatto forte della gastronomia alsaziana, viene consumata in tutte le stagioni, guarnita da salumi o, in versione “light”, pesce.

-Civet (“salmì”)

La lepre e il coniglio trovano in da questa salsa marinata nel vino il condimento perfetto. Come contorno: spätzle, nouilles pasta all’uovo o pflüte (polpettine di patate).

Flammekueche o Tarte flambée

Per molti ristoranti di campagna rappresenta praticamente l’unica scelta. E’ una pasta sottile ricoperta di crema acida, cipolle e lardelli e servita su di un tagliere di legno. È una specie di pizza che si divide fra i convitati e si mangia con le dita. È inutile ordinare il bis: ve ne portano fino a che non dite stop.

-Fleischschneke

I fleischenschneke (“girelle di carne”) vengono preparati mettendo della carne su uno strato di pasta che viene arrotolata, tagliata e bollita nel brodo. Ecco un altro tesoro il cui segreto è custodito dalla cucina alsaziana.

-Foie gras

Il pâté de foie gras d’oca è stato inventato dal cuoco strasburghese Jean-Pierre Clause intorno al 1780, ma un valido contributo era stato dato dai Romani, per aver introdotto il bel volatile in Alsazia, e dagli ebrei, esperti nell’arte dell’ingrassaggio e della conservazione del fegato, che avevano portato con sé dopo la fuga dall’Egitto.

Kougelhopf

Simbolo dell’Alsazia a tavola, questo dolce briosciato ha una forma particolare che invita alla condivisione. Dolce o salato, viene assaporato con uvetta e mandorle, o in versione salata con lardelli e noci.

-Knack

Queste salsicce devono il proprio nome allo schiocco che producono sotto i denti (“knacken” in tedesco). Sempre presenti sulla choucroute, le knack sono l’ospite d’onore di tutte le feste di paese.

-Lewerknepfle (polpette di fegato)

E un piatto delizioso che esprime bene lo spirito della “cucina della nonna”, che sfrutta le frattaglie con creatività.

-Männele (“omino”)

Brioche a forma di omino che viene fatta a dicembre intorno alla festa di S. Nicola. In Alsazia, tutti i momenti importanti del calendario corrispondono a un dolce particolare.

-Matelote

Tranci di pesci d’acqua dolce assortiti, arricchiti da una crema al Riesling e serviti con nouilles.

-Munster

L’invenzione di questo formaggio è attribuita all’abbazia di Munster e risalirebbe al 1339 circa. Il suo odore forte non ha niente a che vedere con il sapore, delicato e gustoso. Il munster si gusta freddo o fuso sulle patate.

-Navets salés (“rape salate”)

Sono rape bianche tagliate in grosse strisce e messe in salamoia come la choucroute. È un piatto invernale che accompagna lo zampetto o le salsicce.

-Pâtes (“pasta”)

Per secoli si è creduto che gli inventori della pasta fossero gli Alsaziani (quando ancora non si conoscevano i Cinesi). Una cosa è certa, la pasta alsaziana, ricca di uova, è unica al mondo.

-Pasticcini

Gli alsaziani vanno pazzi per i pasticcini. Le creazioni contemporanee a base di mousse di frutta si sposano benissimo con quelle classiche: crostate di frutta o al formaggio, brioches, meringhe glassate, ecc…

-Presskopf

Del maiale non si butta niente, dice il proverbio. Questo pâté, anche conosciuto come “fromage de tête” (“formaggio di testa”) ne è l’esempio più lampante.

-Quetsche (“susina”)

La prugna, che nel Sud della Francia si fa seccare, qui ha un altro destino: viene gustata nelle torte, nelle marmellate o nei distillati.

-Raifort (“rafano”)

Il rafano, letteralmente “radice forte”, è una pianta della famiglia della senape. È un condimento che accompagna perfettamente con il suo sapore deciso la carne da lesso.

-Roïgebradeldi

I roïgabrageldi fanno parte del pasto montanaro servito negli agriturismi dei Vosgi. Sono patate cotte a fuoco lento con cipolle e lardelli, a riprova che anche con gli ingredienti più semplici, la cucina può raggiungere vette inaspettate.

-Salade de pommes de terre (“insalata di patate”)

Servita fredda o tiepida, quest’insalata ben condita accompagna knack, prosciutto o spalla affumicata.

-Spätzle

Pasta grossa e irregolare che in altri tempi si faceva in casa. Accompagna perfettamente la lepre in salmì o il coq au vin

.

-Torta di cipolle

E’ un tipico stuzzichino da birreria servito in tutti i winstub. Per le buone forchette fa da antipasto, per gli altri è un delizioso piatto unico.

-Tourte (“pasticcio”)

La tourte vigneronne (“pasticcio del vignaiolo”) è uno dei piatti serviti negli agriturismi. È fatta di carni marinate e messe in una pasta sfoglia, spesso con l’aggiunta di una goccia di Riesling: una vera delizia.

-Schnaps (acquavite)

L’acquavite spesso conclude un buon pasto. Può essere a base di fragole, lamponi, prugne, mirabelle, susine, ciliegie, pere o gewurtztraminer. Dallo schnaps nasce la “Schnapsidea”: termine grazioso che designa l’idea geniale e bislacca che cambierà il mondo.

Vini alsaziani

L’Alsazia è una grande regione vinicola. I suoi vini “DOC“ sono conosciuti per i loro ceppi; ce ne sono 7: Gewurztraminer, Moscato, Pinot bianco, Tokay Pinot Grigio, Pinot Nero, Riesling e Sylvaner. Apprezzati in tutto il mondo, questi grandi bianchi fruttati e leggeri si degustano all’aperitivo e accompagnano a meraviglia la choucroute o il pesce.

Wädele

Piccolo zampetto o spalla di maiale che si serve spesso con la choucroute. È il piatto tipico dei winstub.

Winstubs

Locande che fanno da bere e da mangiare, famose per la loro convivialità. La cucina è tradizionale e l’atmosfera spesso eccezionale.

Acquisti

Vini: ovviamente i già citati Riesling, Gewurztraminer, Sylvaner, Pinot banc e noir nelle cantine o in negozi specializzati

Leccornie: l’Alsazia è famosa per la preparazione del foie gras (fegato d’oca) confezionato in vasi di vetro fatevi consigliare nei negozi. Di ottima qualità è anche il formaggio Munster acquistato confezionato per evitare in pullman odore.

Ceramica: stampi per dolci e boccali sono famosi e splendidamente decorati

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Addobbi natalizi: in quasi ogni cittadina che visiteremo troverete negozi che tutto l’anno vendono decorazioni natalizie di grande pregio e originalità.

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Guida di Berlino


Berlino

Berlino  è la maggiore città e nel contempo un Land della Germania, quindi una città-stato. Capitale federale della Repubblica Federale di Germania e sede del suo governo, è uno dei più importanti centri politici, culturali, scientifici, fieristici e mediatici d’Europa e, dopo Londra, il secondo comune più popoloso dell’Unione europea.5432543-porta-di-brandeburgo

Geografia

Berlino è situata nella parte orientale della Germania, a 70 km dal confine polacco. È situata nella regione geografica del Brandeburgo, ma non fa parte dell’omonimo Land, da cui è peraltro interamente circondata.

La città ha una superficie molto vasta, di 892 km². L’estensione in senso nord-sud è di 38 km, in senso est-ovest di 45 km.

Il centro di Berlino sorge sulle rive della Sprea (Spree in tedesco), in un’ampia valle di origine glaciale (Berliner Urstromtal) fra gli altipiani di Barnim e Teltow, orientata in senso est-ovest.

Nel quartiere periferico di Spandau la Sprea sfocia nella Havel, che scorre in direzione nord sud, formando i laghi Tegeler See e Großer Wannsee. Nella parte orientale si trova invece il Müggelsee. I laghi berlinesi, nei mesi estivi, sono molto frequentati dai bagnanti.

Berlino è centro della regione metropolitana Berlino/Brandeburgo, che conta (2005) 4.429.847 abitanti.

Storia

Berlino nacque probabilmente come borgo commerciale di origine slava nel XII secolo, in corrispondenza di un’isola della Sprea. Originariamente vi erano due città distinte: Berlino, ad est del fiume, e Cölln, sull’isola, che vennero riunite nel 1307. Non molto resta di quelle antiche comunità, a causa dei ripetuti rivolgimenti successivi.

Nei secoli successivi, Berlino acquistò sempre più importanza sulle altre città del Brandeburgo: nel 1451 divenne residenza dei margravi di Brandeburgo, dal 1701 capitale del regno di Prussia, dal 1871 capitale dell’Impero tedesco. Nel 1920 vennero inglobati molti comuni e città circostanti, creando la “Grande Berlino“, terza città al mondo per numero di abitanti.

Carri armati sovietici e statunitensi si fronteggiano al Checkpoint Charlie, 1961

Capitale della Germania anche durante l’epoca nazionalsocialista, fu uno degli obiettivi principali dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale, terminata in Europa proprio con la resa incondizionata della Germania l’8 maggio del 1945.

Alla fine della guerra fu divisa in quattro zone d’occupazione, e quindi divisa in due parti concorrenti, i tre settori occidentali (Berlino Ovest) ed il settore sovietico (Berlino Est). Mentre Berlino Est divenne capitale della Repubblica Democratica Tedesca, Berlino Ovest fu un’enclave della Repubblica Federale, e del mondo occidentale, oltre la Cortina di Ferro.

Il Muro di Berlino nel 1986, dipinto sul lato occidentale

L’inizio della Guerra Fredda fu il Blocco di Berlino dal 24 giugno 1948 all’11 maggio 1949, efficacemente contrastato dal cosiddetto Ponte Aereo, il più grande trasporto umanitario della storia, messo in atto principalmente dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna, che in seguito vennero visti – come anche la Francia – non più come “forze di occupazione”, ma come “forze di protezione”. Anche il successivo tentativo sovietico di annettere Berlino Ovest alla DDR – l’ultimatum di Chruščëv del 1958 – venne respinto dagli Alleati Occidentali. Il 13 agosto 1961 il governo della Germania Est – ottenuto il permesso da Mosca – innalzò il Muro di Berlino, per fermare la fuga in occidente dei propri cittadini.

La solidarietà americana con i berlinesi dell’ovest era condizione essenziale della vita del cosiddetto “avamposto della libertà”; la sua espressione più nota e più incisiva sono le parole pronunziate dall’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, John F. Kennedy nel suo discorso tenuto il 26 giugno 1963: Ich bin ein Berliner (it.: “Io sono un berlinese”).

La “caduta del Muro” nella tarda serata del 9 novembre 1989 rese possibile la Wiedervereinigung (riunificazione tedesca), con la quale Berlino è tornata ad essere la capitale della Germania unita.

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In tutta la città gli elementi illesi, restaurati o ricostruiti, convivono con quelli moderni. I risultanti contrasti costituiscono lo stile tipico della Berlino odierna e sono nel contempo una testimonianza indiretta delle distruzioni belliche. Il più noto – e in ogni caso uno dei pochi – edifici che ancora ai primi del XXI secolo, danno una viva idea diretta delle distruzioni dovute ai bombardamenti, agli incendi e alla battaglia finale è la Gedächtniskirche (ossia “Chiesa della Memoria”), conservata allo stato di rudere per volontà della popolazione di Berlino Ovest e circondata dagli elementi architettonici moderni della chiesa nuova, inaugurata nel dicembre del 1961.

Religioni

La lunga tradizione di tolleranza religiosa in Prussia ha portato, nel corso dei secoli, all’immigrazione di diversi gruppi religiosi, perseguitati nella propria patria, anche in dimensioni rilevanti. Anche le ondate di immigrazione diversamente causate hanno portato alla presenza odierna a Berlino di tutte le importanti religioni del mondo. Nel contempo i berlinesi sono noti per essere mediamente poco affezionati alla religione, con più del 60% di atei residenti. Della comunità ebraica berlinese, fin dal Settecento quella maggiore in Germania, solo 6.500 persone erano riuscite a sopravvivere a Berlino – alcuni in quanto coniugati con tedeschi non ebrei, alcuni clandestinamente, grazie anche all’aiuto prestato da molti altri berlinesi – alla Shoah, che uccise 55.000 ebrei berlinesi, mentre oltre 100.000 riuscirono a salvarsi all’estero. La presenza musulmana è legata all’immigrazione degli ultimi decenni, prevalentemente dalla Turchia. L’ultimo censimento dell’appartenenza religiosa risale al 2004; le cifre risultano da quelle fornite da ciascuna comunità religiosa; mancano pertanto alcuni gruppi minori che non hanno collaborato. In particolare risultano:

Approssimativamente il 60% dei berlinesi non appartiene ad alcuna comunità religiosa.

Alexanderplatz

Alex’, così la chiamano i berlinesi, era già nota in epoca medievale come mercato del bestiame, ruolo dal quale derivò il suo primo nome, Ochsenmarkt (mercato dei buoi, appunto). Grande spazio adibito a parate militari e fino alla metà dell’800, fu ribattezzata Alexanderplatz nel 1805, in onore della visita a Berlino dello zar Alessandro I. Negli anni Venti del secolo scorso la piazza era un “il cuore pulsante di una città cosmopolita”: così la definì Alfred Döblin nel suo celebre romanzo Berlin Alexanderplatz, del 1929 (da cui Fassbinder trasse poi una serie televisiva). Poi arrivò il nazismo. In tempi ben più recenti, il 4 novembre 1989, la piazza ospitò una folla di un milione di persone che dimostrando contro il regime della Germania est diede vita alla più grande manifestazione antigovernativa nella storia del Paese. Molti eventi berlinesi si legano ad Alexanderplatz, dove sono ben leggibili i segni lasciati dalle diverse epoche, culture e concezioni urbanistiche. La trasformazione di Alexanderplatz in moderno luogo d’incontro e di shopping prende l’avvio durante la seconda metà del diciannovesimo secolo, epoca alla quale risale la costruzione della S-Bahn, la linea metropolitana di superficie (1882), e quella sotterranea (dal 1913). Devastata durante la guerra, negli anni Sessanta la piazza fu trasformata in un vasto spazio pedonale, troppo grande e grigio per risultare attraente. Molti gli edifici noti, segno evidente dello sforzo di Berlino est di competere con gli alti edifici dell’ovest. Tra questi l’Hotel Stadt Berlin (oggi Park Inn Hotel), 123 m; la Haus der Lehrers (Casa dell’insegnante), sede della commissione degli insegnanti della DDR; la Casa dei Viaggi, curiosa istituzione viste le restrizioni subite dai cittadini della Germania orientale in materia di viaggi; il palazzo dell’editoria, oggi Berliner Verlag – dove è ospitata la redazione del Berliner Zeitung. Negli anni Settanta, sotto Erik Honecker, Alexanderplatz divenne sede di “esperimenti” architettonici fedeli all’estetica d’ispirazione socialista, come la facciata a nido d’ape dell’ex Centrum Warenhaus, (oggi Gruppo Kaufhof), un tempo il principale grande magazzino di Berlino est la cui struttura attuale è stata riprogettata da Josef Paul Kleihues. Ad attirare lo sguardo attento del visitatore sono sicuramente la Fernsehturm (torre della televisione), la costruzione più alta della città (365 m), sormontata da una sfera che durante i Mondiali di calcio del 2006 fu trasformata in un grande pallone rosa. Al suo interno c’è un café con piattaforma panoramica rotante. La Brunnen der Völkerfreundschaft (fontana dell’amicizia tra i popoli) e il Weltzeituhr (orologio mondiale) del 1969, sono da sempre punti di riferimento e d’incontro. La Berolinahaus, di Peter Behrens, appartiene oggi alla catena C&A. Tra gli edifici più moderni, invece, sorge il centro commerciale Alexa, che ospita anche un cinema multisala.

Muro di Berlinomuro-di-berlino

Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera americana e una sovietica, fu il simbolo più crudele della Guerra Fredda. Qui si racconta la sua storia.

I rappresentanti dei paesi vincitrici della seconda guerra mondiale alla conferenza di Potsdam (1945) hanno deciso la divisione della Germania: Seduti da sinistra a destra: Clement Attlee, Harry S. Truman, Josef Stalin; dietro in piedi: William D. Leahy, Ernest Bevin, James F. Byrnes e W. M. Molotow.

Le due Germanie

Come diretta conseguenza della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, la Germania, nel 1949, fu divisa. Sul piano economico la Germania occidentale visse negli anni 50 un fortissimo boom, erano gli anni del cosiddetto “Wirtschaftswunder” (miracolo economico). Aiutata all’inizio dai soldi americani, la Germania Federale riuscì in breve tempo a diventare nuovamente una nazione rispettata per la sua forza economica.
La parte orientale faceva molto più fatica a riprendersi: era svantaggiata all’inizio per le pesanti richieste economiche fatte dall’Unione Sovietica per riparare i danni subiti nella guerra e per la mancanza di aiuti paragonabili a quelli che riceveva la parte occidentale. Inoltre la rigida struttura di pianificazione nazionale dell’economia non favorì lo stesso sviluppo come nella parte occidentale del paese. Più i due paesi si stabilivano al livello politico, più si facevano sentire le differenze per quanto riguarda lo standard di vita.
In quegli anni il confine tra est ed ovest non era ancora insuperabile e per tutti gli anni ’50 centinaia di migliaia di persone fuggivano ogni anno dall’est all’ovest, per la maggior parte erano giovani con meno di 30 anni e spesso persone con una buona formazione professionale, laureati, operai specializzati e artigiani, che all’ovest si aspettavano un futuro più redditizio e più libero. Questo continuo dissanguamento stava diventando un pericolo serio per la Germania dell’est ed era un’ulteriore causa delle difficoltà economiche di questo stato.

L’erezione del muro

Nelle prime ore del 13 agosto del 1961 le unità armate della Germania dell’est interruppero tutti i collegamenti tra Berlino est e ovest e iniziavano a costruire, davanti agli occhi esterrefatti degli abitanti di tutte e due le parti, un muro insuperabile che avrebbe attraversato tutta la città, che avrebbe diviso le famiglie in due e tagliato la strada tra casa e posto di lavoro, scuola e università. Non solo a Berlino ma in tutta la Germania il confine tra est ed ovest diventò una trappola mortale. I soldati ricevettero l’ordine di sparare su tutti quelli che cercano di attraversare la zona di confine che con gli anni fu attrezzata con dei macchinari sempre più terrificanti, con mine anti-uomo, filo spinato alimentato con corrente ad alta tensione, e addirittura con degli impianti che sparavano automaticamente su tutto quello che si muoveva nella cosiddetta “striscia della morte”.

Bloccato quasi completamente il dissanguamento economico dello stato, negli anni 60 e 70 la DDR visse anch’essa un boom economico. Tra gli stati dell’est diventò la nazione economicamente più forte e i tedeschi cominciarono a rassegnarsi alla divisione. Di riunificazione si parlava sempre meno e solo durante le commemorazioni e le feste nazionali.

La caduta del muro

Quello che infine, per la grande sorpresa di tutti e nel giro di pochissimo tempo portò alla riunificazione furono due fattori: l’arrivo di Gorbaciov (vedi la foto a sinistra) come leader dell’Unione Sovietica e le crescenti difficoltà politiche ed economiche dei paesi dell’est e specialmente della DDR. Con la “Perestroika”, cioè la radicale trasformazione della politica e della economia e con la “Glasnost”, che doveva portare alla trasparenza politica, Gorbaciov cominciò a cambiare strada all’Unione Sovietica.

I dirigenti della DDR videro questo processo prima con un certo imbarazzo e poi con crescente resistenza. Nel corso del 1989, i cambiamenti democratici, le piccole rivoluzioni nell’economia e nella politica in Polonia, in Ungheria e nell’Unione Sovietica riempivano ogni giorno i giornali in tutta l’Europa, solo nella DDR il tempo sembrava essersi fermato, ma molta gente adesso era impaziente e cominciò a protestare e manifestare apertamente.
Ogni tentativo di lasciare la DDR in direzione ovest equivaleva ancora a un suicidio, ma nell’estate del ’89 la gente della DDR trovò un’altra via di fuga: erano le ambasciate della Germania Federale a Praga, Varsavia e Budapest il territorio occidentale dove si poteva arrivare molto più facilmente!

Cominciò un assalto in massa a queste tre ambasciate che dovevano ospitare migliaia di persone stanche di vivere nella DDR. Ma il colpo decisivo arrivò quando l’Ungheria, il 10 settembre, aprì i suoi confini con l’Austria. Ora, la strada dalla Germania dell’est all’ovest (attraverso l’Ungheria e l’Austria) era libera! La valanga di fuga stava diventando inarrestabile. Anche l’ultimo tentativo da parte del governo della DDR di salvare il salvabile, cioè il cambiamento dei vertici del partito comunista e del governo non servì a nulla. Quando la sera del 9 novembre un portavoce del governo della DDR annunciò una riforma molto ampia della legge sui viaggi all’estero, la gente di Berlino est lo interpretò a modo suo: il muro doveva sparire. Migliaia di persone si riunivano all’est davanti al muro, ancora sorvegliato dai soldati, ma migliaia di persone stavano anche aspettando dall’altra parte del muro, all’ovest, con ansia e preoccupazione. Nell’incredibile confusione di quella notte, qualcuno, e ancora oggi non si sa esattamente chi sia stato, dette l’ordine ai soldati di ritirarsi e, tra lacrime ed abbracci, migliaia di persone dall’est e dall’ovest, scavalcando il muro, si incontravano per la prima volta dopo 29 anni.

Kreuzberg, bagnato dal Landwehrkanal, è il quartiere più piccolo di Berlino, ma anche il più popolato e il più multiculturale. Un tempo era il quartiere degli operai berlinesi, oggi è animato dagli immigrati, soprattutto turchi, dagli studenti e dagli artisti alternativi. Nelle sue strade, in particolare lungo l’Oranienstrasse, vicino il canale, si susseguono numerose gallerie, locali alternativi, kneipen e mercanti.

Il Nuovo Museo Ebraico

Il Museo Ebraico di Berlino è dalla sua apertura nel 2001 una delle istituzioni emergenti nel paesaggio museale europeo. Con le sue mostre e le sue collezioni, ma anche grazie al suo programma di manifestazioni e alle attività didattiche, esso è diventato un nucleo vitale della storia e della cultura ebraico-tedesche, inteso come luogo di ricerca, di dibattito e di scambio di opinioni. Un Museo per giovani ed anziani, tedeschi e non tedeschi, ebrei e non ebrei.

L’architettura

Già da tempo la spettacolare costruzione di Daniel Libeskind è una delle immagini emblematiche di Berlino. Nell’originale rapporto tra architettura e contenuto espositivo l’edificio, rivestito di zinco, pone nuovi criteri per l’edilizia museale. Liebeskind battezza il suo progetto between the lines (tra le linee) e rappresenta il difficile percorso della storia ebraico-tedesca servendosi di due linee: l’una diritta, ma frammentata in vari segmenti, l’altra tortuosa, spigolosa e sospesa senza un termine. Nei punti in cui le due linee si intersecano si formano zone vuote, o voids, che attraversano l’intero museo. L’architettura rende tangibile la storia ebraico-tedesca, propone interrogativi e invita a riflettere.

Le Mostre

Su più di 3000 m2 di spazio espositivo la mostra permanente invita ad un viaggio di scoperta nei duemila anni di storia ebraica in Germania. Tredici epoche storiche trasmettono immagini la cultura ebraico-tedesca dal Medioevo ai giorni nostri. Oggetti d’arte e quotidiani, fotografie, lettere, e inoltre spazi interattivi e multimediali descrivono gli stretti legami tra la vita e la cultura ebraica e la storia tedesca. A completare la mostra permanente si aggiunge un vasto programma di mostre periodiche. Oltre a ciò il Museo offre un ricco programma di manifestazioni per giovani e meno giovani: concerti e conferenze, workshops e proiezioni cinematografiche.

Nikolaiviertel (Quartiere Nikolai)

La vecchia Berlino

Il Nikolaiviertel è la più antica zona residenziale di Berlino. Con i suoi vicoli medievali e numerosi ristoranti e locali, è uno dei più amati punti di riferimento per i visitatori di Berlino.

Nel Medioevo, su questo punto passava una via commerciale. Artigiani e commercianti si stabilirono all’incrocio tra il fiume e la via. Intorno all’anno 1200, venne ultimata la Chiesa St.Nikolai, una basilica in pietre gregge del tardo Romanico. Intorno alla chiesa si è sviluppato anche un complesso residenziale con due zone nucleo: Berlino, il complesso residenziale un po’ più grande, è sorto a est del fiume Sprea, il più piccolo, Cölln, direttamente di fronte, sulla riva ovest. Fino alla Seconda Guerra Mondiale, il quartiere era caratterizzato da locande, negozi, cortili e aziende artigiane. Artisti come Kleist, Hauptmann, Ibsen, Casanova, Strindberg o Lessing hanno vissuto o hanno alloggiato qui. A causa dei bombardamenti, il quartiere è stato ampiamente distrutto nel 1944, per molto tempo rimase un cumulo di macerie non utilizzate. Solo alla vigilia del 750° anniversario di Berlino, il cumulo di rovine venne ricostruito sotto la guida dell’architetto Günter Stahn. Sulla base di esempi storici, le case e le strade sono state riprodotte nel modo più esatto possibile in modo tale che si abbia l’illusione di un pezzo della vecchia Berlino. Le più importanti attrazioni, oltre a Nikolaikirche, includono anche l’Ephraimpalais, un palazzo che è un capolavoro dell’architettura dei palazzi del XVIII secolo. Altrettanto bella è la costruzione barocca della Knoblauchhaus, edificio del 1760 i cui ambienti, arredati con mobili preziosi, danno un’idea del mondo dell’alta borghesia.

Unter den Linden

Il boulevard più bello di Berlino

Unter den Linden

Il sontuoso boulevard di Berlino è il vecchio cuore di Berlino e collega la Porta di Brandeburgo con lo Schlossbrücke (Ponte del Castello). Sul viale Unter den Linden si trovano numerosi edifici importanti, come la Humboldt-Universität o la Staatsoper (Opera di stato), nonchè attrazioni come la Neue Wache (Nuova guardia” ) e lo Zeughaus (Arsenale).

Storia

All’inizio i Linden (Tigli) erano un sentiero da percorrere a cavallo, che dal 1573 collegava lo Stadtschloss (castello cittadino) a Lietzow, che più tardi venne chiamato Charlottenburg dal nome della regina Sophie Charlotte, e da là portava oltre fino a Spandau. A partire dal 1701, i Linden vennero continuamente ampliati nel quadro della manifestazione di sfarzi reale e nell’ambito della nuova architettura.

Nel corso del tempo vennero realizzati lo Zeughaus (Arsenale), Friedrichstadt (Città di Federico), e sotto Federico il Grande venne edificato il Palazzo del Principe erede, il Palazzo della Pincipessa, il Teatro dell’opera e il palazzo per il principe Enrico, l’attuale Humboldt-Universität. La notevole prestazione architettonica di Friedrich Schinkel è stata quella di unire le diverse costruzioni e i diversi orientamenti stilistici in un concetto estetico; sono natecosìla Neue Wache, lo Schlossbrücke e al Lustgarten (Giardino dei piaceri) è stata data una nuova forma. Grazie a questo intervento, i Linden sono stati uniti diventando un insieme omogeneo. Alla fine del XIX secolo, il Duomo di Berlino venne edificato di nuovo nello stile eclettico del Guglielmismo.

Il Dopoguerra

In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, il boulevard era un deserto di macerie, con l’eccezione dello Stadtschloss. Nel 1950, però, Walter Ullbricht, l’allora Segretario generale del comitato centrale del Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (SED) (Partito Socialista Unificato di Germania), decise di far saltare in aria e di far demolire lo Stadtschloss in quanto simbolo dell’assolutismo prussiano. Gli altri edifici ancora esistenti sono stati ricostruiti poco alla volta. Gli effettivi lavori edilizi, tuttavia, sono iniziati nel 1958. Sono stati realizzati edifici tipici degli anni ’60 con facciate uniformi. Al posto dello Stadtschloss venne messo il Palazzo della Repubblica, che in seguito alla svolta venne chiuso e demolito a causa di una contaminazione di amianto.

Dalla caduta del Muro, sono stato restaurati e riedificati molti edifici. Il Lustgarten, per esempio, che prima fungeva da piazza per sfilate, è stato riorganizzato in un’area verde ispirata ai progetti di Lenné.

Porta di Brandeburgo

Dall’epoca della rivoluzione francese a oggi: la Porta di Brandeburgo ha molte cose da raccontare.
La Porta di Brandeburgo è il simbolo di Berlino. È stata al centro di vittorie, sconfitte e sconvolgimenti politici, dalle guerre napoleoniche attraverso le guerre mondiali, il nazismo, la guerra fredda fino alla riunificazione della Germania. In queste due pagine si racconta la sua storia.

Alla fine del ‘700, quando la Prussia, con la sua capitale Berlino, era al culmine del suo potere la porta di Brandeburgo si presentava così come si vede a sinistra: un piccolo posto di controllo che non faceva assolutamente capire che si stava entrando in una delle metropoli dei grandi poteri europei.
L’architetto Langhans, incaricato dal re della Prussia a costruire una nuova porta più grande e più rappresentativa era ispirato dalle idee dell’illuminismo: prese come modello i templi dell’acropoli di Atene (a destra). La nuova porta non doveva chiudere la città, ma tenerla aperta e far entrare lo spirito democratico dell’antica Grecia. La porta fu inaugurata nel 1794, pochi anni dopo la rivoluzione francese.
Pochi anni dopo, nel 1806, Napoleone conquistò l’Europa e anche la Prussia dovette cedere al suo potere. A sinistra si vedono Napoleone e i soldati francesi che attraversano la Porta di Brandeburgo. Napoleone sapeva come rendere le sue vittorie ancora più gloriosa: tolse la quadriga (che rappresenta la dea della vittoria con quattro cavalli) dalla cima della Porta di Brandeburgo e la portò come trofeo a Parigi.
La sconfitta sul campo di battaglia era dura, ma ancora sopportabile. Ma togliere alla capitale della Prussia la quadriga, il suo simbolo, fu percepita dalla popolazione di Berlino come una umiliazione ancora più forte. Così, la gioia era enorme quando, nel 1806, dopo la sconfitta di Napoleone, la quadriga fu riportata da Parigi a Berlino e rimessa nel suo posto (vedi il quadro a destra).
Da quel momento, la Porta di Brandeburgo, divenne un luogo carico di simbolismo e di ideologie. Dopo l’unione della Germania nel 1871, fu l’imperialismo tedesco ad impossessarsi del luogo: lo fece diventare il posto preferito per innumerevoli parate militari (vedi la foto a sinistra). Solo l’imperatore e la sua famiglia avevano invece il permesso di attraversare il passaggio centrale della porta.

Dopo la vittoria nella battaglia di Sedan, nella prima guerra mondiale, l’imperatore fece appendere questo striscione alla Porta di Brandeburgo: “Welch eine Wendung durch Gottes Führung” (Che svolta, grazie alla guida di Dio). Un trionfo prematuro: alla fine la Germania fu sconfitta, l’imperatore era costretto a dimettersi e la Germania divenne una repubblica. Dopo il breve intermezzo democratico della Repubblica di Weimar (1919-1933) Hitler arrivò al potere e cominciò subito a trasformare la Germania in un paese capace di affrontare la sua folle guerra che doveva portare la “razza ariana” alla guida del mondo.

Nella foto di sopra si vede un altro striscione appeso alla Porta di Brandeburgo, questa volta dai seguaci di Hitler, che doveva esprimere la cieca fiducia del popolo tedesco in Hitler: “Führer befiehl, wir folgen!” (Ordina, Führer, noi seguiamo!). Una fiducia che doveva costare, solo ai tedeschi, 6,3 milioni di morti. A tutto il mondo invece più di 55 milioni di morti e 35 milioni di feriti

 
   
     

Appena finita la guerra che gli alleati avevano combattuto insieme contro la Germania scoppiò la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti che si sarebbe trascinata in forme più o meno aspre fino agli anni ottanta. E al centro della Guerra fredda c’era Berlino, la città divisa in due.

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Un anno dopo la riunificazione, avvenuta il 3 ottobre 1990, il Bundestag (parlamento federale) scelse il Reichstag come sede parlamentare della capitale della Germania unita. Fu quindi avviato un restauro completo e spettacolare dell’edificio realizzato nel 1894 dall’architetto Paul Wallot e il 19 aprile 1999 il palazzo, splendidamente restaurato da Sir Norman Foster, accolse la prima riunione del nuovo parlamento. La prima pietra del Reichstag, l’edificio destinato a ospitare il parlamento dell’impero, fu posata nel 1884, dopo il conseguimento dell’unità nazionale e la nascita dell’Impero Tedesco, o Reich (1871). Sotto lo sguardo attento del Kaiser Guglielmo II di Prussia, Paul Wallot – che nel 1882 si era aggiudicato il concorso per la realizzazione dell’edificio – diede forma a un edificio che univa motivi rinascimentali e classici, come la facciata con avancorpo e colonnato e la moderna cupola in vetro e acciaio. La grandiosità dell’edificio era accentuata proprio dall’avancorpo, sormontato da un timpano e con un’ampia scalinata davanti, salendo la quale si raggiungeva il grande portale d’ingresso. Complessivamente, l’edificio era costituito da quattro ali e due cortili interni, con un gran salone per le sedute plenarie. A 75 metri d’altezza, sulla cupola, spiccava la corona imperiale. Paradossalmente, subito dopo la sua costruzione, l’edificio fu criticato perché l’entrata si trovava “dalla parte sbagliata”: verso ovest, dando così le spalle al palazzo imperiale e a quello che nel 19° secolo era il centro della città. La famosa iscrizione “Dem Deutschen Volke” (al popolo tedesco), un’aggiunta di Peter Behrens del 1916, troneggia ancora sul monumentale ingresso. Nel corso del Novecento il Reichstag fu più volte danneggiato. L’incendio del 1933 distrusse quasi interamente la sala plenaria e nel 1954 si rese necessaria la demolizione della cupola. Dopo i restauri, realizzati da Paul Baumgarten e completati nel 1961, il palazzo fu utilizzato come sede del parlamento di Berlino ovest e come spazio espositivo. Si trovava allora a ridosso del Muro, a pochi passi dalla Porta di Brandeburgo. Dopo la riunificazione e il trasferimento del parlamento da Bonn a Berlino, fu necessario modernizzare la fatiscente struttura. L’architetto britannico Sir Norman Foster fu incaricato di realizzare la ciclopica opera di conversione, che fu motivo di forti controversie soprattutto quando il suo progetto iniziale, che prevedeva la realizzazione

di una sorta di baldacchino a copertura dell’intero edificio, fu scartato nel 1995. Il parlamento federale approvò invece un progetto più conservativo che comportava la ricostruzione della cupola originale, rivisitata in chiave moderna. La nuova cupola, detta anche “lanterna”, con il suo cono centrale, è una struttura tecnologicamente avanzata, in grado di riflettere e ottimizzare la luce naturale e di controllare la penetrazione del calore. Di notte riflette all’esterno la luce interna, dando così modo ai berlinesi di sapere se il Bundestag è riunito. Per questi motivi la cupola è forse l’elemento visivamente e tecnicamente più sorprendente dell’edificio. Sul tetto sono sistemati pannelli solari che alimentano il sistema di ventilazione dell’aria. L’elettricità è ricavata invece bruciando olio vegetale, mentre il calore in eccesso è deviato in un bacino d’acqua sotto l’edificio, utilizzato d’inverno per il riscaldamento. Il Reichstag è stato più volte il palcoscenico di eventi fondamentali della storia tedesca, come la proclamazione della Repubblica (1918) – da parte del socialdemocratico Philipp Scheidemann – dopo l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II e la fine della monarchia. Nel 1933 il Reichstag fu incendiato, evento che diede a Hitler il pretesto per dichiarare lo stato d’emergenza. La fine della Seconda guerra mondiale, nel maggio del 1945, fu immortalata dalle immagini del fotografo della TASS Yevgeny Khaldei, che mostravano i soldati dell’Armata Rossa che brandivano eroicamente la bandiera con la falce e il martello sul parapetto pericolante dell’edificio; l’immagine si rivelò poi un falso, frutto di un fotomontaggio realizzato settimane più tardi e arricchito di nubi e fumo per dare all’insieme un tocco di spettacolarità. Qui, il 3 ottobre 1990, si tenne la cerimonia ufficiale della riunificazione della Germania. Nel 1995, invece, milioni di persone affluirono a vedere il palazzo “impacchettato” in tela argentata dall’artista di origini bulgare Christo e dalla moglie Jeanne-Claude, noti per le loro effimere opere su monumenti e paesaggi. La magia dell’opera, che rendeva ancora più evidenti le forme e le proporzioni del palazzo, durò due settimane. Dopo iniziarono i lavori di restauro. La visita del Reichstag è un must. I visitatori possono salire in cima al palazzo e raggiungere la terrazza panoramica, da dove si gode una spettacolare vista sul parco del Tiergarten e sull’intera città e si può meglio apprezzare la cupola e il suo “light sculptor”, il cono di luce che la attraversa. L’ascensore che porta alla cupola è in funzione dalle 8:00 alle 22:00 mentre la piattaforma panoramica resta aperta fino alle 24:00. Ci sono spesso file all’ingresso principale per accedere agli ascensori, mentre un ingresso speciale è riservato a persone con disabilità, a chi ha una prenotazione al ristorante o a chi è accompagnato da bambini piccoli. Il personale indirizza con cortesia i visitatori nella giusta direzione.

Il quartiere di Charlottenburg è l’anima di Berlino, la sua parte più elegante e cosmopolita. Si trova a ovest del parco Tiergarten ed è bagnato dal fiume Sprea e dal Landwehrkanal.

Lo Schloss Charlottenburg era la maestosa residenza estiva dei re di Prussia e nelle storiche strade del quartiere, come la Kurfurstendamm (o Ku’damm come solitamente viene chiamato), i turisti adorano passeggiare, tra importanti ristoranti, negozi e gallerie d’arte.

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Costruito nel 1699 da Federico III come residenza estiva per la consorte Sofia Carlotta, questo splendido palazzo, che è il più grande di Berlino, è incorniciato da un giardino barocco. L’interno ospita la più importante collezione di pittura francese del Settecento al di fuori della Francia. È possibile visitare il Palazzo Antico (con le sue stanze barocche, gli appartamenti reali, la collezione di porcellane cinesi e giapponesi, le argenterie) e l’Ala Nuova, con gli eleganti arredi e decori in stile rococò voluti da Federico il Grande (Federico II di Prussia). Il complesso è stato ampliato diverse volte, con l’aggiunta di una torre sormontata da una cupola e da una statua della dea Fortuna, di alcune ali laterali, del giardino d’inverno e della sala per il tè Belvedere, che oggi è un museo della porcellana. Meritano una visita anche il mausoleo della regina Luisa di Prussia e il padiglione Schinkel, costruito come residenza estiva per Federico Guglielmo II.

Il palazzo fu gravemente danneggiato durante la Seconda guerra mondiale e fu poi ricostruito a partire dagli anni Cinquanta. L’ex teatro del palazzo ospita oggi il Museo della preistoria e dell’antichità, che custodisce tesori provenienti dai famosi scavi di Troia eseguiti da Schliemann nell’Ottocento. I biglietti per ciascun museo sono venduti separatamente, mentre nel parco l’accesso è libero. Nell’Ala Nuova sono anche disponibili audio guide.

Di fianco al palazzo, il bar-ristorante Kleine Orangerie ha un atrio luminoso e posti a sedere all’aperto nella bella stagione; è un luogo ideale per una breve sosta o per un pranzo. Nell’edificio più grande, la Grosse Orangerie, da aprile a ottobre vengono organizzati concerti di musica classica e concerti di musiche del Seicento e del Settecento eseguiti da orchestrali in abito d’epoca.

Museumsinsel

Museumsinsel, l’isola dei musei, è il cuore di Berlino ed è uno dei complessi museali più importanti del mondo. In quest’isola, tra il fiume Sprea e il canale Kupfergraben, si trovano ben cinque grandi musei di fama mondiale e, nel 1999, Museumsinsel è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Altes Museum, Neues Museum, Alte Nationalgalerie, Pergamonmuseum e Bode Museum sono delle vere e proprie stanze del tesoro: le raccolte archeologiche e le prestigiose collezioni di opere d’arte svelano la storia e la bellezza di antiche civiltà, come quella mesopotamica, egizia, greca, romana, bizantina, islamica e medioevale.

Oltre ai cinque musei, sulla Museumsinsel si trovano anche il Berliner Dom, la bellissima cattedrale di Berlino, il Palast der Republik, il palazzo della Repubblica dalla magnifica facciata di vetro color rame, il palazzo dell’ex Staatsrat, l’ex Consiglio di Stato e la Biblioteca degli archivi municipali, presso Fischerinsel, l’isola dei pescatori, l’autentico nucleo della città di Berlino. L’isola dei musei si raggiunge attraversando lo Schlossbrucke, il ponte del castello ornato di statue.

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Il Museo di Pergamo, famoso in tutto il mondo per la sua collezione archeologica, è una delle attrazioni più popolari della città. Situato all’interno dell’Isola dei musei, comprende tre diverse realtà: la Collezione delle antichità classiche (in mostra anche nell’Altes Museum), il Museo delle antichità del vicino Oriente e il Museo di arte islamica. Il museo colpisce soprattutto per la monumentalità delle opere esposte al suo interno. Della Collezione delle antichità classiche fa parte l’altare di Pergamo, risalente al II secolo avanti Cristo e considerato uno dei principali capolavori di epoca ellenistica. Il fregio raffigura la battaglia tra dei e giganti.  La Porta di Mileto rappresenta invece un importante esempio di architettura Romana.  

Il Museo dell’antichità del vicino Oriente vanta forse la più ricca collezione di tesori provenienti da questa regione. È dominato dall’imponente ricostruzione della Porta di Ishtar, il grandioso portale interamente ricoperto con tasselli di ceramica blu, che nel VI secolo a.C. dava accesso alla città di Babilonia.pergamon_museum_berlin_germany

Le mura sono decorate con leoni, draghi e tori, i simboli delle principali divinità babilonesi. Sul fondo, attraverso una parete trasparente, i visitatori possono comprendere come è stato possibile ricostruire la grande struttura a partire da piccoli frammenti. Altri importanti elementi della collezione sono la facciata della sala del trono di re Nabucodonosor, la ricostruzione di un palazzo assiro del XII secolo a.C. e manufatti risalenti all’epoca della nascita della scrittura. Il Museo d’arte islamica nacque nel 1904 grazie alla donazione, da parte di Wilhelm von Bode, di una serie di preziosi tappeti provenienti da Iran, Asia minore, Egitto e Caucaso, che ancora rivestono un ruolo importante all’interno del museo. Altri elementi di spicco della collezione d’arte, che spazia dall’VIII al XIX secolo, sono la stanza di Aleppo, ovvero la vivace ricostruzione della camera di un mercante siriano della città di Aleppo nel XVII secolo, dipinta con versetti arabi e persiani e motivi di piante, creature mitologiche e figure umane. Il museo di Pergamo resterà aperto durante ogni fase della ristrutturazione attualmente in corso.

Il Neues Museum

Il museo che racconta la storia del mondo

Dopo 10 anni di ricostruzione il Neues Museum è tornato allo splendore originario: oggi è un museo degno di ospitare le favolose opere del del Museo Egizio, la Collezione dei Papiri, il Museo della Preistoria e diverse opere della Collezione di Antichità Classica.

Il Museo Egizio e La Collezione di Papiri

La collezione del Neues Museum è una delle più importanti del mondo. Tante le opere da vedere: tombe, busti, reperti di templi, anche se l’attenzione dei visitatori corre subito verso il busto della Regina Nefertiti, a cui è dedicata un’intera stanza del Livello 2. Il busto in pietra di Nefertiti fu creato intorno al 1340 a.C dallo scultore di corte Thutmose. L’opera d’arte, una delle più belle che l’Egitto antico ci ha lasciato, è arrivata intatta fino a noi senza essere mai stata toccata. I colori e gli stucchi sono originali e conferiscono al volto della regina un’espressione al di là del tempo. Si ritiene che il busto dovesse servire come modello per tutti gli artisti che volevano riprodurre il volto della regina. L’assenza dell’occhio sinistro, che l’artista non ha fatto in tempo a completare, non toglie nulla alla bellezza di questo volto.

 Tra gli oggetti del Museo Egizio che meritano una visita ci sono la scultura definita la “Testa verde di Berlino” e il “Volto della Regina Tiye“.

Una bellissima e affascinante panoramica sulla Preistoria europea che permette di scoprire oggetti di cui abbiamo sentito parlare solo nei libri di scuola: gli oggetti trovati da Schliemann a Troia, il teschio dell’Uomo di Neanderthal trovato a Le Moustier e lo spettacolare Cappello d’Oro dell’Età del Bronzo.

Informazioni per la visita al Neues Museum

Orari di apertura: il Neues Museum è aperto tutti i giorni dalle 10 del mattino alle 16.

Il giovedì, venerdì e sabato fino alle 20. Costo del biglietto: 10 €

Berliner Dom

 

Il Duomo di Berlino, completato nel 1905, è il più grande luogo di culto protestante della città, luogo di sepoltura della famiglia reale prussiana degli Hohenzollern. Questo meraviglioso monumento, pomposo richiamo al Rinascimento italiano, ha unito per secoli la corte prussiana degli Hohenzollern al protestantesimo tedesco ed è stato più volte rimaneggiato, a partire dal Medioevo.

Dove oggi sorge il Duomo, infatti, già dal 1465 esisteva una cappella di Corte. La costruzione del Duomo iniziò invece nel 1747 e fu completata nel 1905 sotto il Kaiser Guglielmo II. Gravemente danneggiato durante la guerra, l’edificio rimase chiuso durante gli anni della Repubblica Democratica e fu riaperto solo nel 1993, a seguito dei restauri. La “vecchia” cattedrale del Lustgarten fu costruita tra il 1747 e il 1750, all’epoca di Federico il Grande (1740-1786), sotto la direzione di Johann Boumann, che realizzò un monumento barocco, coerente con il progetto di Knobelsdorff. Tra il 1817 e il 1822 l’edificio fu rimaneggiato dall’architetto Karl Friedrich Schinkel, pur conservando una certa somiglianza con lo stile alto-rinascimentale della cattedrale romana di San Pietro. Infine, nel 1885 , Julius Raschdorff presentò a Federico Guglielmo IV un progetto che mirava a “riconciliare” i diversi stili. Quando, nel 1888, salì al trono Guglielmo II, questi autorizzo la demolizione della “vecchia” cattedrale, dando il via, nel 1893, alla realizzazione della grandiosa struttura che vediamo oggi. Gravemente danneggiato durante la guerra, il Duomo è rimasto chiuso fino al 1993, mentre i restauri sono proseguiti fino al 2006, quando sono stati resi visibili anche gli otto mosaici della cupola. La struttura esterna della cupola è stata ricostruita, con alcune semplificazioni, tra il 1975 e il 1982. Durante gli anni della divisione, i parrocchiani – oltre 12,000 nel diciannovesimo secolo – furono ripartiti tra due diverse parrocchie. Solo nel 1980 fu di nuovo possibile celebrare qui le messe, i battesimi e i funerali. Nella cripta del Duomo è sepolta la famiglia reale degli Hohenzollern (oltre 90 tra tombe e sarcofagi). Tra questi spiccano i monumenti funerari dei re prussiani; quelli di Federico I e della sua seconda moglie Sofia Carlotta, ricoperte da un bagno d’oro, sono opera di Andreas Schlüter. Tra le altre opere d’arte merita attenzione la fonte battesimale di Christian Daniel Rauch e il mosaico di Pietro di Guido Reni. L’organo, con oltre 7000 canne, è uno dei più grandi del Paese. Salendo i 270 gradini che portano alla galleria panoramica, a 114 m d’altezza, è possibile godere della vista su Mitte e apprezzare da vicino le decorazioni che rievocano eventi del Nuovo Testamento e del periodo della Riforma. Nel duomo si tengono anche concerti e incontri. Sono disponibili audioguide in tedesco, inglese, italiano e spagnolo (il cui prezzo è compreso nel biglietto d’ingresso) e visite guidate.

Trasporti

Rete berlinese diS-Bahn e U-Bahn

Berlino ha una rete di trasporti pubblici estesa e molto funzionale. Anche il traffico privato è molto scorrevole. Il sistema di trasporto pubblico si articola in diversi mezzi, fra essi complementari, tutti gestiti dalla BVG (Berliner Verkehrsbetriebe Gesellschaft) ad eccezione della S-Bahn, comunque integrata in un sistema tariffario unico.

S-Bahn ed U-Bahn La rete ferroviaria metropolitana si articola su due reti (S- ed U-Bahn) che insieme coprono capillarmente la superficie cittadina. Successivamente alla riunificazione della città (1990) i lavori di ricucitura della rete furono completati in pochi anni.

  • La S-Bahn è un servizio ferroviario suburbano, prevalentemente di superficie, con tracciati spesso paralleli (ma autonomi) a quelli delle ferrovie nazionali della Deutsche Bahn. La rete, composta da 15 linee (di cui due circolari, le Ringbahn), fra loro sovrapposte nelle tratte centrali, copre tutta la città ed i dintorni: fra le città servite vi sono Potsdam, Strausberg, Oranienburg, Bernau e Königs Wusterhausen. La compagnia che la gestisce è la S-Bahn Berlin GmbH, parte del gruppo Deutsche Bahn. La sua storia inizia nel 1882, con l’inaugurazione della Stadtbahn, per poi incrementare il suo sviluppo con l’elettrificazione, a partire dalla metà degli anni venti.
  • La U-Bahn è la metropolitana, prevalentemente sotterranea e costituita da 10 linee: U1, U2, U3, U4, U5, U6, U7, U8, U9 e U55. La rete, sviluppatasi a partire dal 1902, è una delle più antiche del mondo, dopo quella di Londra, Budapest e Glasgow. È gestita dalla compagnia cittadina BVG ed è particolarmente sviluppata nelle zone centro-occidentali della città. Sono allo studio numerosi progetti di espansione, tra cui il prolungamento della U5 verso la stazione centrale, parzialmente realizzato. Il principale dei problemi nei ritardi dell’ampliamento della rete è comunque dovuto alla situazione finanziaria del comune.berlino-metro

Tram, autobus e traghetti

  • La rete tranviaria berlinese conta 22 linee urbane (quasi tutte nella zona orientale) e 2 extraurbane (verso Schöneiche, Rüdersdorf e Woltersdorf). La rete occidentale venne soppressa negli anni cinquanta e sessanta; di essa è stata ricostruita una sola linea, che attraversa i quartieri di Gesundbrunnen e Wedding. Tuttavia la rete è continuamente interessata da vari e piccoli progetti di ampliamento, alcuni realizzati ed altri allo studio. Inoltre nel 2005 la rete venne completamente riorganizzata con l’istituzione delle linee MetroTram (M).
  • Gli autobus contano un’estesissima rete, composta da linee ordinarie (Bus), MetroBus (M) ed espresse (X). Vi sono poi le linee notturne (N).
  • I traghetti di servizio pubblico contano 10 linee, tutte periferiche, che attraversano la Sprea ed altri fiumi e laghi. Sono concentrate a sud-est (Treptow-Köpenick), ma la linea più lunga si trova nella zona sud-occidentale, tra Wannsee e Kladow.

 

Berlino nei film

Piazza Gendarmenmarkt, il ponte Oberbaumbrücke, la via Friedrichstraße, la Staatsbibliothek (“Biblioteca di Stato”): tutti questi luoghi hanno fatto già da sfondo a numerosi film. Non sempre, però, questi posti si potevano riconoscere come località berlinesi: essi, infatti, sono stati trasformati in borse londinesi (Il giro del mondo in 80 giorni), in strade di Mosca (The Bourne Supremacy) oppure in café parigini (Inglourious Basterds, “Bastardi senza gloria”). Il ponte Oberbaumbrücke, tra il quartiere di Kreuzberg e di Friedrichshain, era parte del percorso del film Lola rennt (“Lola corre”), lungo il quale Franka Potente corre a perdifiato. Nel thriller attuale Unknown (“identità sospette”), il taxi guidato da Diane Kruger si precipita dal ponte Oberbaumbrücke nel fiume Sprea. In questa pellicola si svolge anche un inseguimento in auto per la via Friedrichstraße e si verifica un’esplosione nel lussuoso hotel Adlon. Si presenta con una carica esplosiva anche The International diretto da Tom Tykwer, la cui prima scena è ambientata alla stazione centrale. Per questo thriller finanziario, il complesso di edifici Sonycenter situato a Potsdamer Platz è stato trasformato nella sede di una banca di Bruxelles.

Nel film Der Himmel über Berlin (“Il cielo sopra Berlino”),  l’angelo Bruno Ganz è seduto sulla colonna trionfale e domina con lo sguardo sulla Berlino ancora divisa; la scena iniziale incisiva si svolge nella Staatsbibliothek (“Biblioteca di Stato”) nella zona del Tiergarten. Nel 2005 le profondità misteriose del giardino zoologico e la Potsdamer Platz hanno fatto da sfondo a Gespenster (“Ghosts”) di Christian Petzold.

La commedia berlinese diretta da Billies Wilder Uno, due, tre! è ambientata all’aeroporto di Tempelhof e alla Porta di Brandeburgo che, tuttavia, si è dovuta riprodurre a Monaco a causa della costruzione del muro. Nella via Wedekindstraße, nel quartiere Mitte, si trova l’appartamento dello scrittore protagonista del film Das Leben der Anderen (“Le vite degli altri”). Il film nominato all’Oscar diretto da Florian Henckel von Donnersmarck si ambienta nella Berlino ai tempi della DDR. In questa pellicola, anche il Volksbühne (“teatro popolare”) e l’ex libreria Karl-Marx-Buchhandlung sono stati luoghi delle riprese.

La celebre gita in barca dal film Die Legende von Paul und Paula (“La leggenda di Paolo e Paola”) ha reso la baia di Rummelsburg così famosa che il tratto di sponda è stato ribattezzato “riva di Paolo e Paola” e vi è stata collocata una panchina per gli innamorati. Il parco dei divertimenti chiuso Spreepark costituisce la cornice perfetta per l’ambiente tenue e fiabesco del film Wer ist Hanna? (“Hanna”).

Berlino: I Migliori 5 Ristoranti Economici in Cittá

LEMONGRASS (Friedrichshain)

Solo due parole su Friedrichshain.

Zona adiacente alla piú rinomata Kreuzberg, dalla caduta del muro, come molte altre zone di Berlino Est, anche Friedrichshain è diventato un quartiere giovane e dinamico frequentato da artisti e studenti e questo ha contribuito a mantenere i prezzi degli affitti e della vita in genere alla portata di tutti.

Qui troverete Lemongrass un ristorante Thailandese di qualitá ed economico binomio che contribuisce al fatto che sia sempre molto affollato unica pecca del posto.

Il menu propone classici piatti della tradizione Thai potrete scegliere perció tra vari tipi di curry, zuppe o noodles.

La cucina asiatica offre un’ampia scelta di piatti vegetariani perció se lo siete Lemongrass potrebbe decisamente fare al caso vostro.

Consiglio di cercare di prendere un posto nei tavolini fuori, soprattutto in questa stagione vi godrete la vostra cena e nello stesso tempo potrete dare uno sguardo al via vai di persone eccentriche che frequentano Friedrichshain.

il conto? se farete i bravi col bere non piú di €10.

FREISCHWIMMER(Vor dem Schlesischen Tor 2a, 10997- Kreuzberg)

siete venuti a Berlino ed ovviamente vorrete anche assaggiare la tipica cucina tedesca.

Questo è il ristorante giusto, cucina assolutamente tradizionale a prezzi assolutamente non turistici.

Freischwimmer è situato a Kreuzberg e perció vale lo stesso discorso fatto per Friedrichshain:

Altro vantaggio del ristorante è la posizione con vista sul canale, cercate perció di sedetevi all’aperto: a Belino non ci sono le zanzare!!!

Passando al menu troverete tradizionali piatti tedeschi dai nomi impronunciabili ed ovviante anche una selezione di Wrust le immancabili salsicce, ottime ma per i wrust vi diró di seguito il posto migliore di Berlino dove mangiarli qui vi consiglio di ordinare qualcos’altro.

Provate per esempio dei deliziosi Schnitzel con patate in padella.

Gli Schnitzel sono praticamente delle scaloppine di maiale impanate (tipo cotoletta alla milanese) solitamente serviti con dei dadini di patate spadellate con rosmarino e pepe.

spendendo circa €15/18.

Il Casolare Trattoria (Grimmstr. 30, 10967)

Se non potrete veramente fare a meno di un po’ di buona a casereccia cucina italiana andate far visita ai ragazzi del Casalore.

Questa trattoria/pizzeria è un vero e proprio pezzo d’Italia nel bel mezzo di Kreuzberg.

Vi accorgerete appena entrati che tutti parlano la nostra lingua e la maggior parte della clientela è italiana.

Siamo tutti italiani perció non mi dilungo sul menú che é lo stesso che potrete trovare in una qualsiasi trattoria in Italia.

I gestori del Casolare sono del Sud perció un occhio di riguardo è riservato alla splendida tradizione culinaria del nostro Meridione.

Io personalmente consiglio di prendere una pizza almeno da dividere, posso dire, senza paura di essere smentito, che è la miglior pizza di Berlino ed anche meglio di molte pizzerie in Italia.

I camerieri sono molto gentili e sempre pronti a dare consigli, soprattutto sul vino.

Il prezzo?

difficilmente pagherete piú di €20.

Nil Sudanese Imbiss (Grünberger Str. 52, 10245)

Il ristorante è piccolo con dei posti all’interno e dei posti fuori.

La cucina è tradizionale sudanese.

Vi sará servita per esempio la sorba una zuppa di verdure con carote, cipolle, cavolo, fagiolini burro di arachidi e succo di limone e del riso bollito o altri piatti tipici a base di manzo e pesce, ovviamente non è servita carne di maiale.

L’atmosfera a Nil Sudanese Imbiss é molto gioviale e rilassata grazie alla gentilezza dei camerieri sempre sorridenti.

Il ristorante è molto rinomato a Kreuzberg oltre che per l’ottimo cibo e l’altrettanto ottimo servizio, per il prezzo.

sará difficile arrivare a spendere €10.

CURRY 36 (Mehringdamm 36, 10961)

Per ultimo un posto che non é un vero e proprio ristorante ma un luogo dove non si puó non mangiare prima di andar via da Berlino.

Appena fuori dall’uscita del metro di Mehringdamm inizierete giá a vedere la coda di persone che sia affolla davanti a questa specie di chiosco.

A Curry 36 non avrete l’imbarazzo della scelta perché l’unica cosa che potete ordinare sono i tradizionali wrust che non avrete mai mangiato buoni come qui.

Potrete scegliere tra i 3/4 tipi tradizionali di wrust anche se, quello al curry, è decisamente la specialitá della casa.

In modo un po’ spartano il vostro wrust sará tagliato a pezzi e servito in una vaschetta con crauti (deliziosi) e patate (non sono mai abbastanza), l’unica cosa che dovrete fare è aggiungerci senza timidezza una bella spruzzata di senape.

Difficilmente, divorato il primo, non ordinerete il secondo anche perché grazie al prezzo (€3) potrete permettervelo.

Andare via da Berlino senza aver mangiato da curry wrust è come andare a Napoli senza mangiare una pizza!!

Cioccolateria “Fassbender und Rausch”

Il cioccolato tradizionale viene venduto anche in forme un po’ diverse, come, per esempio, a forma di Brandenburger Tor, Gedächtniskirche (Chiesa della Commemorazione) e Reichstag. La grande casa del cioccolato produce inoltre tutto quello per il quale vale la pena fare un peccato di gola. Si trovano qui anche i banchi di tartufo e di cioccolatini più lunghi d’Europa. Il ristorante connesso offre specialità raffinate a base di cioccolata e intrattiene grazie ad uno stravagante spettacolo al quale assistere mentre si cena.

 

Guida di Praga


Praga

« In fondo alla Moldava vanno le pietre,

sepolti a Praga riposano tre re.

A questo mondo niente rimane uguale, la notte più lunga eterna non è. »

(Bertold Brecht, Canzone della Moldava, trad. di Giorgio Strehler.)

repubblica-ceca_k7vp3_T0Praga è la capitale e la più grande città della Repubblica Ceca. Centro politico e culturale della Boemia e dello stato ceco per oltre 1100 anni, tra il XIV e il XV secolo fu anche capitale del Sacro Romano Impero. Tra i suoi soprannomi vanno ricordati La madre delle città (Praga mater urbium, o “Praha matka měst” in ceco), Città delle mille guglie (Stověžatá Praha in ceco) e Città d’Oro (Zlaté město in ceco).

Praga è un centro culturale e turistico di fama mondiale. Il suo centro storico, visitato ogni anno da più di 4 milioni di visitatori, è stato incluso nel 1992 nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.

Situata sul fiume Moldava (Vltava), conta approssimativamente 1,3 milioni di abitanti, 1,9 con l’area metropolitana.

Territorio

Praga si trova nella parte occidentale della Repubblica Ceca, al centro della regione storica della Boemia ed è attraversata dal fiume Moldava. Tra le grandi città più vicine vi sono Brno, seconda città della repubblica; Dresda e Norimberga in Germania; Linz in Austria; Breslavia in Polonia.

La città di Praga si sviluppa su nove colli: Letná, Vítkov, Opyš, Větrov, Skalka, Emauzy, Vyšehrad, Karlov e infine quello più alto, il Petřín. Per questa sua caratteristica è stata definita la Roma del Nord (Praha – Řím severu in ceco).

Clima

Il clima della città è nettamente continentale con inverni lunghi e rigidi e abbondanti nevicate (60-70 cm) che iniziano solitamente da metà Novembre. Le temperature in pieno inverno spesso sono sotto lo zero anche di giorno e le minime possono scendere fino a -20 °C. Le estati sono tiepide, talvolta calde con temperature medie attorno ai 20° ma che possono toccare i 30° durante le giornate assolate in piena stagione. Le mezze stagioni sono miti e più piovose dell’inverno.

Storia di Praga

La storia di Praga si estende su un lasso di tempo di migliaia di anni, durante il quale la città si accrebbe a partire dal Castello di Vyšehrad fino a diventare la capitale multiculturale di un moderno stato europeo, la Repubblica Ceca.

Praga antica

L’area su cui fu fondata Praga è stata sito di stanziamenti in tempi antichi fin dal Paleolitico. Intorno al 200 a.C. i Celti si erano stanziati a meridione della futura città, in uno stanziamento oggi chiamato Závist, ma in seguito vi si sovrapposero alcune tribù germaniche. Gli slavi conquistarono la zona nel IV secolo, anche se per un breve periodo la zona venne assoggettata dagli Avari.

Secondo una leggenda Praga venne fondata dalla principessa Libuše e da suo marito Přemysl, il fondatore della dinastia con il medesimo nome. Anche se la leggenda viene considerata un semplice racconto, il primo nucleo di Praga venne fondato nel’ultima parte del IX secolo come un castello su una collina che controllava la riva destra della Moldava, questo castello viene conosciuto oggi come Vyšehrad (“castello alto”) per differenziarlo dall’altro castello che venne eretto sulla riva opposta, il futuro Castello di Praga (Pražský Hrad). In seguito la città divenne la sede del Re di Boemia. Fu un importante centro per i mercanti che venivano da tutta Europa, inclusi molti ebrei, come tramanda il mercante ebreo Ibrahim ibn Ya’qub. La città divenne un vescovato nel 973.

Il re Vladislao II costruì un primo ponte sulla Moldava nel 1170, il Ponte Giuditta, che crollò nel 1342. Il Ponte Carlo (Karlův most) venne costruito in seguito sulle fondamenta del precedente ponte.

Nel 1257, sotto il re Ottocaro II, venne fondata Malá Strana (“Piccola Parte”) nella futura zona Hradčany: era il distretto per la popolazione tedesca. Questa parte di popolazione aveva il diritto di amministrarsi legislativamente in modo autonomo. Il nuovo distretto si trovava sulla riva opposta allo Staré Mesto (“Città Vecchia”), che godeva dello status di comune ed era difesa da una linea di mura e fortificazioni.

L’era di Carlo IV

La città fiorì durante il XIV secolo, durante il regno di Carlo IV della nuova dinastia dei Lussemburgo. Egli ordinò la costruzione della Città Nuova (Nové Město), adiacente alla Città Vecchia. Il Ponte Carlo venne costruito per collegare il nuovo distretto a Malá Strana. I monumenti fatti costruire da Carlo IV includono la Cattedrale di San Vito, la più antica cattedrale gotica nell’Europa centrale, che si trova all’interno del castello, e l’Università Carlo IV; quest’ultima è la più antica università dell’Europa centrale. A quel tempo Praga era la terza città per grandezza in Europa e sotto Carlo IV era l’effettiva capitale del Sacro romano impero, e quindi venne elevata al grado di arcivescovato. Possedeva una zecca, ed erano presenti mercanti e banchieri tedeschi e italiani e ospitava un’ampia e attiva comunità ebraica di circa 15.000 persone, il 30% cioè dell’intera popolazione urbana. L’ordine sociale, comunque, divenne sempre più turbolento, a causa del potere crescente della corporazione degli artigiani (spesso lacerata anche da lotte interne) e dalla presenza di un crescente numero di poveri.

Durante il regno di Venceslao IV (1378-1419) Jan Hus, un teologo e lettore dell’università, tenne le proprie prediche e sermoni a Praga. Dal 1402 si riunì con i suoi seguaci nella Cappella di Betlemme, parlando in ceco per aumentare il più possibile la diffusione delle sue idee sul rinnovamento della chiesa. Essendo diventato troppo pericoloso per lo status quo politico e religioso Hus venne bruciato sul rogo a Costanza nel 1415. Quattro anni dopo Praga fu testimone della prima defenestrazione, quando la gente si ribellò sotto il comando del prete Jan Želivský e scaraventò dalla finestra del Consiglio della Città Nuova i tre consiglieri della città. La morte di Hus aveva dato inizio alle cosiddette guerre hussite. Nel 1420 i contadini ribelli, guidati dal famoso generale Jan Žižka, insieme alle truppe ussite da Praga, sconfissero il re boemo Sigismondo, nella Battaglia della Collina di Vítkov.

Nei seguenti due secoli Praga continuò a giocare il ruolo di città mercantile. Vennero eretti notevoli edifici gotici, inclusa la Sala Vladislao del Castello di Praga.

L’era asburgica

Nel 1526 il Regno di Boemia cadde sotto il dominio della Casata degli Asburgo; il fermo cattolicesimo dei suoi membri ebbe gravi conseguenze in Boemia, e quindi a Praga, dove le idee protestanti stavano avendo un notevole successo. Questi problemi non erano preminenti sotto l’imperatore Rodolfo II, eletto Re di Boemia nel 1576, il quale scelse Praga come sede. Scelse come dimora il Castello di Praga dove mise insieme la propria bizzarra corte di astrologi, maghi e altre strane figure. Rodolfo era un amante dell’arte e Praga divenne la capitale della cultura europea. Questo fu un periodo prospero per la città: tra le persone famose che vissero in città in quel periodo c’erano gli astronomi Tycho Brahe e Keplero, il pittore Arcimboldo e altri.

Nel 1618 la famosa defenestrazione di Praga provocò la guerra dei trent’anni. Ferdinando II di Asburgo venne deposto, ed il suo posto di Re di Boemia venne preso da Federico V del Palatinato. Ma l’esercito ceco venne pesantemente sconfitto nella Battaglia della Montagna Bianca (1620), non lontano dalla città, ed in seguito Praga e la Boemia vissero un duro periodo in cui la tolleranza religiosa venne abolita e la Controriforma cattolica divenne dominante in ogni aspetto della vita comune. Nel 1621 ci fu un’esecuzione di 27 nobili cechi (coinvolti nella battaglia della Montagna Bianca) nella Piazza della Città Vecchia. La città soffrì anche dell’occupazione sassone (1631) e svedese (1648). Inoltre, dopo la Pace di Westfalia dell’anno successivo, Ferdinando spostò la corte a Vienna, e Praga iniziò un lento declino che ridusse la popolazione dai 60.000 dell’anteguerra a 20.000.

Nel 1689 un grande incendio devastò Praga, ma ciò diede l’inizio per un rinnovamento e una ricostruzione della città. La crescita economica continuò per tutto il secolo successivo e la città nel 1771 aveva 80.000 abitanti. Molti di questi erano ricchi mercanti, che, insieme ai nobili di origine tedesca, spagnola e anche italiana, arricchivano la città di palazzi, chiese e giardini creando uno stile barocco rinomato in tutto il mondo. Nel 1784, sotto Giuseppe II, le quattro municipalità di Malá Strana, Nové Město, Staré Město e Hradčany vennero fuse in una singola entità. Il quartiere ebraico, chiamato Josefov, venne incluso solo nel 1850. La rivoluzione industriale ebbe un forte effetto su Praga, poiché le industrie potevano sfruttare le miniere di carbone e di metallo della regione circostante. Un primo sobborgo, Karlín, venne creato nel 1817, e venti anni dopo la popolazione superò i 100.000 abitanti. La prima ferrovia venne costruita nel 1842.

Le rivoluzioni che attraversarono tutta l’Europa intorno al 1848 interessarono anche Praga, ma vennero represse con la forza. Negli anni successivi, il movimento nazionalista ceco (opposto ad un altro partito nazionalista, quello tedesco) cominciò la sua ascesa, finché non guadagnò la maggioranza nel Consiglio Cittandino del 1861.

XX secolo

All’inizio del XX secolo i territori cechi rappresentavano la parte più produttiva dell’Impero Austro-Ungarico ed alcuni politici cechi cominciarono alcuni tentativi di separare la propria nazione dall’impero asburgico.

Prima Repubblica

La prima guerra mondiale terminò con la sconfitta dell’Impero asburgico e la creazione della Cecoslovacchia. Praga venne scelta come capitale del nuovo stato e il Castello come sede del presidente (Tomáš Masaryk). A quel tempo Praga era una vera capitale europea, con un’industria altamente sviluppata. Nel 1930 la popolazione aveva raggiunto gli 850,000 abitanti.

Seconda guerra mondiale

Hitler ordinò all’esercito tedesco di entrare a Praga il 10 marzo 1939 e dal Castello di Praga proclamò la Boemia e la Moravia un protettorato tedesco. Per la maggior parte della sua storia Praga è stata una città multietnica con consistenti parti di popolazione ceca, tedesca ed ebraica (per lo più yiddish o germanofona). Dal 1939 quando il paese venne occupato dai nazisti, e durante la seconda guerra mondiale, la maggior parte degli ebrei fuggirono dalla città o vennero uccisi nell’Olocausto. La popolazione tedesca, di cui consisteva la maggior parte della popolazione durante il XIX secolo, venne espulsa nell’immediato dopoguerra.

Nel 1942 Praga fu testimone dell’assassinio di uno dei più importanti uomini della Germania Nazista, Reinhard Heydrich. Hitler ordinò sanguinose rappresaglie. Verso la fine della guerra Praga subì un attacco aereo delle forze aree americane per sbaglio (l’obiettivo era Dresda, a 130 km di distanza). Centinaia di persone vennero uccise ed alcuni importanti edifici e industrie vennero distrutte. Praga si rivoltò di nuovo contro gli occupanti nazisti il 5 maggio 1945. Quattro giorni dopo l’Armata rossa entrò in città. In seguito si ebbero degli episodi di vendetta contro la minoranza tedesca della città e molti cittadini tedeschi vennero uccisi dalle milizie ceche fino a che il governo non pose lentamente fine a questi atti vendicativi. I tedeschi sopravvissuti vennero deportati da Praga in Germania Ovest.

Praga durante la Guerra fredda

Praga rimase, dopo la seconda guerra mondiale, sotto il più ferreo controllo politico e militare dell’Unione sovietica (Cortina di ferro).

Il mondo intellettuale praghese, da sempre vivace, soffrì pesantemente del regime totalitario. Nel Quarto Congresso degli Scrittori Cecoslovacchi tenuto in città nel 1967, questi ultimi presero posizione contro il regime. Ciò spinse il nuovo segretario del partito comunista, Alexander Dubček a proclamare una nuova riforma nella vita della sua città e del suo paese, cominciando la breve stagione del “socialismo da un volto umano”. Era la Primavera di Praga, che alimentò le speranze di rinnovamento delle istituzioni verso un percorso democratico. L’Unione sovietica ed i suoi alleati reagirono con l’invasione della Cecoslovacchia e della sua capitale nell’agosto del 1968 con 7000 carri armati, soffocando nel sangue ogni tentativo di innovazione.

Il periodo dopo la Rivoluzione di velluto

Nel 1989, dopo che la polizia respinse in modo violento una manifestazione studentesca pacifista, la Rivoluzione di velluto affollò le strade di Praga e la capitale ceca beneficiò molto del nuovo sistema. Nel 1993, dopo la suddivisione della Cecoslovacchia, Praga divenne capitale della neonata Repubblica ceca. Alla fine degli anni novanta Praga ridiventò un importante centro culturale europeo ed è stata notevolmente influenzata dalla globalizzazione. Nel 2000 si ebbero proteste anti-globalizzazione in città (circa 15000 manifestanti) che sfociarono in episodi violenti durante il summit della Banca Mondiale.

Praga ha sofferto una grossa inondazione causata dalla Moldava nel mese di Agosto dell’estate del 2002, durante la quale parti della città sono state evacuate. L’inondazione ha causato molti danni, ma fortunatamente senza distruggere nessuna delle bellezze principali. La reazione della città a questa terribile disgrazia è stata tanto veloce quanto intelligente: innanzitutto dopo un solo anno quasi tutte le zone colpite sono state ristrutturate e in contemporanea è stato progettato e realizzato un piano di emergenza mirato ad evitare il ripetersi di una simile o peggiore catastrofe: la pavimentazione adiacente gli argini del fiume nei pressi della “Città Vecchia” è stata predisposta in modo tale da poter, in caso di necessità, erigere dinamicamente e rapidamente delle grosse lastre molto alte e concatenabili affinché possa venire salvaguardato e protetto da una seconda eventuale inondazione tutto l’immenso patrimonio storico e artistico che il cuore della “Città Vecchia” custodisce, contenendo un ipotetico straordinario straripamento del fiume.

Oggi Praga è una nota città turistica, visitata annualmente da circa 6.000.000 di persone. Ci sono molte case antiche, alcune delle quali con splendidi murali. Possiede una delle più variegate collezioni di architettura del mondo, dall’art nouveau al barocco, cubismo, gotico, neoclassico e ultramoderno.

Staré MěstoPrague_Old_Town_Square_Church_of_Our_Lady

La Città Vecchia (in lingua ceca: Staré Město) è un quartiere della città di Praga, nella Repubblica Ceca.

Storia

Subito dopo la zona del Castello e Malà Strana, la parte di Praga che cominciò ad essere popolata fu Staré Město, la Città Vecchia. Nel corso del XII secolo si stabilirono in questa parte della città italiani, ebrei, tedeschi, borgognoni.

Nel XIV secolo, Carlo IV del Sacro Romano Impero espanse ulteriormente la città con la fondazione della Città Nuova: le due parti della città ai tempi erano socialmente e praticamente abbastanza divise e diverse dato che pare che quest’ultima zona fosse all’epoca abitata dalla parte di popolazione meno abbiente ed era separata dalla Città Vecchia, Mala Strana e dal Castello Praghese da uno grosso fossato.

Oggi è possibile identificare idealmente un tratto di quel fossato nella via Na Příkopě, termine che tradotto in lingua italiana indica per l’appunto via “della fossa” o anche “del fossatello”.

A poche decine di metri da via Na Příkopě, non a caso, si trova la stazione di linea metropolitana “Mustek”. Il termine “mustek” infatti si può tradurre come il “Ponticello”. Proprio in quel punto si trovava il ponte sul fossato che poteva dare l’accesso alla meravigliosa città di Praga, destinata generalmente solo ai ricchi e ai nobili del tempo.

La Staroměstské náměstí (Piazza della Città Vecchia) è una piazza di Praga, che si trova proprio nella Città Vecchia.

Oggi la piazza è uno dei luoghi turistici più importanti di Praga. Infatti su di essa si affacciano numerosi edifici importanti: la Chiesa di San Nicola, Palazzo Kinský, il Municipio della Città Vecchia con il suo famoso orologio astronomico, la Chiesa di Santa Maria di Týn. Oltre a questa serie di edifici, vi sono numerose case romaniche e gotiche, con suggestive decorazioni; la Casa alla campana di pietra è in stile rococò. Al centro della piazza si trova il monumento dedicato a Jan Hus, posto nella piazza in occasione del 500º anniversario della morte.

Sui lati sud ed ovest si affacciano edifici in stile barocco, come la Casa all’ariete di pietra e la Casa Štorch, oltre a molte altre pittoresche case d’epoca (alla volpe rossa, Ochs e Da Lazzaro).

Chiesa di San Nicola (Città Vecchia di Praga)chiesa_san_nicola_praga

La Chiesa di San Nicola è situata a Praga, nella Città Vecchia. Essa si può confondere con l’omonima situata nel Piccolo Quartiere, è la maggiore della città dopo la Cattedrale di San Vito.

Fin dal XII secolo in questo luogo sorgeva un tempio che aveva il ruolo di chiesa parrocchiale della Città Vecchia fino al XIV secolo, allorché fu portata al termine la Chiesa di Santa Maria di Týn. Dopo la Battaglia della Montagna Bianca nel 1620, essa divenne parte di un monastero benedettino. L’edificio attuale, di Kilian Ignaz Dientzenhofer, fu terminato nel 1735. La chiesa fu spogliata nel 1781, quando Giuseppe II fece chiudere tutti i monasteri che non svolgevano attività socialmente utili.

Durante la Prima guerra mondiale la Chiesa di San Nicola fu usata come guarnigione di stanza a Praga, ma il colonnello che la comandava approfittò dell’occasione per restaurarla. La cupola è affrescata con le vite di San Nicola e San Benedetto, opera di Kosmas Damian Asam.

La Chiesa di San Nicola è una delle più antiche della Città Vecchia di Praga, si trova infatti citata nei documenti storici già a partire dal 1273. La facciata della chiesa era originariamente rivolta verso la piccola piazza chiamata “mercato dei polli” ed era circondata da edifici, demoliti col passare del tempo, quindi la sua attuale collocazione nella Piazza della Città Vecchia (in ceco Staroměstské náměstí) influenza negativamente l’effetto visivo finale, dato che la struttura non era stata progettata per una visione a lunga ditanza.

Kilián Ignác Dienzenhofer, dovendo reagire allo spazio ristretto che aveva a disposizione, concepì la chiesa come il corpo centrale allungato di una pianta a croce, sormontato da una cupola poggiante su un tamburo ottagonale. La Chiesa di San Nicola è una delle sue migliori realizzazioni e lo spazio interno dell’edificio, creato in modo complesso con uno strano gioco di luci e una pittoresca plasticità, rappresenta uno dei più suggestivi interni sacri praghesi.

Secoli XVII e XVIII

Nel 1635 la chiesa passò ai benedettini del convento di Emmaus, chiamato Na Slovaneč, i quali vi edificarono gradualmente il loro centro religioso. Dopo la costruzione del convento venne iniziata la costruzione della nuova chiesa, realizzata in forme rudimentali dal 1727 al 1735, consacrata nel 1737 e portata al termine nel 1739, seguendo il progetto elaborato da Kilián Ignác Dienzenhofer, il più famoso architetto del barocco praghese.

La decorazione a stucco è opera di Bernardo Spinetti. Negli anni 1735 e 1736 il famoso pittore e decoratore bavarese Cosmas Damian Asam eseguì gli affreschi della cupola del coro, aventi come tema la celebrazione di San Nicola, ossia l’apotesi del santo come pilastro della chiesa, i popoli di tutto il mondo lo venerano, la Vergine Maria che lo accoglie in cielo e il suo miracolo sul mare, e di San Benedetto, nonché i motivi tratti dal Vecchio Testamento (Mosè disseta le genti del deserto, Giuseppe e la moglie di Putifarre e Davide che suona l’arpa).

Sopra la balconata, inseriti in cornici di stucco dorate, ci sono gli affreschi che raffigurano i quattro Evangelisti, in parte ridipinti su pitture precedenti e in parte creati ex novo. La decorazione scultorea esterna, risalente allo stesso periodo, proviene dall’officina praghese di Antonín Braun. Nella navata della chiesa, poste su basamenti collocati in nicchie semicircolari, si trovano otto statue di santi e sante (Sant’Elena e San Benedetto sulla parete orientale, San Bernardo di Clairveaux e Santa Teresa sulla parete meridionale, Santa Margherita e un’altra santa sconosciuta sulla parete occidentale e una figura di un pontefice e una santa con un libro sulla parte settentrionale). Nelle nicchie al pianterreno si trovano due statue di gesso recenti che raffigurano San Giorgio e San Michele.

Del ricco arredamento originario della chiesa non rimane quasi nulla. L’altare maggiore, risalente al 1737, è di marmo artificiale con colonne dai capitelli dorati, il quadro raffigurante Santa Maria, del 1917, è stato sostituito con un dipinto di Gesù Cristo. Il pulpito in legno marmorizzato, risalente alla prima metà del XVIII secolo, è molto semplice e la sua decorazione costituita solo da un grappolo d’uva dorato, dai bassorilievi dorati dei quattro Evangelisti e dalle statuette lignee di santi poste sulla piccola tettoia piana.

Degni di nota sono i banchi risalenti al periodo tra il 1730 e il 1735, che si inseriscono bene nello stile complessivo dell’edificio. L’organo, ornato da statue di angeli e da una decorazione di drappeggi intagliati, è stato creato nel secondo trentennio del XVIII secolo.

Nel 1787, nell’ambito delle riforme dell’imperatore Giuseppe II, la chiesa venne soppressa e il suo prezioso arredamento venne venduto e asportato. La chiesa stessa fu acquistata dal Municipio di Praga, che in tal modo la salvò de facto dalla rovina. L’edificio venne usato per un breve periodo come granaio e più tardi vi ebbe sede l’archivio dell’Ufficio del registro.

Nel 1865, dopo essere stata ristrutturata come sala da concerti, la chiesa venne usata temporaneamente per scopi culturali. Fu restituita a scopi religiosi quando venne data in affitto alla Chiesa ortodossa russa nel 1871. A questo periodo risale, tra le altre cose, il lampadario di cristallo prodotto nelle vetrerie di Harrachov, nella Boemia settentrionale.

L’edificio del convento venne demolito nel 1898 e al suo posto venne costruita, tra gli anni 1901 e 1902, una casa privata in stile neobarocco. Nel 1916 la chiesa venne adibita a cappella militare e fu oggetto di un sostanziale restauro, mentre l’interno veniva arricchito con una serie di statue, dipinti e accessori di artigianato artistico in stile neobarocco. A partire dal 1920 la chiesa serve come luogo di culto per la Chiesa hussita cecoslovacca, che è stata proclamata in questo luogo l’11 gennaio 1920.

Per la maggior parte dell’anno nella Chiesa di San Nicola si tengono quasi tutti i giorni concerti di musica rinascimentale, barocca e classica.

Orologio astronomico di Praga

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L’Orologio Astronomico di Praga o Prague Orloj, in ceco Staroměstský Orloj (Orologio della città vecchia) è un orologio astronomico medioevale situato nella città di Praga, capitale della Repubblica Ceca. L’orologio è montato sul lato sud del municipio della Città Vecchia, nella Piazza della Città Vecchia ed è una delle più importanti attrazioni turistiche della città.

Il meccanismo è composto da tre elementi principali: il quadrante astronomico, sul quale, oltre all’ora, sono rappresentate le posizioni in cielo del Sole e della Luna, insieme ad altre informazioni astronomiche; il “Corteo degli Apostoli”, un meccanismo che, allo scoccare di ogni ora, mette in movimento delle figure rappresentanti i 12 Apostoli; e un quadrante inferiore composto da 12 medaglioni raffiguranti i mesi dell’anno.

Orologio, calendario, e figure animate

L’elemento più antico dell’orologio è il meccanismo del quadrante astronomico, costruito nel 1410 dal maestro d’orologeria Mikuláš z Kadaň e da Jan Šindel, quest’ultimo professore di matematica ed astronomia dell’Università Carlo di Praga. L’Orologio di Praga è stato uno dei primi orologi astronomici progettati e costruiti durante il XIV e il XV secolo. Altri ne furono costruiti nelle città di Norwich, St Albans, Wells, Lund, Strasburgo e Padova.

Successivamente, intorno al 1490, vennero aggiunti il quadrante del calendario e le sculture gotiche che decorano la facciata. Nel 1552 il meccanismo fu riparato da Jan Taborský, il quale scrisse un rapporto nel quale menzionava il mastro orologiaio Hanuš z Růže come realizzatore dell’orologio, cosa poi rivelatasi falsa da studi seguenti.

L’Orloj si fermò varie volte dopo il 1552 e furono necessarie parecchie riparazioni. Nel XVII secolo vennero aggiunte le statue mobili. Le figure in legno degli Apostoli, invece, furono installate durante la riparazione del 18651866.

Tra il 7 e l’8 maggio 1945 l’orologio venne seriamente danneggiato a causa delle bombe incendiarie dirette verso il lato sud-est della Piazza Vecchia sparate dagli autoblindo tedeschi che tentavano, in questo modo, di interrompere le trasmissioni radio della resistenza ceca. Il municipio prese fuoco, e con esso le sculture lignee dell’orologio. Il meccanismo venne riparato grazie allo sforzo della popolazione locale, e l’Orloj tornò a funzionare nel 1948.

Esiste una leggenda relativa alla costruzione dell’Orloj. Come già accennato, si pensava che l’orologio fosse stato costruito nel 1490 da Hanuš z Růže e dal suo assistente Jakub Čech. Secondo la leggenda Hanuš sarebbe stato accecato per ordine dei consiglieri della città di Praga per impedirgli di costruirne un altro simile. Per vendicarsi dell’accecamento, mastro Hanus fermò l’orologio e lo riattivò soltanto quando il consiglio della città lo supplicò di farlo, e come ricompensa gli permise di continuare il mestiere di orologiaio. Nonostante l’accecamento mastro Hanus continuò a lavorare anche grazie all’aiuto di Jakub Čech e di mastro Mikulas, suo allievo.

Quadrante astronomico

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Il quadrante astronomico è a forma di astrolabio, uno strumento medioevale per la determinazione delle posizioni delle stelle. Sullo sfondo del quadrante è rappresentata la Terra fissa nel cielo attorno alla quale si muovono quattro meccanismi: un anello zodiacale, un anello esterno rotante, una lancetta con il simbolo del Sole e una con il simbolo della Luna.

Lo sfondo rappresenta la Terra e l’aspetto del ielo locale. Il cerchio azzurro al centro simboleggia appunto la Terra, la zona superiore colorata di blu è la porzione di cielo situata sopra l’orizzonte. Le zone rosse e nera, viceversa, rappresentano il cielo sotto l’orizzonte. Durante l’arco delle ventiquattr’ore il meccanismo sposta il simbolo del Sole nella zona blu (giorno), nella zona nera (notte) o in quelle rosse (fasi di alba e tramonto).

Nella parte sinistra dello sfondo si possono leggere le scritte latine aurora (aurora) e ortus (alba), in quella destra occasus (tramonto) e crepusculum (crepuscolo).

I numeri romani dorati posti sul bordo del quadrante indicano la normale ora locale di Praga (Tempo Centrale Europeo). Le linee curve dorate, invece, dividono la zona blu del quadrante in dodici parti (numerate da 1 a 12 con cifre arabe) e segnano le ore intese come 1/12 del tempo che intercorre tra l’alba ed il tramonto di ogni giorno, chiamate anche “ore planetarie”. La lunghezza delle ore così calcolate varia a seconda delle stagioni, con l’allungarsi o l’accorciarsi delle giornate nel corso dell’anno.

Schema Orloj

All’interno del quadrante vi è un anello mobile recante i 12 simboli dello zodiaco (disposti in ordine antiorario), che indica anche la posizione del sole sull’eclittica. Nella foto qui riportata il Sole si trova in Ariete, per spostarsi poi nel Toro.

La disposizione dei simboli sull’anello zodiacale è derivata dall’uso di una proiezione stereografica del piano dell’eclittica usando il polo nord come base della proiezione stessa; come comunemente fatto per gli orologi astronomici di questo periodo.

La piccola stella dorata indica la posizione dell’equinozio di primavera ed il tempo siderale può essere letto sulla scala contrassegnata dai numeri romani dorati.

Antica ora boema

La serie di numeri arabi su sfondo scuro presenti sul bordo esterno dell’orologio indicano l’Antica ora boema, misurata partendo dal tramonto. L’anello si muove nell’arco dell’anno per far coincidere la prima ora della giornata con il momento del tramonto.

Sole

Il simbolo del Sole si muove attorno all’anello zodiacale, in modo da indicare la posizione del sole rispetto all’eclittica. È fissato ad una lancetta che termina con una piccola mano, in modo da segnare l’ora in 3 diversi modi:

  1. La posizione della mano rispetto ai numeri romani indica l’ora locale di Praga;
  2. La posizione del sole rispetto ai settori delimitati dalle linee curve indica l’ora intesa come 1/12 di tempo tra l’alba ed il tramonto (ora planetaria);

La posizione della mano rispetto all’anello esterno segna l’antica ora Boema.

Luna

Il movimento della Luna sull’eclittica è simile a quello del Sole, sebbene molto più veloce. Una sfera metà argentata e metà scura indica le varie fasi lunari.

Figure animate

Le quattro figure che fiancheggiano l’orologio si animano allo scoccare di ogni ora. Ognuna di esse rappresenta i vizi capitali: lo scheletro simboleggia la morte, il turco la lussuria, il personaggio con lo specchio impersona la vanità e il viandante con la borsa (in origine un usuraio ebreo, sostituito dopo la seconda guerra mondiale) rappresenta l’ avarizia. Allo scoccare dell’ora lo scheletro suona una campana tirando la fune con la mano destra e capovolge la clessidra che ha nella sinistra , mentre il turco gira la testa in direzione della morte; a questo punto esce il corteo con i dodici apostoli (11 apostoli più San Paolo) che, a coppie di due a due, si inchinano alla folla, Le finestre che fanno uscire le statue si aprono contemporaneamente. La prima figura ad uscire dalla finestra sulla destra è San Paolo (con in mano un libro e una spada), seguito da Tommaso (con una lancia), Giuda che porta un libro, Simone con una sega e Bartolomeo con un libro. Mentre nella seconda finestra, escono Pietro (recante una chiave), Matteo con un’ascia, Giovanni con un serpente, Andrea e Filippo con una croce e Giacomo con una mazza, alla fine dello spettacolo il gallo, sopra le finestre dell’orologio canta l’ora suonata.

Calendario

Il calendario posto al di sotto dell’orologio astronomico è stato aggiunto nel 1870 ed è una copia del dipinto del pittore boemo Josef Manes. È formato da dodici medaglioni raffiguranti scene di vita rurali associate ai dodici mesi dell’anno, i personaggi ai lati del calendario raffigurano le principali materie dell’epoca: il primo sapiente in fondo a destra che legge il libro simboleggia la filosofia, il secondo sapiente che reca in mano un cannocchiale simboleggia l’astronomia. Mentre a sinistra, la prima figura raffigura un angelo con la spada e scudo,simboleggia la teologia, l’ultimo studioso in fondo a sinistra che esamina la pergamena simboleggia la matematica.

Chiesa di Santa Maria di Týn

La Chiesa di Santa Maria di Týn (Kostel Matky Boží před Týnem), detta anche semplicemente Týnský Chrám, è una chiesa di Praga, sita nella Città Vecchia.

La chiesa venne iniziata a costruire nel 1365, in stile gotico. Ben presto divenne il centro del riformismo boemo. Infatti già dai primi del ‘400, e fino al 1620, fu la principale chiesa hussita della città. Il re Giorgio di Podebrady, che si recava in questa chiesa per ricevere la comunione utraquista, fece collocare sulla facciata un calice d’oro. Il calice, successivamente alla battaglia della Montagna Bianca, venne fuso ed usato per la statua della Madonna che oggi orna la chiesa. Il portale nord della chiesa è ornato con scene della passione di Cristo, opera del laboratorio di Peter Parler. All’interno della chiesa si trova, inoltre, la tomba di Tycho Brahe.

Malá Strana

Il quartiere è adiacente al quartiere del Castello e di Hradčany. Venne fondato nel 1257, estendendosi sulle pendici del Castello. Centro del quartiere, da sempre, è stata la piazza, Malostranské náměstí su cui si affaccia la chiesa di San Nicola. Il quartiere è collegato alla Città Vecchia mediante il Ponte Carlo. Fa parte del quartiere anche l’isola di Kampa, su cui sono visibili i resti di vecchi mulini.

La Piccola Città

In Ceco Malà Strana significa “Parte Piccola” ed è il nome con cui venne identificata questa parte della città quando nel 1300 gli abitani si trasferirono a Nove Mesto, la Città Nuova. Le guerre Hussite e il grande incendio del 1541 distrussero la vecchia Mala Strana. Solo dopo questi eventi, quando arrivarono artisti e architetti italiani, il quartiere cominciò ad assumere l’aspetto barocco e rinascimentale che ancora oggi conserva. Da quel momento Malà Strana è vissuta in una sorta di immobilità che l’ha reso come fuori dal tempo. Non ci sono auto, i turisti raramente arrivano negli angoli più nascosti e di sera il quartiere assume un aspetto magico, quasi irreale.

 

Piazza Malà Strana (Malostranske Namesti)

Arrivando dal Ponte Carlo si arriva a Piazza Malà Strana, il centro del quartiere. La leggera pendenza della piazza dà inizio alla salita che porta alla Via Nerudova, quindi al Castello di Praga. La Piazza è splendidamente circondata da un alternarsi di palazzi barocchi e rinascimentali perfettamente conservati e si sviluppa intorno alla Chiesa di San Nicola che la divide in due unità distinte. Al centro della Piazza c’è la Colonna della Vergine, detta della Peste costruita nel 1715 per commemorare la fine della peste che tra il 1713-14 decimò gran parte della popolazione praghese.

Il Radnice e Palazzo Liechtenstein

Nella parte bassa della piazza c’è il Radnice, l’ex municipio di Praga costruito nel 1622 ma che oggi ospita una bar, un pub e un locale dove si fa musica dal vivo. Risalendo la Piazza si passa davanti la Chiesa di San Nicola, la più importante costruzione barocca di Praga. Oltre la chiesa c’è il Lichtenstejnsky Palàc, il Palazzo Liechtenstein che occupa tutta la parte sinistra della Piazza, proprio di fronte alla Chiesa. Fino al XVII secolo al posto del palazzo c’erano 5 case che i Liechtenstein acquistarono dopo i fatti della Congiura della Montagna Bianca. In questo palazzo viveva Karl Liechtenstein, il “Governatore Insanguinato”, a cui Ferdinando II diede l’incarico di sterminare i congiurati. All’interno del palazzo ha sede l’Accademia di Musica, da cui sono usciti i più grandi compositori della Repubblica Ceca.Risalendo la Piazza lungo la Via Vlasska, sempre sul lato sinistro ci sono i Palazzi Schonborn e

Lobkowicz. Il primo è sede dell’ambasciata americana ed ha all’interno degli splendidi giardini; il secondo ha un frontone davvero stupendo ed ospita l’ambasciata tedesca. Nei giardini di questo palazzo si riunirono migliaia di persone per dare la spallata finale al regime comunista nel 1989.

La Chiesa di San Tommaso

Per continuare la visita di Malà Strana vi consigliamo di tornare indietro verso il Radnice e andare verso destra per visitare la Chiesa di San Tommaso (Sv Tomas). La chiesa venne fondata nel 1285 dagli Eremiti di Sant’Agostino e questo spiega i riferimenti costanti al Santo. La facciata della chiesa è una delle più spettacolari di Praga con una statua di Sant’Agostino sopra l’entrata e quella di San Tommaso nel portale sud. L’interno della chiesa è maestoso, con oro, affreschi, stucchi, capitelli. Le volte sono decorate con affreschi che rappresentano scene della vita di San’Agostino. Sempre al santo è dedicata l’allegoria che si trova sull’altare maggiore, che lo raffigura con il fanciullo. Si racconta che un giorno il santo incontrò su una spiaggia un bambino intento a travasare con una conchiglia l’acqua del mare con una conchiglia. Davanti allo stupore di Sant’Agostino il bambino, in realtà un angelo, gli disse “E’ per me più facile versare tutta l’acqua del mare in questo buco che per te spiegare in minima parte il mistero della Trinità”. Accanto alla chiesa, nella parte sinistra, c’è l’ingresso per il Chiostro di San Tommaso. Uscendo dalla chiesa, al numero 2 della Via Tomaskka c’è la birreria Dagli Schnell (Pivnice U Schnellu) locanda molto rinomata frequentata dallo Zar Pietro il Grande e da altri illustri personaggi.

Palazzo Wallenstein

Il più grande palazzo di Praga si trova a Malà Strana, precisamente alle spalle della chiesa di San Tommaso. Le menti che lo hanno progettato sono tutte italiane: costruito dal 1623 al 1629, occupa lo spazio che era di 26 case. Voluto da Wallenstein alla realizzazione si successero tre italiani: Spezza, Sebregondi e Pieroni. Oggi è sede del senato Ceco. La parte più bella del palazzo è la Sala Terrena, costruita in stile italiano su esempio della Loggia dei Lanzi di Piazza della Signoria a Firenze. Non si può mancare una visita ai giardini.

Via Nerudova

Per concludere l’itinerario di Malà Strana vi consigliamo di tornare di nuovo indietro nella Piazza Malà Strana e salire lungo la Via Nerudova, forse la via più bella di tutta Praga. Prende il nome dallo scrittore praghese Neruda, da cui il più famoso poeta cileno Pablo prese lo pseduonimo. La Nerudova porta al Castello ed è un lungo (e faticoso) percorso all’interno del Barocco praghese. La parte più divertente della salita sono le insegne delle case e dei palazzi che li indicavano prima che venisse usata la numerazione. Al numero 2 c’è la Casa al Gatto (Dum U Kocoura) con portali rinascimentali e decorazioni a stucco. La birreria che si trova in questo palazzo serve una delle migliori birre di Praga, molto amata dallo scrittore Hrabal che anche grazie ai litri beveuti in questo posto ha scritto le bellissime pagine dei suoi romanzi. Al numero 4 c’è la Casa all’Ancora d’Oro e più avanti l’insegna Ai tre violini (Dum U Tri Houslicek) che ricorda come in questa casa, dal 1667 al 1748 visse la dinastia dei liutai Edlinger. L’insegna al 27 è quella Alla Chiave d’Oro e al 28 Alla Ruota d’Oro. Al 41 c’è quella del Gambero Verde e al 45 Al Leone Nero, che tiene tra le zampe un boccale di birra.

Da Malá Strana a Piazza della Città Vecchia

Si arriva a Staré Mesto con la metro, fermata Staromestska. Molto probabilmente ci arriverete provenendo da Malá Strana, passando per il Ponte Carlo. Superato il ponte, incontrate sulla sinistra la Chiesa di San Salvatore e poi subito dopo il Klementinium.

Klementinum

Questo complesso architettonico è il più grande della città dopo il Castello di Praga. Venne costruito dagli Asburgo nel 1545 per farne la sede del Collegio dei Gesuiti; l’obiettivo era portare un’istituzione formativa che si opponesse all’Università Carolina, centro dell’eresia Hussita, e portasse i principi della Controriforma in Boemia. Per uno scherzo della storia, oggi il complesso fa parte della stessa Università e quindi molte sale sono chiuse al pubblico. Fanno parte del Klementinum tre chiese: Sv. Salvator (San Salvatore) , Sv. Kliment (San Clemente) e la Vlaska Kaple, la Cappella degli Italiani. Le tre chiese si incontrano sulla Karlova, arrivando da Ponte Carlo. All”interno del Klementinum sono visitabili la Biblioteca barocca che conserva circa 4 milioni di libri e la Torre astronomica. L’antica biblioteca gesuita con migliaia di testi di teologia e filosofia, è affrescata con scende del Vecchio e Nuovo testamento. Salendo per la scala a chiocciola si arriva all’osservatorio astronomico con la meridiana che indicava l’ora a tutta la città. Salendo ancora si arriva alla sala degli studenti e poi al quarto piano da cui si gode una vista spettacolare su tutta la città.

La Cappella di Betlemme

Dalla Via Karlova, girando a destra per la Husova si giunge alla Cappella di Betlemme, semplice nell’architettura ma luogo storico memorabile per la vita di Praga. Qui Jan Hus, riformatore e rivoluzionario ceco, iniziò la predicazione contro la chiesa cattolica. Il predicatore viveva nella casa alla destra della cappella.

Piazza Jan Palach

Non si può lasciare la Città Vecchia senza aver reso omaggio a Jan Palach, studente universitario che si diede fuoco nel 1968 per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici, arrivati a soffocare la Primavera di Praga. Il monumento si trova lungo la Moldava.

Era il tardo pomeriggio del 16 gennaio del 1969, quando in Piazza San Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale a Praga, uno studente della facoltà di Filosofia dell’Università Carlo della capitale cecoslovacca si cosparge di benzina e si da fuoco con un accendino.

Quello studente era Jan Palach che, per protestare contro la repressione dell’Unione Sovietica al tentativo del ‘Comunismo dal volto umano’, si immolò in nome della libertà.

Morì dopo tre giorni d’agonia. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600mila persone. “Un suicida in certi casi non scende all’Inferno” disse di lui la Chiesa. Dopo il crollo del muro di Berlino, la figura di Jan Palach venne riabilitata.

Nel 1990 il presidente cecoslovacco Havel gli dedicò una lapide commemorativa.

 

Castello di Pragaa-Praga

Prazsky Hrad

Non si può palare del Castello di Praga senza che la mente corra, almeno per un attimo, a Franz Kafka e a una della sue opere incompiute intitolata, appunto, Il Castello. Da sempre simbolo del potere politico in Boemia, il castello è lo stesso che il modesto impiegato di banca Franz Kafka vedeva per recarsi al suo ufficio nel palazzo delle Assicurazioni Generali; nel Castello Kafka visse, per un breve periodo, in una minuscola casa al numero 22 del Vicolo d’Oro.Alto, arrampicato sopra le viuzze ripide di Malà Strana, il Castello di Praga visto dal basso sembra inaccessibile e misterioso, proprio come lo descriveva Franz Kafka. In realtà, varcate le mura d’ingresso, il Castello rivela degli scorci molto più delicati di quelli descritti dal grande scrittore praghese. È un luogo pieno di fascino e di leggende, come quella della Torre Dalibor e del Vicolo d’Oro degli alchimisti.

L’ingresso e la Prima Corte

La visita al Castello richiede almeno un giorno e le sorprese iniziano già dall’ingresso principale. Se pensate che le uniformi che indossano le guardie alla porta sono costumi storici, dovete ricredervi perchè sono stati disegnati da Pissek, il costumista del film Amadeus, dedicato a Mozart che a Praga visse per alcuni anni. Il cambio della guardia c’è ogni giorno, alle 12. L’ingresso del Castello è decorato con le statue gigantesche che rappresentano la Gigantomachia.

La Seconda Corte

Superato l’ingresso si entra nella Seconda Corte attraverso la splendida porta barocca di Mattia. Sulla destra della porta si trova la Cappella della Croce, con bei interni fatti decorati con affreschi e oro. La parte più interessante della Seconda Corte è la Galleria Rodolfina che si trova sulla sinistra. È un museo che ospita la collezione dell’imperatore Rodolfo II: all’interno ci sono alcuni capolavori di Tiziano, Tintoretto, Rubens e del Veronese insieme ad alcuni capolavori del barocco boemo. Accanto alla galleria c’è l’ingresso dell’immensa Sala Spagnola. Al momento dovrebbe essere ancora chiusa al pubblico.

La Terza Corte

Attraverso il passaggio ad archi si entra nella Terza Corte e subito ci si trova davanti la sagoma imponente della Cattedrale di San Vito, la più importante chiesa di Praga, soprattutto dal punto di vista architettonico. E’ lunga 124 metri e con un’ampiezza che nel punto massimo raggiunge i 60 metri. Le volte sono altre 33 metri e le torri della facciata quasi 82. La torre principale raggiunge i 100 metri. In questa pagina trovate informazioni dettagliate sulla Cattedrale di San Vito. Al centro del cortile della Terza Corte c’è una bellissima riproduzione della statua che raffigura San Giorgio e il Drago opera trecentesca dei fratelli Cluj. Proprio di fronte alla statua c’è l’ingresso del Palazzo Reale che conduce nell’immensa Sala Vladislao progettata da Ried nel ‘400.

Le volte sono immense e splendidamente illuminate da enormi vetrate rinascimentali. La sala è talmente ampia che vi si svolgevano all’interno dei giochi a cavallo. I cavalieri entravano attraverso lo Scalone dei Cavalieri che sale da Piazza San Giorgio. Sulla destra della Sala c’è l’ingresso per un’altra sala, importantissima per la storia ceca e di tutta Europa. È la Cancelleria di Boemia dove, nel 1618, ebbe luogo la famosa Defenestrazione di Praga. I nobili, infuriati per la perdita dei privilegi, scaraventarono dalle finestre i governatori cattolici che rappresentavano il Re Mattia.

La Basilica e il Monastero di San Giorgio

Dalla Sala Vladislao si accede alla Piazza di San Giorgio (Jirske namesti) entrando in quella che viene definita la Quarta Corte su cui si affaccia uno dei monumenti più belli di tutto il Castello: la Basilica e il Monastero di San Giorgio. La Basilica di San Giorgio (Bazilika Sv. Jiri) deve il suo aspetto attuale al rifacimento del XIX, dopo quelli di epoca barocca. Consigliamo la visita alla cripta che si trova sotto le scale che conducono al coro: in particolare la statua di Santa Brigida con il ventre pieno di serpenti. Si chiama Vanitas ed è stata scolpita dell’italiano Spinetti come atto di espiazione per un atto di violenza compiuto in quella chiesa. Il Monastero di San Giorgio (Klaster Sv. Jiri) venne fondato nel X secolo e rappresenta il primo monastero boemo. Dagli anni ’70 ospita una collezione permanente di arte boema antica. Sono da non perdere le 9 Tavole del Maestro di Brod e le opere del Maestro dell’Altare di Trebon, considerato il maggiore pittore boemo dell’età medievale.

Le Torri e il Vicolo d’Oro

Superato il complesso dedicato a San Giorgio girando a sinistra si raggiungono le Torri di Dalibor e delle Polveri e il Vicolo d’Oro degli Alchimisti. La Torre di Dalibor è il luogo di una leggenda, musicata anche da Smetana. Prende il nome da un cavaliere che vi fu imprigionato insieme al suo violino per aver preso parte alle rivolte dei contadini del latifondo vicino a Praga. Condannato a morte, suonava ogni sera commuovendo gli abitanti del Castello che si accorsero della sua morte solo quando non sentirono più il suono del suo violino. Le autorità, infatti, non osarono annunciare il giorno dell’esecuzione. La Torre di Dalibor si trova in fondo al Vicolo d’Oro, luogo magico e pieno di leggende di cui potete leggere la storia in questa pagina.

I Giardini

La visita al Castello termina passando davanti all’imponenente Palazzo Lobkowicz ed entrando nei stupendi Giardini Reali, una delle più belle realizzazioni rinascimentali di questo tipo. I giardini costeggiano il Castello in tutta la sua lunghezza e vi si trovano piante che sono molto singolari visto il freddo che fa a Praga, come pompelmi e fichi. In questi giardini per la prima volta vennero coltivati i tulipani che poi faranno la fortuna dell’Olanda. Nei giardini merita una visita il Belvedere palazzo rinascimentale di stile italiano vicino al quale c’è la Zpivajici fontana, la Fontana Cantante che prende il nome dal suono che emette la sua acqua.

Cattedrale di San Vito

La Cattedrale di San Vito è diventata un simbolo di Praga e della Repubblica Ceca intera, sia a causa della sua storia che come memoriale artistico.

Storia

È la terza chiesa eretta su questo luogo: la prima era una rotonda a ferro di cavallo con quattro absidi, uno dei primi edifici cristiani della Boemia, costruita da San Venceslao (929); la seconda era la basilica di Vratislav e Spytihnev, in stile romanico, con tre navate, costruita tra 1060 e 1096; infine nel 1344 Mathieu d’Arras, incaricato da Carlo IV, iniziò la costruzione di una cattedrale gotica, che fu completata solo nel 1929.

Circa trenta incoronazioni di principi e re Boemi e delle loro mogli hanno avuto luogo nella Cattedrale e per molti di loro la cattedrale è diventata anche il luogo di riposo – circa quindici monarchi sono seppelliti qui.

L’entrata nella parte neo-gotica è libera, la parte storica può essere visitata acquistando un biglietto, che dà l’accesso al coro e alle cappelle, alle tombe dei re e degli arcivescovi Boemi e alla grande torre meridionale con la meravigliosa vista su Praga.

Il Vicolo D’Oro

la strada delle magie

E’ solo una leggenda, una delle tante che avvolge Praga, ma non toglie nulla al fascino di questo vicoletto che quasi si perde nella maestosità del Castello di Praga. Il Vicolo d’Oro (Zlata Ulicka) è il vicolo degli alchimisti, che passavano le notti e i giorni alla ricerca di formule magiche, la più importante della quale doveva trasformare il ferro in oro. Le case sono piccolissime, quasi minuscole. In alcune il tetto è alto poco più di un metro; uguale larghezza ha anche la strada. In una di queste, al numero 22, viveva Franz Kafka.

La storia…

Sul Vicolo d’Oro sono state raccontate diverse storie, tutte legate al periodo in cui regnava l’imperatore Rodolfo II. Secondo alcuni, dopo l’incendio di Malà Strana, alcuni artigiani orafi si trasferirono in questo vicolo per sfuggire alla mancanza di alloggi; Rodolfo II vi fece stabilire 24 arcieri con le numerose famiglie al seguito per difendere le mura del castello. Il sovraffollamento costrinse gli abitanti a sfruttare lo spazio al centimetro; le case basse vennero sopraelevate con piano anche inferiori ad un metro; le case vennero costruite anche sull’altro lato, riducendo la larghezza del Vicolo d’Oro a meno di un metro. Una tale concentrazione di esseri umani in così poco spazio non poteva non dare fastidio alle vicine monache del Monastero di San Giorgio. Per questo motivo la vita nel Vicolo venne progressivamente ridotta. Nel XVIII secolo Maria Teresa obbliga i pochi abitanti a ristrutturare i loro tuguri; vengono aggiunti intonaco e colore. Dal 1952 al 1955 la via è interamente rinnovata con un progetto che le conferisce i vivaci colori che oggi potete vedere. Da quel momento diventa un luogo affollato di turisti e le piccole case si trasformano in birrerie e negozi di souvenir.

La leggenda…

Oltre la storia c’è la leggenda. Nel 1800, in tempi di Romanticismo, inizia a diffondersi la leggenda che al tempo di Rodolfo II in quelle case non ci fossero semplicemente degli artigiani dell’oro ma gli alchimisti. L’imperatore II li avrebbe portati lì durante il suo regno per fargli trovare l’elisir di lunga vita e la formula magica per trasformare i metalli poveri in oro. Il Vicolo d’Oro divenne, quindi, una dei luoghi demoniaci di Praga, uno dei tanti che le ha conferito questa aurea leggendaria di città misteriosa e abitata da presenza sovrannaturali. La leggenda del Vicolo d’Oro si è diffusa anche grazie alle opere d’arte. Ad esempio, Gustav Meyrink scrisse nel suo Golem: “Ero capitato nel vicolo dei fabbricatori d’oro, in cui i medievali adepti dell’alchimia avevano arroventato per secoli la pietra filosofale e avvelenato i raggi lunari”. In realtà non è tutta leggenda: l’imperatore Rodolfo II era appassionato di arti magiche nonchè un uomo complesso, da molti considerato un folle. Amava invitare al Castello gli esperti di alchimia ed è documentato che accolse alla corte boema due famosi “stregoni” inglese, come John Dee ed Edward Kelley.

Il Vicolo d’Oro si trova nel Castello di Praga. E’necessario il biglietto per visitare questi monumenti: Palazzo Reale, la Basilica e il Convento di San Giorgio (aperto dalle 9 alle 17), la Torre di Dalibor, La visita ai giardini è gratuita; sono aperti dalle 10 del mattino alle 17
Biglietto
Il costo del biglietto per fare il tour completo del Castello costa 350 corone, circa 12 euro. Sono disponibili anche biglietti per visitare solo parti del Castello. Tutte le informazioni sono disponibili presso l’Ufficio Informazioni che si trova nella Terza Corte

Al Castello si arriva a piedi da Malà Strana salendo per la splendia, faticosa e panoramica Via Nerudova. La fermata della metro consigliata è Malostranskà Hradcanske. Ci arrivano anche i tram 12, 22, 23 che fermano a Malà Strana.

Ponte Carlo

Karluv Most

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La leggenda, una delle tante che riguardano Praga, dice che di notte le statue del Ponte Carlo si animano per prendersi cura dei bambini della vicina isola di Kampa.

In effetti, attraversando il ponte di notte, quando la folla dei turisti è chiusa nelle camere d’hotel, sembra che le statue siano diverse da come le abbiamo viste durante il giorno. Forse è la luce, o forse si sono davvero mosse.

Santi, Madonne, figure popolari e rossi d’uovo

Il Ponte Carlo è affollato, di turisti e di statue. Di giorno è il luogo dei pittori, degli artisti di strada, dei musicisti e delle bancarelle di souvenir. Di notte è il regno dell statue. Voluto dall’Imperatore Carlo V, unisce Stare Mesto, la Città Vecchia con Mala Strana, la Parte piccola. La sua costruzione iniziò nel 1357 ad opera Petr Parlér che mise la firma anche sulla Cattedrale di San Vito. Secondo un’altra leggenda, per difendere il Ponte dalle violente e ripetute piene della Moldava, alla calce per costruire vennero aggiunte i rossi d’uova fatti arrivare da tutte le campagne circostanti.Gli abitanti del paese di Velvary, temendo che le uova si rompessero durante il trasporto, inviarono delle uova sode, diventando per molto tempo gli zimbelli dell’intera Boemia.

Le statue

Il Ponte Carlo ricorda molto quello di Castel Sant’Angelo a Roma ma è molto più lungo: 500 metri sorretti da 16 piloni. Le numerose statue presenti oggi sono state poste sul ponte in modo progressivo, dalla data di costruzione fino al XVIII secolo e molte di queste sono riproduzioni degli originali conservati nei musei locali.

San Vito

Partendo dal lato di Malà Strana la prima statua interessante è la seconda sulla sinistra: raffigura San Vito su un monte, imperturbabile anche se minacciato da serpenti e fiere.

San Giovanni Matha

Di fronte a San Vito un altro gruppo raffigura San Giovanni Matha, Felice di Valois e Ivo. Qui colpisce la figura chiamata Turek na Moste, il turco sul ponte che sta di guardia insieme ad una cane ringhioso nella cella dove sono tenuti prigionieri tre cristiani. Il gruppo venne ordinato all’artista Brokoff per onorare i santi fondatori dei Trinitari, l’ordine incaricato di liberare i fedeli dai musulmani.

San Vincenzo Ferreri, San Procopio e il cavaliere Bruncvik

Poco più avanti, sempre sulla destra, c’è il gruppo che raffigura Vincenzo Ferreri, San Procopio e un gruppo di pagani convertiti. Vicino a questo gruppo cè la misteriosa statua di un cavaliere, chiamato Bruncvik; si ritiene che sia stata eretta per festeggiare la conquista, da parte dei borghesi di Stare Mesto, del diritto di esigere la gabella per il passaggio sul ponte (1459)

San Giovanni Nepumoceno

Poco più avanti, ma sulla sinistra, c’è la statua di Giovanni Nepumoceno, la prima ad essere installata sul ponte. Stilisticamente è inferiore a molte altre che si trovano sul ponte, ma per i praghesi ha un forte significato simbolico. Si trova nel punto dove si ritiene che il santo sia stato gettato nel fiume. Raffigura questa scena e il momento della Confessione della Regina. San Giovanni, infatti, venne gettato nel fiume perchè non volle dire al re Venceslao cosa gli avesse rivelato la regina, sua moglie, durante la confessione. Qualche secolo dopo l’uccisione del santo, sarà ritrovata la sua lingua nel fiume, ancora rossa e con la carne viva. Da allora, il 16 maggio, la statua diventa luogo di pellegrinaggio da parte dei fedeli.

La Crocifissione

La terzultima statua sulla sinistra, quasi arrivati a Stare Mesto, è la Crocifissione che registra un altro episodio storico di Praga. Si racconta che l’iscrizione che potete leggere in basso in ebraico su una targhetta d’oro (c’è scritto Santo, Santo, Santo Dio”) sia stata fatta pagare come punizione ad un ebreo che aveva disprezzato l’immagine passando davanti alla Croce. Sotto c’è un’altra targhetta dove la stessa frase è scritta in ceco, tedesco e latino.

Prima e dopo il ponte

Alla fine del ponte dal lato di Stare Mesto Carlo IV fece costruire la Mostecka Vez, una possente torre alta più di 40 metri, da molti considerata un vero capolavoro dell’arte gotica. Dal lato di Malà Strana, ci sono altre due torri che dovevano imitare la Mostecka ma non vennere mai concluse del tutto.

L’isola di Kampa

La leggenda del ponte Carlo dice che ogni volta che nasce un bambino sulla vicina Isola di Kampa, le statue si animano. L’isola si estende tra la Moldava e la Certovka, un (canale del diavolo) un braccio morto di fiume che un tempo alimentava i mulini ad acqua della città. Ci sono belle case tra cui Al Leon d’Oro e “Allo stivale bianco”, dalla bellissima facciata roccocò.

Muro di John Lennon

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Muro di Lennon è un muro che si trova a Praga capitale della Repubblica Ceca. Originariamente esso era un semplice muro della città, ma improvvisamente a partire dagli anni 80 divenne un simbolo di pace e libertà per la popolazione, soprattutto i giovani che iniziarono a riempirlo con graffiti e disegni inspirati a John Lennon nonché con frasi tratte da canzoni dei Beatles. Il regime comunista allora al potere nel paese, ovviamente non gradiva la presenza del muro che era ben presto diventato un fondamentale punto di riferimeto dal punto di vista politico e sociale per i giovani di Praga che continuavano a riempirlo di frasi e disegni ai quali ben presto fecero compagnia quelli dei giovani provenienti da ogni parte del mondo che venendo a Praga si sentivano quasi obbligati a far visita al muro che era nel frattempo diventato anche una ricercata meta turistica. Il muro deve il suo nome al fatto che dopo la sua morte, John Lennon divenne un eroe pacifista per i giovani cechi e presto un suo ritratto fu dipinto sul muro assieme a parole delle sue canzoni. Nel 1988 il regime comunista guidato da Gustav Husak tentò di screditare il significato del muro e dei suoi estimatori, dapprima definendo “Lennoniani” i seguaci del movimento pacifista ceco ritenuti violenti, alcolisti, psicopatici e “paladini del capitalismo”, nonché ridipingendolo numerose volte, provvedimento che si rivelò del tutto inutile poiché ogni volta che il muro veniva inbiancato, esso veniva prontamente ricoperto da nuove scritte e nuovi disegni. Oggi il muro rappresenta un simbolo universalmente riconosciuto di pace, amore e fratellanza. Il muro è di proprietà dei Cavalieri di Malta che permettono tutt’oggi che esso sia dipinto e scritto e si trova in Velkopřevorské náměstí (piazza del Gran Priorato) nella Mala Strana Città Piccola a Praga.

Il quartiere ebraico

Lo Josefov

Purtroppo la storia del quartiere ebraico di Praga è molto simile a quella degli altri ghetti in cui gli ebrei sono stati costretti a vivere per molti secoli. Nello Josefov, se possibile, l’atmosfera è ancora più tragica di quella che si respira negli altri quartieri ebraici d’Europa. Il cimitero,

il Museo dei Bambini di Terezin, i nomi dei deportati nella Sinagoga Sirokà sono posti a memoria di quello che è stato. Ma lo Josefov è anche un luogo pieno di fascino non tragico, in cui la presenza del Rabbino Low e del suo Golem è costante e si incrocia con le leggende sulla costruzione della Sinagoga Vecchionuova e la nuova vita, fatta di negozi di lusso e bancarelle di souvenir.

La storia del ghetto

In origine il quartiere ebraico si trovava nei pressi del Castello e solo nel XII secolo gli ebrei si trasferirono vicino a Piazza della Città Vecchia in Staré Mesto, iniziando l’espansione dello Josefov. Migliaia di ebrei ammassati in uno spazio piccolo diedero ben presto origine ad una struttura urbana labirintica e brulicante di attività commerciali, sinagoghe grandi e piccole, caseggiatti sovraffolati e un unico spazio verde destinato a cimitero. Il ghetto non superò mai la superficie totale di 93.000 metri quadrati in cui si svolgeva la vita di migliaia di ebrei, che non potevano uscire dal ghetto senza indossare un cappello giallo o un altro segno evidente della loro appartenenza religiosa. All’interno del ghetto gli incendi dolosi e accidentali erano così frequenti che gli ebrei divennero abili pompieri, chiamati a spegnere le fiamme anche per incendi nel resto della città. Le discriminazioni sugli ebrei cominciarono a diminuire a partire dal 1592, grazie all’intervento del Rabbino Low che aveva una forte presa su Rodolfo II, soprattutto grazie alla sua conoscenza della Cabbala e dell’alchimia. Nel 1850 il ghetto entra a far parte delle città autonome che formano Praga con la dicitura Josefov, Josefstadt in tedesco in onore dell’imperatore Giuseppe II che a partire del 1784 aveva attuato una politica di riduzione delle discriminazioni. A partire dal 1893 il ghetto subì una ristrutturazione profonda, distruggendo buona parte degli edifici storici e sostituendoli con altri in stile Secese (Liberty). Non a tutti piacque questo cambiamento. Anche se molti ebrei avevano già cominciato a trasferirsi in altre parti della città, come scrisse Franz Kafka, “Oggi passeggiamo per le vecchie vie della città ricostruita ma i nostri passi sono incerti”…”Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato”:..”Il vecchio quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi”. Poi arrivò il nazismo è tutti gli ebrei di Josefov furono deportati e sterminati nei campi di concentramento.

In giro per il ghetto

Da Piazza della Città Vecchi si arriva allo Josefov superando la Chiesa di San Nicola e percorrendo la Via Parizsa. Il “Risanamento” del 1893 salvò solo i luoghi di culto più importanti: l’edificio più antico del quartiere è la Sinagoga Vecchionuova (Staronovà Sinagoga) che si trova alla confluenza tra la Parizska e la Via Maslova. Una leggenda dice che la sinagoga è stata costruita con le pietre provenienti dal Tempio di Gerusalemme, mentre un’altra che era già costruita ma sotterrata e che fu un rabbino a indicarla agli ebrei. In effetti la sinagoga è in parte sotto il livello della strada. Poco più avanti c’è il Vecchio Municipio Ebraico con un singolare orologio le cui lancette girano in senso antiorario; le ore, infatti, sono segnate attraverso le lettere dell’alfabeto che, in ebraico, si leggono da destra verso sinistra.

Il cimitero ebraico

Continuando sulla Sirokà ci si avvicina al cimitero ebraico, unico spazio verde a disposizione degli ebrei nei lunghi secoli dell’isolamento. Per accedere al cimitero (stary zidovsky hrbitov) si passa attraverso la Sinagoga Pinkas, monumento in memoria dei 77.279 ebrei cechi e moldavi massacrati dai nazisti. I loro nomi sono scritti sulle pareti della sinagoga. Entrare nel cimitero senza conoscerne la storia, può far pensare ad un luogo decadente, non curato. Le lapidi sono storte, consumate dal tempo, si appoggiano l’una alle altre. Non è stata una scelta: le autorità avevano concesso solo quello spazio per seppellire i morti del ghetto e per gli ebrei è sacrilegio riesumare le tombe. Quindi, per secoli le tombe si sono accumulate, fino a dodici strati per circa 12.000 corpi. L’ebraico è una lingua difficile, ma qui potrete intuire l’attività sociale del defunto grazie ai disegni: forbici per sarti, pinzette per i medici, mani che benedicono per i sacerdoti e poi tanti animali per chi si chiamava Volpi, Orsi e così via. La tomba più antica è quella del rabbino e poeta Avigdor Karò del 1439. L’ultima è del 1787, quando Giuseppe II permise la sepoltura anche all’esterno. Le tombe più importanti sono indicate con dei cartelli, e tra tutte spicca quella del Rabbino Low, cabalista, animatore del Golem.

Secondo la leggenda, chi viene a conoscenza di certe arti magiche può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Può essere evocato pronunciando una combinazione di lettere alfabetiche.

Si dice che il Golem sia stato formato attraverso il testo Sefer Yetzirah: esso risale alla sapienza di Avraham e si distingue per l’esegesi sui segreti dell’alfabeto ebraico, delle Sefirot nel legame con l’anatomia del corpo umano, con i pianeti e con mesi, giorni e segni zodiacali: queste tre figure – l’uomo, il mondo e l’anno – rappresentano tre testimoni completi. Il maestro che volesse formare un Golem, così si racconta, si serviva delle lettere girando attorno alla forma di argilla per un numero di volte preciso, in corrispondenza a tutte le figure citate sul Sefer Yetzirah.

Il Golem era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un’anima e nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela.

Nella cronaca di Ahimaaz ben Paltiel il cronista medievale del XII secolo narra che nel IX secolo un rabbino, Ahron di Bagdad, scopre un golem a Benevento, un ragazzo a cui era stata donata la vita eterna per mezzo di una pergamena. Sempre alla fine del IX secolo, secondo la cronaca di Ahimaaz, nella città di Oria risiedevano dei sapienti ebrei capaci di creare golem che smettono di praticare questa attività dopo una divina ammonizione.

Si narra che nel XVI secolo un mago europeo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per sfruttarli come suoi servi, plasmandoli nell’argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola “verità” (in ebraico אמת [emet]). C’era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in “morte” (in ebraico מת [met]); ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il Golem, non come deità ma come una sorta di angelo, la cui natura nella Qabbalah è segreta, però creato dal maestro in grado di unirne il potere spirituale alla Volontà di Dio, si racconta operasse anche per la difesa di alcune comunità ebraiche dell’Europa orientale. Ripreso il controllo della situazione, il mago decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga Staronova, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi.

Il Museo dei Bambini

Prima di andare via, passando di nuovo per la Sinagoga Pinkas, visitate il Museo dei Bambini di Terezin. Terezin era una fortezza del 1780 che si trova a 60 chilometri da Praga. Eichmann, gerarca nazista, la trasformò in un campo di concentramento “ideale” perché doveva dimostrare alle potenze europee che i nazisti non uccidevano gli ebrei ma li tenevano solo prigionieri fino alla fine della guerra. In realtà Terezin era il luogo di partenza per i forni crematori. Ne morirono 33.529 di cui 15.000 bambini, tanto che Terezin è stata soprannominata il “ghetto dei bambini”. Nel museo sono conservati 4.000 disegni e moltissime poesie scritte durante la prigionia. Ogni opera porta la data di nascita, quella deportazione e quella della morte. Solo su poche centinaia è scritto “sopravvissuto.

Il Museo ebraico: Zidovske Muzeum

Il museo ebraico del ghetto di Praga contiene la più importante collezione di oggetti della cultura materiale israelitica esistente in Europa. Alla base di questa collezione c’è la tragedia del nazismo e della deportazione degli ebrei: i tedeschi accumularono a Praga tutti gli oggetti rubati agli ebrei prima di mandarli a morire nei campi di concentramento. Il Museo si trova ed è aperto tutti i giorni, escluso il sabato, dalle 9 alle 16.30 da novembre ad aprile e dalle 9 alle 18 da maggio ad ottobre. Il biglietto costa 290 corone.

Piazza Venceslao

Dal punto di vista architettonico, Piazza Venceslao (Vaclavské Namesti) non ha palazzi di particolare interesse ma merita una visita perchè è il cuore politico e commerciale di Praga che qui si raduna per le feste o per i lutti nazionali.

Un ex mercato di cavalli

Per ammirare la maestosità della Piazza (750 x 60 metri) bisogna entrare al Museo Nazionale e guardare il lungo viale da dove lo guarda San Venceslao a cavallo. In questo spazio una volta c’era la Porta dei Cavalli, che alla fine del 1800 venne abbattuta per far spazio al monumentale museo. La prima statua del Santo venne portata qui 1680 e nel 1879 trasferita al Castello. La statua attuale è del 1912 e insieme al santo a cavallo ci sono i 4 patroni della Repubblica Ceca (Ludmilla e Procopio davanti, Adalberto e Agnese dietro). Sullo zoccolo si possono leggere delle parole che i cechi hanno sempre invocato nei momenti di difficoltà: “Non lasciarci perire, noi e i nostri discendenti”.

Piazza San Venceslao è diventata simbolo dell’identità praghese e ceca nel 1848, quando durante i moti rivoluzionari ricevette il nome attuale. Nel 1918 fu da qui che partirono le rivolte antiasburgiche a favore dell’indipendenza nazionale. Nel agosto del 1968 i praghesi cercarono di fermare in questa piazza i carri armati russi venuti a stroncare la Primavera di Praga, il tentativo di uscire dalla dittatura sovietica. L’anno successivo, davanti alla statua di San Venceslao, lo studente universitario 19enne Jan Palach si cosparse di benzina e si diede fuoco, morendo pochi giorni dopo. Le autorità, temendo che quel luogo diventasse un simbolo rivoluzionario, fecero passare una strada tra il monumento e il palazzo del Museo. Nel 1989, alla vigilia della caduta del regime sovietico, imponenti manifestazioni si svolsero in Piazza San Venceslao. Dopo 20 anni di esilio e silenzio, Havel, Dubcek ed altri tornarono a parlare di libertà dalle finestre della casa editriche Melanthric. Prima di allontanarvi dal monumento, gettate uno sguardo e magari un fiore al piccolo monumento dedicato a Jan Palach, che si trova proprio di fronte alla statua del santo.

I palazzi della Piazza

Oltre al Museo, di cui è interessante visitare la ricca e immensa biblioteca che conserva preziosi codici medievali, i palazzi più interessanti della piazza sono l’Hotel Europa e il Supichuv Dum. L’Hotel è stato costruito tra il 1903 e il 1906; è interessante perchè sono rimasti intatti tutti gli elementi del Liberty praghese di inizio secolo, dando all’insieme un fascino molto retrò. Il Supich, al numero 38-40 è un miscuglio di Secese e strutturalismo che ancora oggi, dopo un secolo, solleva molte discussioni.

Come arrivare a Piazza San Venceslao

Per arrivarci in metro la fermata è Mustek. I tram che passano per la piazza sono il 3, 9, 14, 24.

Per arrivare a piedi in piazza

Chi arriva da Mala Strana deve passare il Ponte Carlo, entrare nella Città Vecchia e poi girare a destra, prendendo fino ad incrociare la Via Prikope o la Narodni che si uniscono all’altezza di Piazza San Venceslao. Ci si arriva anche costeggiando la Moldava e poi superando il fiume al Ponte Legii.

Vyšehrad

Le leggende di Vyšehrad, che spiegano le origini ed i primi anni dello stato dei Premislidi, hanno reso questo posto uno dei luoghi più memorabili della nazione Ceca. Vyšehrad divenne un accampamento fortificato presumibilmente intorno al X secolo. La prima prova dell’esistenza di Vyšehrad come fortezza sono le monete di Boleslav II che furono coniate verso la metà del X secolo.

Il regno di Vratislav II (1061-1092) aprì un nuovo capitolo nella storia di Vyšehrad. Questo principe venne eletto re dei Cechi e dei Polacchi nel 1085 e scelse Vyšehrad come propria residenza reale. Egli ne rinforzò le fortificazioni e costruì un palazzo fortificato che rispondesse alle proprie ambizioni.

Vratislav II pose le fondamenta della più antica costruzione romanica di Praga: la Rotonda di San Martino. Anche il suo successore, Soběslav I (1125-1140) ebbe cura delle decorazioni artistiche delle chiese e del prestigio di Vyšehrad. Fu solamente dopo l’incoronazione di Vladislav II nel 1140 che il Castello di Praga cominciò a prendere importanza.

Vyšehrad riguadagnò una certa importanza sotto Carlo IV. La processione per l’incoronazione del nuovo re incominciava a Vyšehrad, come espressione di rispetto verso l’antenato della dinastia da cui Carlo IV discendeva da parte di madre. Carlo IV convertì Vyšehrad in un forte di pietra e costruì mura che lo collegavano alla nuova città di Praga. Egli costruì anche un palazzo gotico a Vyšehrad, una chiesa capitolare ed il nuovo cancello di Špicka.

Durante la guerra degli Ussiti tutta la zona venne distrutta. Verso la metà del XVII secolo Vyšehrad divenne un forte barocco con una guarnigione e rimase sotto l’amministrazione dell’esercito fino al 1911 quando la sua giurisdizione venne trasferita alla città. Da allora fu conservato quasi senza cambiamenti, con l’eccezione dell’armeria che venne distrutta da un’esplosione dove oggi si trova il giardino con sculture di Myslbek.

La forma attuale di Vyšehrad fu in gran parte determinata durante la seconda metà del XIX secolo. La chiesa di San Pietro e Paolo, dominante l’altura di Vyšehrad, fu ricostruita in stile neo-gotico da un disegno di J. Mocker e F. Mikeš rispettando le disposizioni del disegno gotico di Carlo IV.

Fu a quell’epoca che nacque l’idea di creare un cimitero nazionale a Vyšehrad al posto dell’esistente cimitero rurale. Furono necessari molti anni per costruire il Pantheon. L’attuale cimitero di Vyšehrad è un’opera artistica unica, in armonia con l’ambiente circostante. Allo stesso tempo, è una galleria di sculture funerarie ed una prova dello sviluppo artistico Ceco dalla metà del XIX secolo ad oggi. Qui riposano oltre 600 personalità della cultura e dell’educazione.

Praga è un tradizionale centro culturale, ospita molti teatri (incluso il Teatro Nazionale), teatri dell’opera, sale da concerto, gallerie e club musicali. È anche sede dei più importanti uffici e istituzioni della Repubblica Ceca, tra cui la sede della Presidenza, del Governo, e di entrambe le case del Parlamento. Oltre all’Università Carolina (Univerzita Karlova), fondata nel 1348, prima università del Sacro Romano Impero Germanico e dell’Europa centrale in generale, la città è sede di altre sette università e collegi, compresa l’Università Tecnica Ceca (CVUT) fondata nel 1707.

Parchi e giardini di Praga

A Praga si trovano numerosi parchi e giardini, sia nel centro sia in periferia, ed è quindi sempre possibile trovare un posto tranquillo dove sfuggire alla ressa ed al rumore cittadino. Di seguito vi proponiamo una selezione.

Petřín

Malá Strana, Praga 1

La collina di Petřín (in passato uno dei vitigni di Re Carlo) offre una meravigliosa vista di Praga e numerose attrazioni per adulti e bambini. La collina è ben riconoscibile per via della torre della televisione che vi si trova in cima, che è una miniatura della torre Eiffel. È possibile salire in cima alla torre per godersi il panorama, con la possibilità di svolgere anche altre attività sulla collina.

Come arrivarci a piedi

È possibile raggiungere la cima della collina a piedi, facendo così anche un pò d’esercizio (si tratta di una leggera arrampicata lungo un sentiero boschivo) o prendere la funicolare. Se salite a piede potrete fermarvi alla statua di Karel Hynek Mácha, il grande poeta romantico ceco, autore del poema amoroso Máj (Maggio). La statua è ora punto di ritrovo per gli innamorati che qui si danno appuntamento il 1 maggio, l’ufficioso “giorno dell’amore” in Repubblica Ceca.

Come arrivarci con la funicolare

La funicolare che raggiunge la cima di Petřín parte dalla via Újezd (ci si arriva con i tram 6, 9, 12, 20, 22 o 23 scendendo alla fermata Újezd). La funicolare è in funzione tutti i giorni dalle ore 9 alle ore 23.30 (Aprile – Ottobre) o dalle ore 9 alle ore 22.20 (Novembre – Marzo) e ci sono corse ogni 10-15 minuti. Avrete bisogno di un biglietto del trasporto pubblico urbano che potrete acquistare alla stazione della funicolare, se necessario. Scendete al capolinea (la seconda fermata mentre la prima è collocata a metà della collina).

Cosa fare a Petřín

– Potete salire in cima alla torre per godervi l’ottima vista di Praga. Non fatevi ingannare dall’altezza della torre. Ci si impiega solo quattro minuti per salire le scale fino al punto d’osservazione.

– Il labirinto degli specchi (bludiště) può essere un divertente diversivo per i più piccoli mentre l’osservatorio può essere interessante per i bambini più grandi e, ovviamente, per gli adulti.

Ritorno da Petřín

Quando avrete terminato la vostra visita a Petřín, potrete riprendere la funicolare per tornare indietro, ma è più piacevole ed interessante seguire uno dei sentieri che portano al castello di Praga o al monastero di Strahov (percorso pianeggiante o in discesa).

Riegrovy sady

Vinohrady, Praga 2

Riegrovy sady è un piacevole parco compreso tra le vie Italská, Chopinova, Polská e Vozová nel nord-est di Vinohrady al confine con il quartiere di Žižkov. É facilmente raggiungibile a piedi da Vinohradská e Slavíkova dalla piazza di Jiřího z Poděbrad. Il parco prende il suo nome dal politico ceco del XIX secolo František Ladislav Rieger. Adagiato su di una collina, il parco offre una splendida vista verso il Castello di Praga. Il parco é stato realizzato tra il 1904 ed il 1908 come giardino pubblico in stile inglese e comprende una terrazza d’osservazione ora purtroppo deterioratasi e caduta in disuso. La statua di František Ladislav Rieger é un’opera del 1913 di Josef Václav Myslbek.

Come arrivarci

Il parco ha diversi ingressi. Se arrivate da Jiřího z Poděbrad, proseguite lungo Mánesova e voltate a destra in Třebízského. Se viaggiate in tram, prendete il numero 11 e scendete a Vinohradská tržnice e svoltate in Třebízského da Vinohradská.

Havlíčkovy sady

Vinohrady, Praga 2

Havlíčkovy sady é il secondo parco per grandezza a Praga e si trova sull’altro lato di Vinohrady al confine con il quartiere di Vršovice. Il punto di riferimento piú noto é la Villa Gröbe (Grébovka). Questo magnifico esempio di villa neorinascimentale é stata edificata come lussuosa residenza estiva per l’industriale Moritz Gröbe tra il 1871 ed il 1888 ed é collocata in un giardino a terrazze modellato con gusto con un piccolo vigneto.

Come arrivarci

Il parco é a circa sette isolati a sud di Náměstí Míru ed é un pò più complesso da raggiungere rispetto a Riegrovy sady (o il più piccolo Sady Sv. Čecha vicino a Jiřího z Poděbrad). Potete prendere i tram 4, 22 o 34 da Náměstí Míru, scendere a Ruská e proseguire a piedi per circa tre isolati ad ovest verso l’ingresso del parco.

Letná

Letná, Praga 7

La collina di Letná è quella con il curioso metronomo in cima. Lo si vede chiaramente stando di fronte l’hotel Intercontinental e dalla fine di via Pařížská o, semplicemente, dal molo di Dvořákovo nábřeží. La ragione principale per la quale arrampicarsi in cima alla collina è la magnifica vista di Praga e della Moldava con i suoi ponti. Alcune aree del parco, la zona circostante il metronomo inclusa, sono sorprendentemente lasciate incurate mentre altre zone sono molto ben tenute. Il parco occupa una zona estesa ed è frequentato da ragazzi con lo skateboard, pattinatori in rollerblade e ciclisti, per i quali sembra siano stati costruiti i viali del parco e quindi passeggiare da queste parti durante il fine settimana potrebbe risultare un poco snervante.

Come arrivarci

Per arrivare in cima alla collina di Letná (al metronomo), attraversate il ponte Čechův, attraversate poi la strada e salite lungo gli scalini che vi troverete d’innanzi.

Personaggi illustri

Il Dottor Faust

Il Dottor Faust visse secondo la leggenda al numero 40-41 di Karlovo namesti, conducendovi i suoi studi di alchimia. Di certo vi abitò il mago Edward Kelley ai tempi di Rodolfo II. La casa avrebbe una maledizione: uno studente che vi abitò sparì, e nella casa si trovò un foro nel tetto: allo stesso modo era stato rapito Faust dal diavolo, in seguito al patto con cui aveva avuto da lui il dono dell’eterna giovinezza.

Franz Kafka

Franz Kafka, nasce a Praga da un agiato commerciante ebreo il 3 luglio 1883. Gran parte della sua vita l’ha trascorsa nel centro di Praga sulla piazza Staromestske e nelle strade che la affiancano: Celetna, Dlouha, Biltova e altre. Nel palazzo Kinsky vi era il suo liceo tedesco e nel Carolinum l’università in cui studiò le materie giuridiche.

All’interno del Castello, in via degli Alchimisti, ha lavorato a lungo in una stanza piccolissima ed angusta, ma tutt’intorno l’atmosfera del Castello di Praga è avvolgente e magica. Ed essa deve essere stata determinante nell’ispirazione dell’opera omonima, “Il castello”, la rappresentazione di un’autorità arcana e insondabile, “i signori del castello”, ai cui voleri deve sottomersi un agrimensore, che, come altri protagonisti dei suoi romanzi, raffigura lo stesso Kafka.

Fino al suo pensionamento prematuro, lavora come consigliere legale presso una grande ditta di assicurazioni. Nel 1917 si ammala di tubercolosi e dopo sette anni, il 3 giugno 1924, muore a causa della malattia.

Le opere di Franz Kafka, sono lette oggi in tutto il mondo. Ma colui che è considerato uno dei più grandi scrittori del novecento, ebbe in vita una fortuna letteraria pressochè tragica. Nelle librerie erano distribuite solo sei piccolissime novelle. E tutte le altre opere dovevano essere distrutte secondo l’ultimo desiderio del moribondo Kafka. Però per fortuna l’amico Max Brod scelse di salvare i manoscritti trasgredendo alle istruzioni ma rendendo un grande servizio alla storia della letteratura.

Nei romanzi scritti in tedesco (America, Il Processo e Il Castello), e anche nelle storie brevi (La descrizione di una lotta, Racconti, Cambiamento) il motivo ricorrente è la tragica impotenza dell’uomo davanti alla società e alla realtà spesso incomprensibile

Milan Kundera

Lo scrittore boemo nasce nel 1929 e si trasferisce dal 1975 in Francia, a Parigi. Il regime comunista arrivato al potere con l’aiuto dei carri armati sovietici dopo l’agosto 1968, gli ritira dal 1979 la cittadinanza cecoslovacca. Prima della sua partenza per l’esilio francese Kundera si è messo in luce, anche all’estero, soprattutto con il romanzo “Lo scherzo”, scritto negli anni 1962-65 ed uscito per la prima volta nel 1967. Il paradosso, l’ironia, una volta leggera, l’altra melanconica, accompagnano anche tre racconti pubblicati insieme con il titolo “Amori ridicoli”, nel 1970. Il suo romanzo più famoso è però “L’insostenibile leggerezza dell’essere” scritto quando Kundera era già in Francia. In quest’opera Kundera continua il tema già iniziato con “Lo scherzo”, cioè che la vita, la storia umana è un assurdo ritratto del gioco dei potenti. Le opere di Kundera hanno praticamente due ispirazioni parallele, da una parte una visione leggera ed erotica, dall’altra un momento politico-filo sofico che racconta e esprime giudizi sull’esistenza umana. Ai lettori piace non solo la brillante capacità di Kundera di raccontare la storia ma anche la leggerezza con cui filosofa sul senso della vita umana, come nel suo libro “L’immortalità”. I libri di Kundera sono una parte importante della storia del romanzo europeo, ma anche di quello mondiale, della seconda parte del nostro millennio.

A Praga si possono ritrovare le atmosfere raccontate nei suoi libri. E se oggi i rapidi cambiamenti dei modelli di comportamento della società praghese non rendono tanto facile l’identificazione dei personaggi, tra le vie della città, come avveniva qualche anno fa, si possono però ancora ritrovare i luoghi, i bar, i ristoranti descritti da Kundera

Praga e il cinema

Praga ha una grande fortuna rispetto a molte altre capitali europee: il suo centro storico è rimasto quasi intatto nei secoli poiché non ha subito danneggiamenti rilevanti durante la Seconda Guerra Mondiale. Chi ha già avuto la possibilità di visitarla avrà certo notato che nella maggior parte del nucleo storico non esistono quasi costruzioni moderne. Nei quartieri di Hradčany e di Malá Strana si nota maggiormente questo fatto e con un po’ di fantasia, se togliamo le automobili e qualche altro dettaglio facciamo un salto indietro nel passato. Di questa situazione particolare di Praga se ne sono accorti anche i cineasti che hanno quindi scelto la città per girare i loro film. La cinematografia a Praga è stata sempre un’arte molto sviluppata e con una forte tradizione che ci porta molto indietro nel tempo. Gli studi cinematografici Barrandov di Praga sono da sempre il punto di riferimento principale della nazione e per esempio, ancora durante gli anni del regime comunista vi si producevano molti cartoni animati della Walt Disney. Anche se oggi, dopo il 1989, la situazione è un po’ cambiata a causa dell’aumento dei prezzi, Praga serve ancora da scenario per molte produzioni cinematografiche. Alcuni fra i film più famosi girati a Praga sono Amadeus, Missione Impossibile 1, Delitti e segreti, Shooter-attentato a Praga e anche alcune produzioni televisive come Fantaghirò, Il giovane Mussolini e la Piovra 6.

Si invitano tutti gli amanti del cinema e tutti i visitatori di Praga a fare un giro dei luoghi dove sono stati girati alcuni film…

Amadeus USA 1984Questo film è stato prodotto nel 1984 e allora vinse anche molti oscar. Il regista, Miloš Forman, di origine Ceca ma emigrato negli USA ai tempi del comunismo, aveva proprio scelto Praga per il suo film. Il ballo della sigla iniziale è stato girato nell’Ambasciata Francese, Velkopřevorské náměstí, Malá Strana. L’ospedale dove si trova Salieri si chiama Invalidovna, costruito nel 1700 sulle orme degli Invalides di Parigi. Si trova in via Sokolovská 136/24 nel sobborgo di Karlín. Il primo incontro tra Mozart e Salieri avviene nelle sale del castello di Kroměřiž, in Moravia a circa 280 km da Praga, come anche il ballo in maschera. Il film è stato girato quasi completamente nei quartieri di Hradčany e Malá Strana.Cominciamo da Hradčany, più precisamente dal Monastero di Strahov dove nella sala teologica –una delle due biblioteche visitabili-hanno girato una scena dove i funzionari di corte complottano contro Mozart.

Arriviamo ora nella Piazza del Castello (Hradčanské Náměstí) esattamente dalla parte opposta del Castello al numero civico 7 dove hanno utilizzato il portale come casa di Mozart riprendendo nel film anche la piazza; anche la via a fianco Karmelitská è stata usata per alcune scene.Sempre nella stessa piazza di fianco all’ingresso principale del Castello si trova al numero 16 il Palazzo Arcivescovile dove sono stati ambientati i balli di corte di Vienna. Non penso però che gli Arcivescovi ve li lascino visitare…
Scendendo verso Malá Strana percorriamo la via Nerudova dove al numero 18 si trova un negozio che nel film è stato usato come negozio di parrucche dove Mozart faceva acquisti.In una via parallela alla Nerudova, la Thunovská si trova una strettoia con un arco usata in alcune scene. Nella Piazza di Malá Strana a destra della facciata della chiesa di San Nicola prima dei portici si trova un passaggio coperto che conduce alla via Tržiště, usato per alcune scene in esterno. Nella piazza di Valdstejn, all’interno dell’omonimo palazzo nella sala dei Cavalieri hanno girato un’udienza di corte, ma anche questo non si può visitare:è il Senato. I giardini di questo palazzo sono invece aperti al pubblico da Marzo a Ottobre e all’interno hanno girato un concerto all’aperto del film. Vicino al Ponte Carlo sono state girate alcune scene nelle vie Mišenska, U Lužického Semináře e vicino all’hotel Ai tre struzzi,nonché al suo interno.

Nella Piazza di Malta (Maltézské náměstí) è stato ambientato un mercato viennese e a destra della facciata della chiesa della Vergine Maria sotto la catena, nella via Lázeňská, si trova ora un edificio che appartiene ai Cavalieri di Malta, ma prima del 1989 era il Museo degli strumenti musicali e nel film è stato usato come casa di Salieri, l’avversario di Mozart. In una scena Salieri brucia una croce nel caminetto di casa sua. La scena è stata girata con tutte le precauzioni del caso perché in tutto il palazzo ci sono ancora oggi i parquet originali del 1700. Spostiamoci ora a Staré Město dove nella via Husová si trova la Chiesa di Sant’Egidio (Svatí Jiljí) Dove hanno filmato il matrimonio e il funerale di Mozart (sono consigliati occhiali scuri per proteggersi dalla brillantezza di questo Barocco…) In fondo alla via Železná si trova il Teatro di Týl o degli Stati Generali usato nel film per le scene dell’Opera.

Nel mese di Luglio si stavano girando le scene al teatro. Il 4 Luglio, giorno dell’Indipendenza americana al posto della musica di Mozart all’improvviso suonò l’inno americano e tutto il teatro, comprese 600 comparse si alzò in piedi a cantare.. Gli unici che non si alzarono, un gruppetto appartato, erano quelli della STB, la polizia segreta. Una curiosità: le scene del teatro hanno una luce molto particolare perché il regista, Forman, aveva fatto costruire apposta dei Candelabri per un totale di 5000 candele assumendo poi 30 studenti per accenderle per ogni scena.

Nella realtà Mozart in questo teatro aveva avuto la Prima mondiale del Don Giovanni, nel 1787. Le scene delle opere buffe ispirate alle musiche di Mozart sono invece state girate in un teatro ricostruito negli studi cinematografici Barrandov di Praga. Per vedere dove hanno girato le ultime scene del film, dopo la morte di Mozart bisogna andare a Vyšehrad – metropolitana linea C rossa fermata omonima.Entrando dall’ingresso non lontano dal Palazzo dei Congressi la prima Porta attraverso le mura barocche si chiama Taborská e più all’interno si trova quella usata nel film,la Porta di Leopoldo. Consiglio di rivedersi il film dopo la visita della città.

Delitti e segreti USA- Francia 1992Questo film del 1992 con Jeremy Irons e Theresa Russell ci mostra una bellissima Praga in bianco e nero. La maggior parte delle scene sono state girate a Malá Strana ma anche nella Città Vecchia e nel Cimitero Ebraico nonchè sul Ponte Carlo. Nella Marianské Naměstí il Municipio Nuovo nel film era il posto di lavoro di KafkaI Miserabili 1999 FranciaUno dei più recenti film tratti dal famoso romanzo di Victor Hugo è stato girato in Repubblica Ceca. Una buona parte del film è stato girato nella città di Kutna Hora e nei paesi di Žatec a Vrbno. A Praga il tribunale dove il protagonista ammette di essere Jean Valjean è il Castello di Troja. La loro abitazione parigina è in Hradčanské náměstí 8. Una nostra vecchia conoscenza visto che era la casa di Mozart nel film Amadeus. I funerali di Lamarque sono stati girati nella stessa piazza.

From Hell- La vera storia di Jack lo squartatore 2001 USA

Il film si basa sulla ricostruzione storica degli omicidi avvenuti in un sobborgo di Londra alla fine del 1800. Girato a Praga e dintorni. L’ispettore Abberline – Johnny Depp, spia negli archivi per indagare e questi si trovano nel Palazzo Schwarzenberg, Hradčanské Náměstí 1, di fronte al Castello. In un’altra scena Abberline passeggia con Mary in un viale alberato con delle statue barocche. Questo viale si trova a Kutna Hora, 70 km da Praga, tra la Cattedrale e l’ex collegio dei Gesuiti. Il Museo che l’ispettore visita con Mary è il Museo Nazionale in Piazza Venceslao. Il Monastero di Strahov con le sue biblioteche è stato usato in 2 scene: la Sala Teologica come gli interni di Buckingham Palace durante le udienze con la regina e Abberline legge un libro sulla Massoneria nella Sala Filosofica. Il manicomio dove viene portata l’amica di Mary è un ospedale che si trova a Praga 2 Città Nuova all’angolo tra le vie Apolinářská e Ke Karlovu. Merita una visita; è in stile Neogotico con mattoni a vista. Il sobborgo londinese Whitechapel, dove si svolge tutto il film è stato ricostruito in un paese fuori Praga.

Bad Company-Protocollo Praga USA 2002

Parte di questo film d’azione è ambientato a Praga.Le scene iniziali sono state girate sul Ponte Carlo, dalla collina di Letna e a Mala Strana. Il negozio di antiquario è il Café Square, a Malostranské Náměstí. Il pedinamento all’inizio del film è nella Via Thunovská e la processione con omicidio finale sugli scalini per il Castello- Zámecké schody, dietro all’Ambasciata Italiana. L’hotel dove alloggiano i protagonisti è il Palazzo Arcivescovile di fianco al Castello ma anche il palazzo di fronte, Palazzo Schwarzenberg. Il primo incontro con il trafficante è sull’isola dei tiratori-Střelecký Ostrov. La cenetta romantica è sulla terrazza a Lavka, sotto il Ponte Carlo e il cimitero di Olšany è proprio il cimitero di Olšany, tra le fermate Flora e Želivského della linea metro Verde, A. Inoltre…

Dungeon and Dragons 2002

Racconto fiabesco sulla eterna lotta tra il Bene e il Male. L’incontro tra la principessa e il saggio si svolge nella Chiesa di San Nicola a Mala Strana. La Principessa e il saggio cercano la pergamena nella Sala Filosofica del Monastero di Strahov dove nel film si trova la scuola di magia. Il Consiglio si riunisce nell’Opera Statale. Il finale si trova nel suggestivo cimitero di Mala Strana all’inizio della Via Plzeňská.

Blade II 2002 USA

Film d’azione che ha come protagonista Wesley Snipes in lotta contro un esercito di vampiri. Il film è stato girato in buona parte a Praga. La sigla iniziale si svolge a Karlin, nella Via Sokolovska vicino alla metropolitana Florenc. All’inizio del film Blade attraversa un tunnel in auto ed è il tunnel sotto la collina Letna. Nell’incursione in elicottero si vede la Piazza Venceslao dall’alto. L’incontro tra Blade ed Eli Damuskinos, capo dei vampiri avviene con lo sfondo di una copia del famoso orologio astronomico di Praga! Alcune scene sono state poi girate, sia di giorno che di notte nella zona del Monastero degli Emausi, Praga 2 Città Nuova. La maggior parte delle scene interne sono state girate a Praga 9 nei capannoni immensi della vecchia fabbrica statale CKD, Via Kolbenova.

 Van Helsing USA 2004

Film dell’orrore con un cacciatore di vampiri che combatte con alcune creature mostruose capeggiate dal conte Dracula. All’inizio del film Parigi non è Parigi. Il primo combattimento del film fra Van Helsing e Mr Hide si svolge a Praga nella Piazza della Città Vecchia. Notre Dame è un’aggiunta virtuale… Il Villaggio della Transilvania è stato ricostruito a Praga in periferia nel quartiere di Kunratice.. Budapest non è Budapest ma le scene dopo il rapimento di Anna si svolgono sull’isola di Kampa vicino al Ponte Carlo. La festa da ballo di Dracula è stata girata a Mala Strana, nella chiesa di San Nicola.

La leggenda degli uomini straordinari USA 2003

Film d’avventura dove un gruppo di supereroi si riunisce per combattere il male.Tratto da un famoso fumetto. L’arrivo a Londra di Allan è stato girato al Rudolfinum (Piazza Jan Palach), sia interni che esterni. La riunione dei supereroi si tiene nella biblioteca di Strahov, sala Teologica. 1 kmq di Venezia è stato ricostruito nella periferia di Praga nei vecchi capannoni di un ex megaditta statale. Ma la cosa più sorprendente è che le scene del Kenja sono state fatte fuori Praga…

Omen 666 il presagio USA 2006

Remake del film cult degli anni 70. La biblioteca all’inizio del film è nel Monastero di Strahov, sala Teologica. L’ambasciata Americana è il centro congressi di Praga a Vysehrad. Damien ha la prima crisi vicino alla chiesa di S.Ludmilla a Vinohrady. L’opera è il Museo Nazionale. L’appuntamento fra il sig.Thorn e il prete che lo mette in guardia è sotto il Ponte Carlo. Successivamente il prete muore a Kutna Hora, Cattedrale di S. Barbara. Il fotografo e Thorn arrivano in taxi al parcheggio sotto il Teatro Nazionale. Thorn cerca di uccidere Damien nella Chiesa di S.Ludmilla, Vinohrady.

 Casino Royale USA 2006

L’ultima avventura di 007. Il prologo del film prima della sigla è stato girato nella Danube House, centro uffici di fianco all’hotel Hilton sul lungofiume. La biblioteca di Londra dove M passeggia con altri agenti è in realtà la sala Filosofica del Monastero di Strahov. Il Montenegro è in realtà la città di Karlovy vary. L’atrio dell’albergo di Venezia è l’ingresso del Museo Nazionale, lo stesso usato per Missione Impossibile.

Trasporti

Praga è dotata di uno dei migliori sistemi di trasporto pubblico d’Europa.

La metropolitana, i tram e gli autobus sono utilizzati regolarmente dai due terzi della popolazione cittadina e servono la maggior parte della città e la periferia. Hanno una capillarità ed una precisione notevole. Questo rende sia l’utilizzo dell’automobile quasi inutile sia l’ambiente migliore.

L’infrastruttura dei trasporti pubblici consiste di tre linee sotterranee della metropolitana per un totale di circa 55 stazioni, oltre a parecchie linee di tram sia diurni che notturni, incluso il famoso “tram nostalgico” numero 91, supportate da autobus, due stazioni ferroviarie internazionali (la stazione centrale e quella di Holešovice) ed altre due nazionali, una funicolare per la collina di Petřin, una seggiovia presso lo zoo di Praga e tre linee di traghetti che navigano la Moldava. Tutti questi servizi hanno in comune un solo ed unico sistema di biglietto integrato del costo di Euro 1,00 circa per un singolo viaggio nel periodo.

La cucina ceca

Manuale di sopravvivenza

  1. La cucina italiana migliore di Praga è quella che troverete a casa vostra al ritorno.
  2. Evitate se possibile di cercare ristoranti italiani anche perché…
    1. Il nome del ristorante in lingua italiana non significa che il ristorante sia davvero italiano (test: provate per divertimento a leggere qualche menu dei ristoranti “italiani” e scovare gli errori di scrittura, credo che poi ne starete alla larga)
    2. Per ottenere un caffè italiano “accettabile “ non basta dire espresso ma bisogna aggiungere in italiano la parola “piccolo”. Sta poi al cameriere dosare la quantità in tazza piccola e m’immagino già le lacrime che vi scenderemmo in proporzione alla gocce di caffè in più che cadranno nella tazza…

Un buon posto in centro per un caffè italiano è il Caffè Segafredo, Staroměstské Náměstí, piazza della Città Vecchia alle spalle del monumento a Jan Hus. A Mala Strana potete trovare il caffè Segafredo proprio di fianco al campanile della Chiesa di San Nicola

  1. In Repubblica Ceca non esiste il primo e secondo. Il pasto è composto da un piatto unico (carne) con contorno, nella stagione fredda preceduto da una minestra.

Ritengo che viaggiare significhi anche assorbire almeno un po’ la cultura del posto e di questa cultura fanno parte anche le abitudini alimentari. La cucina ceca, con poche sfumature locali, è imparentata con la cucina austriaca e ungherese. In generale la cucina ceca è povera di ricette quindi nella maggior parte dei ristoranti si trovano piatti uguali o simili e non è detto che nel ristorante di categoria superiore si mangi meglio che nella trattoria rustica, anzi, nella maggior parte dei casi è solo una questione di prezzo… La cucina deve servire a fornire calorie per combattere il clima rigido e quindi rispetto alla nostra è più calorica, con condimenti saporiti e più grassi. La buona notizia è che la carne qualitativamente è migliore della nostra italiana In ogni ristorante troverete più o meno le stesse ricette con le sfumature di fantasia del cuoco. Qui di seguito trovate un dizionarietto gastronomico che vi sarà utile per interpretare i menù posto che nella maggior parte troverete la versione almeno in inglese, francese e tedesco se non in alcuni casi anche in pseudo – italiano.

Buon Appetito o in ceco DOBROU CHUT’!

L’unità monetaria ufficiale della Repubblica Ceca è la Corona Ceca (koruna) abbreviata in Kč, con l’abbreviazione internazionale CZK. Una corona è composta da 100 haller (haléř), abbreviati in hal. Il valore approssimativo di 100 CZK è 4 Euro (4,10€).

Monete: 1 Kč, 2 Kč, 5 Kč, 10 Kč, 20 Kč
Banconote: 50 Kč, 100 Kč, 200 Kč, 500 Kč, 1000 Kč, 2000 Kč, 5000 Kč

Valute accettate

La moneta ufficiale della Repubblica Ceca è la Corona ceca ed è la migliore e spesso l’unica possibile moneta da utilizzare. Alcuni negozi, ristoranti ed hotel accettano pagamenti in Euro ma il tasso di scambio potrebbe non essere dei migliori. Si può cambiare in hotel o in banca il bancomat preleva contanti direttamente in valuta locale.

Shopping: cosa acquistare?

Cristalli

Senza entrare troppo in dettagli tecnici il cristallo deve avere almeno il 24% di Piombo per essere chiamato tale. Esiste poi il cristallino con il 18% di piombo mentre il resto è vetro con minori quantità di piombo. Il cristallo non è poi tutto uguale: esiste quello lavorato a mano e quello stampato che ormai è la maggior parte. In base al prezzo che volete spendere potete orientarvi verso uno di questi tipi. Se cercate il top dei cristalli cechi allora visitate Moser che ha due negozi. Il migliore si trova a Na Přikope 12, Praha 1 Nové Město ed ha un interno molto bello. Il secondo si trova a Malé Náměstí 11 Praha 1 Staré Město. Entrambi i negozi sono aperti nei giorni feriali dalla 10 alle 20 e nei giorni festivi dalle 10 alle 19.

Ceramiche

Le ceramiche di solito sono pezzi unici d’artisti locali ma hanno anche altri oggetti interessanti.

Esistono vari negozi, per esempio uno nella Via Celetna al n.4 appena fuori della Piazza della Città Vecchia o un altro nella via Melantrichova la strada che va dalla Piazza Venceslao alla Piazza della Città Vecchia. Tutti i negozi hanno l’insegna KERAMIKA

Porcellane

La porcellana ceca assomiglia molto a quella tedesca di Meissen bianca e blu. In ceco si chiama cibulova perché è caratterizzata da decorazioni che sembrano cipolle ma in realtà raffigurano i melograni.

Il negozio migliore in assoluto si trova poco fuori del centro storico,nel quartiere Vinohrady a pochi passi dalla metropolitana C, Rossa fermata IP Pavlova. Usciti dalla fermata prendete la strada che sale verso la chiesa e siete arrivati:

Dům Porcelánu Praha Jugoslávská 16 Praha 2 www.cibulak.cz .Tre piani di porcellana e anche cristalli. Il negozio non è in zona turistica quindi ha prezzi convenienti. Merita una visita.

Granati

Sono pietre dure di colore rosso scuro intenso che si vendono solo montati su gioielli in argento,argento d’orato o oro. L’oro però è a 14 Carati per essere più resistente e trattenere meglio le pietre. I gioielli che hanno solo pietre piccole ( meno di 2-3 mm) sono al 100% cechi. Esistono alcuni pezzi con dei granati più grandi e questi ultimi sono importati dalla Thailandia sebbene lavorati e montati in Repubblica Ceca.

Il negozio migliore è ancora una volta un punto vendita della fabbrica: Granat Turnov Dlouhá 30 Praha 1 oppure l’altro punto vendita minuscolo in Via Panská 1 Praha 1 Chiusi Sabato pomeriggio e Domenica…

Un negozio che merita un posto a parte è la galleria d’arte Alfa- Díla Uhelní trh 11 Praha 1 www.galerie-alfa.cz oggetti regalo interessanti anche qui eseguiti da artisti locali e c’è di tutto per tutte le tasche.

Per quanto riguarda l’artigianato tipico esiste una catena di negozi che si chiama Manufaktura. Il più grande si trova nella Via Melantrichova prima di arrivare alla Piazza della Città Vecchia.

Potete trovare artigianato in legno, soprattutto giocattoli, oggetti decorativi fatti con la pasta di zenzero altri con le foglie di pannocchia, i saponi profumati, le stoffe dipinte blu e bianche stampate a mano, ceramica e uova dipinte.

Già le uova dipinte. Non sono una tradizione solo ceca ma si trovano in altre parti d’Europa. Sono legate alla Pasqua ma si trovano tutto l’anno. Sono gusci d’uova vere di gallina o altri pennuti svuotate, pulite e decorate con varie tecniche che hanno comunque in comune molta pazienza.

Il negozio migliore si trova in Piazza Venceslao al numero 12 dopo il Palazzo Bata e la farmacia. Se è aperto troverete fuori un grande uovo e il cartello Original souvenir. Dovete entrare nel cortile. Qualità garantita e vasta scelta. Aperto tutti i giorni dalle 10 alle 19.

Sempre nella Via Melantrichova tra la Piazza Venceslao e la Piazza della Città Vecchia c’è il mercatino della via Havelská. Aperto tutti i giorni dalla 10 circa alle 17. Anche qui potete trovare oggetti regalo interessanti.

Musica

I CD di musica pop e rock internazionali costano come in Italia. Prezzi imposti dalle multinazionali.

Per la musica classica e jazz invece ci sono incisioni locali o anche internazionali a prezzi convenienti. Il negozio più rifornito in assoluto è BontonLand Megastore Piazza Venceslao 1 sotto il Palazzo Koruna. Troverete di tutto.

CD Bazar Krakovská 4 Praha 1 Traversa a destra in alto alla Piazza Venceslao. Orario: Lunedì – Venerdì 9-19 Sabato 10-13.

Cartoline

La maggior parte di chi vende cartoline a Praga non ha ancora afferrato il concetto di servizio completo cartolina + francobollo, quindi vi manderà alla posta. Se non avete tempo di andarci una libreria proprio in Piazza della Città Vecchia vi darà tutto:

Knihupectví U Jednorožce Staromestské Nám 17 Praha 1. Trovate anche dei libri in italiano su Praga.

Libri

I libri in italiano di Praga si possono trovare in molte librerie del centro e anche quelli turistici ed economici sono di buona qualità.

Alcune librerie ben fornite:

Città Nuova:

Palác knih Piazza Venceslao 41

Libreria Kanzelsberger Piazza Venceslao 1- aperto tutti i giorni dalle 9 alle 20 e anche al numero 42 aperto da Lunedì a Venerdì dalle 8 alle 19 e Sabato dalle9 alle 19

Na Můstku Na Příkopě 3

Città Vecchia:

Kafkovo knihkupectví Piazza della Città Vecchia 12

Librerie antiquarie

In queste librerie antiquarie si possono acquistare libri usati, stampe, cartoline, carte telefoniche e oggetti vari per collezionisti.

La parola chiave in ceco è ANTIKVARIÁT. Non ce ne sono moltissimi nel centro storico ma nella Città Nuova, Via Dlážděná ( Tram 3,5,14,24,26 fermata Masarykovo Nádraží) ce ne sono ben 3 in 200 m di strada. Orari Lunedì-Venerdì 9-18 Sabato 9-13.

Centri commerciali

Il centro commerciale più grande nella Città Nuova quindi in zona centrale è il Palladium e si trova proprio accanto al nostro hotel….5 piani con ogni genere di negozi!

Mercati

Infine un altro luogo molto “folkloristico” meta preferita dei praghesi. Nel 1800 era il Macello Comunale di Praga su una vastissima area a Praga 7.Oggi qui si trova un mercatino d’abbigliamento contraffatto, alimentari e molto altro. Tanto per avere un’idea dell’ampiezza dell’area visitate il sito Prazska trznice e cliccate sulla parola Plan. Orari Lunedì-Venerdì 7-19 Sabato 7-14 . Metropolitana C Rossa fermata Vltavská poi tram 1,2,3,25.

Per finire un po’ di consigli etil-gastronomici…

Birra

Anche se la trovate in tutti i supermercati vicino al Ponte Carlo sul lato di Malá Strana, Lázeňská 15, c’è un negozio specializzato,con più di 100 tipi diversi di oltre 30 fabbriche della Repubblica Ceca. Aperto dal Lunedì a Giovedì dalle 11 alle 19, Il Venerdì fino alle 18 e nei weekend dalle 10 alle 18. Merita una visita.

Liquori

Il liquore tipico è un distillato di 23 erbe, la BECHEROVKA  , 38 gradi e uno spiccato aroma di cannella e chiodi di garofano.

La Slivovice o grappa gi prugne invece non è solo ceca ma si trova anche in altri paesi.

La Repubblica Ceca è uno dei pochi posti al mondo dove l’assenzio, il liquore che ha fatto produrre così tante poesie ai “poeti maledetti francesi” Baudelaire, Rimbaud e Verlaine, si vende e si produce legalmente.

Quello originale ha ben 70 gradi e per imparare a berlo guardatevi il film la vera storia di Jack lo squartatore dove il protagonista Johnny Depp se lo beve nella vasca da bagno.

Un liquore poco conosciuto ma molto gustoso è la Medovina, liquore a base di miele da una ricetta medievale. Molto gustoso, soprattutto quello aromatizzata alla mandorla hořká mandlová.

Le cialde delle terme in ceco Lázenské oplatky sono il dolce più comodo da portare a casa. Sono due cialde leggerissime con in mezzo delle polverine di zucchero aromatizzate alla vaniglia, al cacao, alla nocciola o al cioccolato. Si vendono in scatole quadrate che contengono 10 pezzi.

Praga magica (o come può scomparire il vostro portafoglio)

Praga magica, Praga dalle cento torri, Praga: “la mammina che con i suoi artigli non ti lascia mai” – cosi si esprimeva Kafka.

Praga – il paradiso dei borseggiatori

Praga è una città affascinante ed è meta turistica fra le preferite in Europa. Come tutti i luoghi turistici ci sono le attività collaterali al turismo; sto parlando dei borseggiatori che lavorano indisturbati per la città. Bastano pochi accorgimenti per non farsi derubare. Luoghi dove lavorano maggiormente sono: la piazza di fronte al Ponte Carlo nella Città Vecchia al semaforo pedonale e nella Via Karlova fino alla Piazza della Città Vecchia. Il tram 22, soprattutto nella zona di Mala Strana. In questo caso lasceranno salire tutti, staranno per ultimi e spingeranno per entrare. Proprio mentre spingono, rubano. Altri sono fissi alla fermata di metropolitana e tram di Narodni Trida. In questi due casi sono gruppi abbastanza grandi d’uomini e donne. I più insidiosi sono pero quelli che stanno vicino agli hotel. Sono generalmente in tre; uno vi si avvicina e vi offre il cambio in nero (fra parentesi, sempre da evitare a Praga se non volete cattive sorprese). Subito dopo arrivano gli altri due che vi dicono d’essere poliziotti che devono controllarvi il portafogli per vedere se avete soldi falsi. Il resto potete immaginarvelo. NESSUN POLIZIOTTO HA IL DIRITTO DI PERQUISIRVI IL PORTAFOGLIO.

Qualche consiglio per evitare di essere borseggiati:

  • Lasciate tutti i documenti in hotel meglio ancora nella cassaforte.
  • Non portate molto denaro contante con voi, portate invece una carta di credito o un Bancomat abilitato per prelevare all’estero. Ci sono molti sportelli dove poter prelevare in città
  • Non mostrate i vostri soldi o portafoglio in luoghi pubblici.
  • Controllate sempre la vostra borsa.
  • Nei bar o ristoranti evitate i posti più vicino all’ingresso.
  • Scegliete sempre i mezzi pubblici meno affollati e attenzione a chi vi spinge o vi strattona.
  • Evitate il cambio nero per strada. Ricevereste soldi falsi,fuori corso o vi ruberebbero il portafoglio
  • Attenzione di fronte all’orologio astronomico. Mentre avete gli occhi in alto, loro hanno le mani in basso.
  • Nelle vie principali quando sarete ipnotizzati dalle vetrine date sempre un occhio alle vostre spalle.
  • State sempre attenti a chi avete attorno, soprattutto in zone affollate (tram e metro, piazze, negozi).

Se nonostante questi consigli siete stati borseggiati vi aspettano lunghe code prima alla polizia per denunciare il furto e poi all’Ambasciata Italiana per il foglio di via. Fatevi sempre delle fototessere perché vi verranno richieste. Questi sono i commissariati per denunciare i furti. Il furto va denunciato nel quartiere dove è avvenuto. Armatevi di buona pazienza perché si perde sempre molto tempo.

Nové Město (La Città Nuova):

  • Polizia per stranieri (sede centrale)
    Jungmannovo namesti 9, Praga (Piazza Venceslao
  • – Benediktská 1, Praga 1- Krakovska 11, Praga 1- Hybernska 2, Praga 1

Staré Město (La Città Vecchia):

  • Bartolomejská 14, Praga 1

Malá Strana

  • Vlasska 3, Praga 1

Una volta che avete in mano la denuncia potete andare a farvi l’altra coda all’Ambasciata. Auguri!

Ambasciata della Repubblica Italiana
Nerudova 20 11800 Praga 1
Tel.: +420-2-33080111
Fax: +420-2-57531522
E-mail: ambasciata.praga@esteri.it
Orari: dalle 8.30 alle 17.00 (lun/ven)
Orari di apertura al pubblico: dalle 9 alle 12
(lun/mer/gio/ven)
http://www.ambpraga.esteri.it

ORARI DEGLI UFFICI
Da lunedi a venerdi
8:30-17.00

L’incubo dei taxi

Prendere un taxi a Praga può rivelarsi un’esperienza capace di rovinarvi una giornata, visto che i taxisti di Praga sono noti per la loro sfacciataggine e arroganza. Sono usi ad alzare di molto il prezzo ufficiale.

Luoghi da evitare

I quartieri del centro storico sono generalmente tranquilli e sicuri come del resto anche le periferie. Quasi più sicuri di notte che di giorno ma con le precauzioni di questa pagina si può rendere la permanenza in città più piacevole.  

Come spendere male i vostri soldi per una cena

Nella maggior parte delle guide di Praga è segnato un indirizzo di una birreria che si chiama U Fleku – una delle più antiche birrerie di Praga e la birra si fabbrica proprio in loco. Il posto è bello in sé e la birra è buona. Andate a vederlo, bevetevi pure uno (o più) boccali di questa birra ma evitate di andarci a cena o a pranzo. Si mangia male, i camerieri sono antipatici e vi tratteranno in modo scortese. Un altro posto che non vale il nome che sì e fatto è il ristorante U Kalicha. La cucina ceca è una cucina con pochi piatti tipici quindi si trovano circa gli stessi dappertutto; perché pagare di più per essere in un posto famoso e magari con servizio scadente quando esistono molti altri ristoranti migliori? La regola e quella di non stare mai nelle strade principali, ma scegliere le secondarie o addirittura spostarsi in vie più lontane dalle mete turistiche; avrete più possibilità di mangiare bene senza essere imbrogliati.

Ristoranti, Birrerie.

Stare Mesto

  • Novomestsky pivovar

Vodickova,20 (5min a piedi da piazza San Venceslao)

(+420)222232448

Il Novomestky pivovar è un tipico pub ceco, fondato nel 1993. Questo ristorante economico conta su un menu vario, con un’ampia scelta di piatti anche  vegetariani, e serve birre di fabbricazione propria.  Il ristorante si trova in un edificio che risale al 1902, che ospita, per l’appunto, una fabbrica di birra. Per questo, il Novomestsky può contare su birre di propria fabbricazione. L’edificio è decorato in uno stile a metà tra il gotico e la belle epoque. Il ristorante ha una capacità di 340 persone e si possono effettuare visite guidate in parte della fabbrica. Il Novomestsky pivovar è specializzato in piatti della cucina tradizionale ceca, come la zuppa d’aglio e la carne in salsa, e ogni sera è possibile ascoltare la musica dal vivo dell’artista ceco Frantisek, che canta e suona la fisarmonica.

  • U zlatého tygra

Husova 17

tel: (+420)222 22 11 11

U zlatého tygra (La Tigre Dorata) è stato uno dei pochi pub della città vecchia a mantenere intatta la sua anima – e i suoi prezzi bassi. È stato il locale preferito dallo scrittore Bohumil Hrabal – sue foto sono appese alle pareti – e quello mostrato dal presidente Havel a Bill Clinton come esempio di tipico pub ceco.
Orari: 15:00 – 23:00

  • Kolkovna

V Kolkovnĕ 8

Tel: (+420)224 819 701

Sito internet http://www.kolkovna.cz

Si entra nell’universo della birra ceca Pilsner Urquell in questo bar ristorante dalle mura tinteggiate di verde nella sala a volta, ravvivata da vecchie foto, pubblicità e oggetti d’epoca. Piatti della tradizione dalle porzioni molto generose e ottima birra a prezzi contenuti.

  • Pivovarsky Dum

Lipova 15

Tel.(+420)296216666

Locale tipico nell’arredamento e nel menù.

Prezzi bassi, porzioni molto abbondanti e birra artigianale.

Mala Strana e Hradcany

Thunovska 10,

Piccola birreria nella zona del castello, ma un po’ fuori dai comuni itinerari turistici. Per trovarla si deve individuare la Statua di Churchill; si tratta di un posto molto autentico, con clientela ceca e piatti tradizionale. Le birre sono ottime, le salsicce molto grandi, il formaggio è locale e ci sono altri piatti da provare. Più che un ristorante è una taverna, con un’atmosfera che ricorda i bar spagnoli. Raccomandato ed economico.

  • Hostinec u Kocoura (Il mandrillo)

Nerudova2

tel.:(+420)257530107

È un pub di vecchia data che gode ancora della fama di locale preferito dell’ex presidente Havel ed è frequentato da una clientela perlopiù ceca, nonostante si trovi nel cuore della zona turistica della città. Considerato il quartiere, vi si trova dell’ottima birra a buon prezzo.

  • U Kata (Al boia)

U radnice 6

Tel.(+420)

In questo ristorante si fermò a riposare il boia della Città Vecchia, Jan Mydlář, dopo la più cruenta esecuzione della storia boema avvenuta il 21 Giugno 1621 quando furono impiccate 27 persone di fronte al municipio. L’autore del massacro fu proprio Jan Mydlář che si dice abbia speso tutto il guadagno in vino proprio qui accanto. Non si fanno tagli al prezzo della birra…

  • U Černého Vola (al bue nero)

Loretanske Naměsti 1, Hradcany (nella zona del castello)

Tel.(+420)220 513 481

Sulla facciata si trova un quadro che rappresenta San Luca;era l’antico nome della casa che ospita questa tipica birreria praghese. La birra servita in questo locale è la Velkopopovicky Kozel 12°. La birreria è piccola con pochi posti a sedere. La seconda sala è la più grande e si chiama “Dei Cavalieri” perché è decorata con gli stemmi delle più importanti famiglie nobili ceche. In questa sala ci sono dei lunghi tavoloni in legno ed è buona usanza praghese sedersi insieme agli altri clienti. Si servono soprattutto piatti freddi che servono per accompagnare le grandi quantità di birra che si è invogliati a bere in un locale come questo. La birreria è frequentata soprattutto da clientela locale.

  • Klasternì Pivovar Strahov (birreria del monastero Strahov)

Stahovskè nadvori 301 Hradcany (nella zona del castello)

Tel.(+420)233353155

Ampia birreria ristorante di fronte al monastero Strahov. La parte più antica risale al XVII° sec. Buon cibo e servizio adeguato prezzi medi.

  • Zvonice Restaurant

Torre jindrisska (piazza San Venceslao)

E’ un ristorante unico poiché è situato tra il 7°e il 9° piano di un’autentica torre gotica. La cucina è straordinaria e l’ambiente magico e romantico, la vista permette di ammirare i cento pinnacoli di Praga. Prezzo 25-50€ a persona.

 

  • U Maltèzskych Rytiru

Prokopska 10 (Mala Strana vicino all’isola Kampa)

Tel.(+420)257533666

Ristorante con bellissime sale in pietra e atmosfera romantica. Il menu prevede ottimi piatti di carne, selvaggina accompagnati da vini locali, francesi e cileni. Prezzo 20-30€

  • Koliba U Pastyrky

Belehradska 15 (a 15 min con mezzi pubblici dal centro M Vysehrad o tram)

Tel.(+420)222564335

Ristorante con cucina tradizione Ceca e Slovacca.

Nella sala grande piastra dove grigliano la carne.

Accompagnamento con musica zigana

  • Molly Malone’s

U Obecniho dvora 4 (nel quartiere ebraico a 10 min a piedi dal nostro hotel)

Tel.(+420)224818851

Tipico pub irlandese: personale,birra Guinness e cibo irlandese.

  • Red hot & blues

Jakubska 947/12 (10 min a piedi dal nostro hotel)

Cucina creola e cajun (chili, zuppe di pesce e hamburger) accompagnata da musica dal vivo jazz o blues, prezzo 10-18€.

  • Maly Buddha

Uvoz 46 Hradcany (nella zona del castello)

Tel.(+420)220513894

Musica zen,luci soffuse, ambiente rilassante.

Cucina orientale prevalentemente (ma non esclusivamente) vegetariana. Prezzo economico.

  • Ristorante Creperie Galerie

Krizovnické namesti 3 ( zona Staroměstské)

Ottima creperie in  un palazzo storico nelle immediate vicinanze del Ponte Carlo, il luogo dove concedersi una pausa golosa a prezzi contenuti.

  • La Provence Restaurant & Brasserie (birreria)

Stupartska 9 (5min a piedi dal nostro hotel)

Tel.(+420)296826155

Collocato in una via laterale in un’oasi tranquilla. Metà bistrot parigino e metà  ristorante provenzale, ottima cucina francese, prezzo 18-25€.

  • El Centro

Maltezske 9 (Mala Strana vicino all’isola Kampa)

Tel.(+420)257533343

Ristorante spagnolo specializzato in Tapas (tanti stuzzichini) e Paella prezzi da 10 a 22€.

  • La Cantina

Újezd 430/38 Malá Strana (nelle vicinanze della stazione a valle funicolare per la collina di Petrin

Tel.(+420)257 317 173

Semplicemente il miglior ristorante messicano di Praga.

Qui trovate tutte le specialità messicane classiche dagli anjitos (antipasti) ai piatti principali chili, fajitas, burritos, ecc a prezzi convenienti da 5-15€.

  • Les Moules

Pařížská 203/19 Josefov (15 min a piedi dal nostro hotel)

Tel.(+420)222 315 022

Les Moules ha l’aria di un accogliente pub in legno, con una vasta selezione di birre tradizionali belghe dei monaci trappisti. Il ristorante, nel quartiere ebraico, è famoso per le terrine fumanti di cozze, servite con le semplici, ma autentiche, patatine fritte. Lista limitata di vini ed altri piatti a base di carne o pesce. Prezzo per un Kg di cozze con contorno 15€ ma con 23€ si può mangiare senza limite.

Le caffetterie di Praga

  • Café Louvre 

Un elegante caffè Art Nouveau su Národní. Aperto nel 1902 e frequentato da clienti come Kafka, Čapek o Einstein. Il caffè venne chiuso in epoca comunista a causa del suo carattere “borghese” ed è stato riaperto nel 1992. Ottimo luogo per incontrarsi con gli amici, per prendere un caffè od un the, per fare colazione, per un pranzo od una cena (si trovano anche piatti vegetariani). Sala biliardo, area non fumatori.

Indirizzo: Národní třída 20

Come arrivarci: Metro B per Národní třída

Orari: 8.00 – 23.30 (Lun-Ven), 9.00 – 23.30 (Sab-Dom)

Sito web: www.cafelouvre.cz

  • Café Milena

Questo caffè, che prende il suo nome dall’amata di Franz Kafka Milena Jesenská, si trova al primo piano di un edificio storico della Piazza della Città Vecchia ed offre una vista sull’orologio astronomico.

Indirizzo: Staroměstské náměstí 22

Come arrivarci: Metro A per Staroměstská

Orari: 10.00 – 20.00

  • Café Slavia

Il famoso Café Slavia, situato di fronte al Teatro Nazionale, venne aperto per la prima volta nel 1881 e divenne un luogo d’incontro per artisti ed intellettuali, tra i quali anche l’ex presidente Václav Havel che frequentava assiduamente questo caffè durante i suoi anni da dissidente. Il caffè venne chiuso nel 1991 per questioni di proprietà ed in seguito riaperto sei anni più tardi, ristrutturato e riportato al suo aspetto Art Deco degli anni 30. Un ottimo luogo per andare a prendere un caffè o per un dolce al termine della giornata o dopo una serata a teatro. Stupenda vista del Castello dalle finestre che si affacciano sul fiume.

Indirizzo: Smetanovo nábřeží 2

Come arrivarci: Metro B per Národní třída

Orari: 8.00 – 23.00

  • Káva Káva Káva

Situato nel Pasáž Platýz, questo popolare caffè offre caffè e the, biscotti, “bagels” e torta di carota. Lo “Specialty Coffee Shop” vende tipi di caffè provenienti da tutto il mondo. Accesso ad internet.

Indirizzo: Národní třída 37

Come arrivarci: Metro B per Národní třída

Orari: 7.00 – 22.00 (Lun-Ven), 9.00 – 22.00 (Sab-Dom)

Sito web: http://www.kava-coffee.cz

  • Kavárna Obecní dům (Casa Municipale)

Uno dei caffè più belli di Praga, progettato in stile Art Nouveau con soffitti alti, ampie finestre, specchi e splendidi candelabri di cristallo. Vasta scelta di caffè, the, bevande, insalate, piatti leggeri, panini, dolci e torte della casa. La colazione viene servita dalle 7.30. Piano bar ogni sera. Accesso ad internet.

Indirizzo: Náměstí Republiky 5 (Casa Municipale

Come arrivarci: Metro B per Náměstí Republiky

Sito web: http://www.kavarnaod.cz

  • La Dolce Vita

Un piacevole caffè italiano su due piani. Buon caffè, gelato e dolci.

Indirizzo: Široká 15,

Come arrivarci: Metro A per Staroměstská

Orari: 8.30 – 24.00

  • Tonino Lamborghini Pastacaffé

Caffè e ristorante italiano alla moda gestito dai proprietari della catena Ambiente. Si servono colazioni, stuzzichini, insalate, panini, piadine, pasta e dolci. Due locali in città.

Indirizzo: Vězeňská 1 & Vodičkova 8

Come arrivarci: Vězeňská – Metro A per Staroměstská, Vodičkova – metro A per Můstek (uscite in direzione di Piazza Venceslao/Vodičkova) o tram 3, 9, 14 o 24 per Vodičkova

Orari: 8.00 – 22.00 (Lun-Ven), 10.00 – 22.00 (Dom)

La Romantische Strasse – la strada Romantica-


Rothenburg ob der Tauber Germany 

 

 La Strada romantica (in tedesco Romantische Straße) è uno dei percorsi turistici tedeschi più famosi e frequentati. La strada parte dal Meno, attraversa la Franconia occidentale fino alla Svevia, passa in Alta Baviera ed arriva alle Alpi tedesche. Il percorso è lungo 366 km ed ha come estremità Würzburg e Füssen.

10NRDL~1

Nördlingen è un comune tedesco di 20.122 abitanti, situato nel land della Baviera ed appartenente al circondario del Donau-Ries.

Storia

“Nordilinga” venne menzionata in un documento come una “corte reale” nel 898. Nel 1998 Nördlingen ha festeggiato il suo millecentesimo anniversario. La cittadina conserva un impianto medievale con mura e fortificazioni ben conservate. Il centro storico è recintato da mura che sono percorribili a piedi nel cammino di guardia.

Geografia

Nördlingen è situata sulla celebre Strada romantica, ad ovest del parco nazionale dell’Altmühltal e lungo il confine fra la Baviera ed il Baden-Württemberg, a circa 30 km dalla città di Aalen.

Il bordo del cratere si trova vicino al villaggio di Mönchsdeggingen. L’astroblema o cratere meteoritico di Nördlingen, in tedesco Nördlinger Ries, si trova in Germania, ed è uno dei crateri meteorici più conosciuti del mondo.

Il cratere si trova nella parte a Nord del Danubio del distretto di Donau-Ries, nella parte occidentale della Baviera. Il toponimo “Ries” deriva dal nome della provincia romana “Rætia”. Il cratere di Nördlinger Ries si presenta come una depressione quasi perfettamente circolare e il suo aspetto piatto risalta notevolmente sul paesaggio accidentato della Franconia e della Svevia. Inizialmente questa struttura geologica, sulla base delle rocce, in particolare delle sueviti, trovate al suo interno, è stata considerata un antico vulcano, solo nel 1960 si è potuto provare che la sua origine deriva da un impatto meteorico avvenuto circa 15 milioni di anni fa, che ha dato origine anche ad un altro cratere meteorico, il cratere di Steinheim. L’impatto che ha dato origine al Nördlinger Ries ha dato origine anche alle moldaviti. Al cratere è stato dedicato un asteroide, 4327 Ries.

A Nördlingen è stata girata la scena finale (l’ascensore volante) del film “Willy Wonka & the Chocolate Factory” del 1971 diretto da Mel Stuart. Nel museo del cratere Ries della città è possibile ammirare un campione di roccia lunare donato dagli astronauti dell’Apollo 16, come ringraziamento per l’ospitalità durante i giorni di addestramento effettuato a Nördlingen.

Il romantico Mercato di Natale è uno dei più grandi e più suggestivi mercatini di Natale della regione storica di Svevia. Tutto il centro storico della città viene coinvolto nella magia del Natale: le strade principali, la zona pedonale, la piazza e le altre strade e vicoli sono ornati con migliaia di lampadine e luci, mentre il cuore del mercatino si svolgerà sulla piazza e la zona pedonale. Più di 60 casette in legno, bene illuminate e decorate, rendono quasi incantato il centro storico medioevale di Nordlingen. L’illuminazione a lume di candela, l’aroma del vin brulé e un ricco programma di animazione con vari cori e gruppi musicali che inneggiano melodie pre-natalizie vi accompagneranno a piedi attraverso la città vecchia facendovi vivere un’esperienza d’altri tempi. Presepi, e poi presepi ed ancora presepi, concerti e molto di più vi offriranno un quadro interessante ed inedito di un tipico mercato di Natale tedesco.

Una passeggiata attraverso le mura della città, o una visita alla torre di guardia alta 90 metri “Daniel” oppure entrare nella Cattedrale, una delle più vaste chiese gotiche nella Germania meridionale, durante il periodo dell’Avvento assumono una magia particolare e rimarranno ricordi indelebili della nostra gita in Baviera.

Dinkelsbühl è un comune tedesco di 11.584 abitanti, situato nel land della Baviera.

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La cittadina medievale di Dinkelsbühl, antica Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero che sorge, tra Augusta e Würzburg, lungo una sponda del fiume Wörnitz, è una delle principali attrazioni della Strada Romantica (Romantische Straße), la strada turistica più famosa della Germania.

Oggi Dinkelsbühl è uno dei più belli esempi di città medievale della Germania, il centro storico della città (Altstadt) è completamente circondato dalle mura medievali con le loro 18 torri, rimaste praticamente intatte, sulle quali si aprono quattro bellissime porte di accesso.

  Dinkelsbühl fu fortificata, all’inizio del XII secolo, dall’imperatore Enrico V, e nei secoli successivi si sviluppò sia come centro militare che come città mercantile, alla metà del XIV secolo divenne una Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero.

Tra le attrazioni della cittadina da non mancare una passeggiata lungo i camminamenti di ronda delle antiche mura (XIII-XIV secolo) e una visita alle quattro monumentali porte d’accesso alla città: Wörnitzer Tor (XIV secolo), Rothenburger Tor (1390), Segringer Tor (1655), Nördlinger Tor (1400).

L’edificio più interessante della città è senz’altro la chiesa gotica di San Giorgio (Münster St.-Georg), una delle chiese tardo gotiche più belle della Germania meridionale, edificata tra la metà e la fine del XV secolo su progetto di Nikolaus Eseler, la facciata dominata dalla torre romanica e dal portico (entrambi del XIII secolo) è piuttosto severa, mentre l’interno, a tre navate con undici paia di colonne, è un tripudio con volte reticolate a ventaglio. Tra le opere d’arte custodite all’interno della chiesa, una Crocifissione della fine del XV secolo, la fonte battesimale, il pulpito e il tabernacolo del XV secolo, una tavola con i dieci comandamenti del XVI secolo. Dal campanile della chiesa si gode di un bel panorama su tutta la città.

Di notte viene ancora rispettata l’usanza del guardiano notturno che compie la sua ronda nel centro storico illuminato.

Curiosità

Qui nel 1974 venne girato L’enigma di Kaspar Hauser, film del regista tedesco Werner Herzog.

Cosa vedere

La chiesa di Sankt Georg

La chiesa gotica di Sankt Georg si trova in Marktplatz, è stata costruita nel XV secolo e al suo interno ci sono un grande tabernacolo e una magnifica tavola della Crocifissione. Oltre alle tre belle navate, la chiesa vanta una caratteristica volta a botte.

Cattedrale di S. Giorgio  
  6658369   Una delle più belle chiese del tardogotico della Germania meridionale con portale romanico (1220/30), costruita durante gli anni 1448-1499 su progetto di Nikolaus Eselers. Undici paia di pilastri all’interno sostengono una cupola reticolare a stella. Altare maggiore neogotico (1892) con reliquiario ricco di figure (del 1490 circa la scena della crocifissione). Altari laterali riccamente decorati: l’altare di S. Sebastiano (1520 circa) e l’altare della Trinità (1500 circa). La famosa Pietà (quadro di Maria) sull’altare del ciborio (1490) fu meta ambita di numerosi pellegrini nel XVII secolo.
Degne di nota la fonte battesimale ornata di leoni (XV sec.) e le tavole dei dieci comandamenti (1520 circa). Particolare l’ornamento della finestra del coro a sud, detta la “finestra della Bretze”, ossia della ciambella salata, offerta dalla corporazione dei panettieri e bottai. Lapide commemorativa di Nicola di Dinkelsbühl. Monumento a Christoph-von-Schmid. Dalla torre della cattedrale si gode una meravigliosa veduta del centro storico.

Deutsches Haus

Questo edificio a graticcio e dal tetto a timpano è del 1440 e vanta una meravigliosa facciata dipinta e scolpita. Al primo piano del Deutsches Haus si ammira una statua della Vergine.

Le mura di cinta

Quando la città fu salvata da Luigi I di Baviera e annessa al suo regno, il sovrano proibì la distruzione delle mura di cinta. Oggi le torri, le porte e i bastioni sono ben visibili e una passeggiata lungo le mura permette di scoprire gli angoli più nascosti e pittoreschi del meraviglioso centro medievale.

Museo storico

Il piccolo ma interessante museo storico di Dinkelsbuhl illustra la storia della città, in particolar modo del periodo medievale.

Il cammino di ronda

Un modo suggestivo per scoprire l’antica città di Dinkelsbuhl è seguire il cammino di ronda lungo le mura di cinta della città.

Ricca e famosa già nel Medioevo per i suoi commerci, la cittadina coltiva antiche tradizioni artigianali ed artistiche. Molto apprezzata dai pittori per i suoi scenari, è costellata di gallerie d’arte e botteghe dove si possono acquistare degli oggetti come le ceramiche azzurre tipiche della Franconia, quadri, sculture intagliate nel legno e figurine per il presepio. Altrettanto allettante lo shopping gastronomico; si va dall’ottima birra locale Weib’s Bräu ai formaggi tipici e alle Schneckennudeln, i dolci che vengono sfornati nei giorni di festa.

Rothenburg ob der Tauber

Rothenburg ob der Tauber Germany

Rothenburg ob der Tauber è una cittadina del Land della Baviera, in Germania, (425 m s.l.m. e circa 12.000 abitanti), posta su un colle che domina il fiume Tauber, conserva un impianto medievale con mura e fortificazioni ben conservate.

Nel territorio comunale, a nord-est, la Tauber accoglie le acque del fiume Altmühl.

Storia

Intorno al 1070 i Conti di Comburg-Rothenburg, che erano anche i proprietari del villaggio di Gebsattel, costruirono sulla sommità della collina, circondata dal fiume Tauber, il castello di Rothenburg, che oggi si chiama Essigkrug (letteralmente “boccale d’aceto”).

Nel 1116 la stirpe dei Conti di Comburg-Rothenburg si estinse. Il conte Heinrich lasciò l’intero suo patrimonio, incluse le proprietà di Gebsattel e Rothenburg, al monastero di Comburg, fondato dalla sua famiglia. Ma l’imperatore Enrico V nominò come erede il nipote Konrad di Hohenstaufen. Konrad, conosciuto come Corrado III e imperatore del Sacro Romano Impero (11381152), nel 1142 scambiò un appezzamento di terreno del convento di Neumünster, vicino a Würzburg, per una parte della collina di Detwang, e vi eresse la “Stauffenburg Rothenburg”.markustor

Markustor e Röderbogen (Porta di Marco ed arco di Röder) a Rothenburg

Nel 1164 morì di malattia un cittadino di Rothenburg, noto per aver accompagnato il suo tutore Federico I Barbarossa in un viaggio che li aveva condotti quasi fino a Roma. All’incirca nel 1170 intorno alla Stauffenburg si eresse anche la città di Rothenburg. Il centro era formato dalla piazza del mercato e dalla chiesa di San Giacomo. Il percorso della prima fortificazione è visibile: cantina vecchia, fossa antica, mercato dei lattai, la Sülzengasse e la Küblergasse. Le mura e le torri sono state costruite nel XIII secolo. Le torri Weisse Turm e Markusturm, con il famoso arco Röderbogen, sono ancora intatte. Tra il 1194 ed il 1254 gli Stauffer conferirono l’amministrazione dei beni al sindaco di Rothenburg. Il consiglio era formato dagli scabini della magistratura. Sorsero le comunità di San Giovanni e dell’Ordine Tedesco presso la chiesa di San Giacomo, ed il monastero dei domenicani, che oggi è un museo. Il suo fondatore fu Lupole di Nordenberg.

La strada cosiddetta degli Stauffer (oggi detta anche “Strada romantica“), fu realizzata all’incirca nel 1250 e tuttora porta da Augusta a Würzburg passando anche da Rothenburg. Fra il 1241 ed il 1242, nell’elenco delle imposte di Rothenburg si menzionarono gli ebrei di Rothenburg. Il Rabbino di Rothenburg Meir ben Baruch era reputato un legale molto esperto.

Nel 1274 Rotheburg ottenne dal Re Rodolfo I d’Asburgo il privilegio di chiamarsi “città imperiale”. Si attestano tre fiere. Negli anni seguenti la città si espanse con la Galgengasse ed il Galgentor, con la Rödergasse ed il portone Rödertor, con la Gebsattlergasse ed il portone Gebsattlertor e con la Klingengasse e il portone Klingentor. I cittadini ed i cavalieri della città costruirono il monastero di San Francesco (vicino al mercato del bestiame, situato nella Herrengasse) e l’ospedale del Santo Spirito. L’Ordine Tedesco iniziò dal 1336 la costruzione della chiesa di San Giacomo, alla quale parteciparono i cittadini. Il pellegrinaggio del Sacro Sangue convoglia tuttora molti pellegrini a Rothenburg.

Nel 1330 fu portata a compimento la costruzione della chiesa San Francesco. Nel 1350 la città ottenne il diritto di percepire imposte e fu messa sotto la tutela dell’Imperatore. Nel 1352 Rothenburg, pagando un riscatto, si liberò da Würzburg e si chiamò in seguito Città Libera Imperiale.

Nel 1356 un terremoto distrusse il “vecchio castello”. La cappella di San Biagio invece resistette e si trova ancora oggi in sito.galgentor

 

Galgentor (Porta della forca) a Rothenburg

Nel 1373 il consiglio municipale ed i cittadini iniziarono la costruzione della chiesa di San Giacomo (St. Jakob). Dopo il contratto concluso con l’Ordine Tedesco nel 1398, la città si assunse la responsabilità della costruzione. La chiesa di San Giacomo divenne la chiesa maggiore della città. Nello stesso tempo si iniziava la costruzione del municipio in stile gotico.

Rothenburg si unì nel 1378 all’alleanza dei comuni della Svevia, comandata dalla città di Ulm.

La città raggiunse la sua fioritura sotto il governo del sindaco Heinrich Toppler (13731408), grazie alle sue abilità diplomatiche e di capitano militare.

Nel Quattrocento Rotheburg divenne la città più popolata della Franconia insieme a Norimberga. Quanto alla popolazione era l’ottava e tale rimase fino all’anno 1802.

Nel 1485, dopo 170 anni, terminò la costruzione della chiesa di San Giacomo, rimasta intatta sino ad oggi.

Nel 1525 Rothenburg prese parte alla Guerra dei contadini e cercò di introdurre la Riforma protestante. Alla fine il Conte Kasimir fu costretto ad arrendersi. Johann Teuschlein e altri capitani furono giustiziati.

Sotto il governo del sindaco Johann Hornburg, nel 1544, fu introdotta la Riforma. Nel 1559 fu emanato un regolamento protestante. Un consiglio formato da tre consiglieri e tre chierici decideva sugli affari della Chiesa. Solamente l’Ordine di San Giovanni (fino al 1809) e l’Ordine Tedesco (comprato dalla città nel 1672) rimasero cattolici, dovendo però rinunciare alle loro chiese di San Giacomo e San Giovanni. Nel 1590 ebbe inizio la ricostruzione della parte orientale del municipio, che si era incendiato nel 1501. Negli anni seguenti, fino all’inizio della guerra dei trent’anni, la città prosperò. Il consiglio e i cittadini costruirono edifici di stile rinascimentale, per esempio la birreria Braumeisterhaus, il granaio, il ginnasio vicino alla chiesa di San Giacomo e la parte nuova dell’ospedale di Santo Spirito.Gerlach Schmiede, Rothenburg ob der Tauber

 

Gerlachschmiede (fucina di Gerlach) a Rothenburg

Durante la guerra dei trent’anni la città dovette contribuire alle spese, disporre approvvigionamenti per le truppe e stanziare gli alloggiamenti invernali per i soldati. Negli anni 1634, 1634 e 1645 Rothenburg fu assaltata. Dal 1632 al 1634 fu alleata con la Svezia. La città fu occupata dai Francesi nel 1645. Rapine e malattie causarono danni gravissimi. Il numero degli abitanti si ridusse in città e in campagna. Costretta dai debiti, Rothenburg vendette ripetutamente valori e beni immobili.

Un assalto dei Francesi nel 1688 causò altri danni gravissimi, mentre la guerra di successione del regno distraeva il paese. La guerra contro la Francia rivoluzionaria (17951797) causò agitazioni nel popolo. La Prussia prese il potere nel 1791 su Ansbach e Bayreuth. Si concluse così un contratto che riguardava l’autonomia di Rothenburg.

A causa dei decreti delle grandi potenze dell’Europa di allora e del Reichstag, la città di Rothenburg passò fra il 1802 ed il 1803 alla Baviera come risarcimento. La Baviera dovette vendere numerosi edifici pubblici e terreni per pagare i debiti dell’impero (ad esempio la cappella della Vergine vicino al mercato del latte, la torre Dicker Turm sulla Stauferburg). Le famiglie che erano membri del consiglio, tranne la famiglia dei “von Staudt”, persero la loro influenza e lasciarono la città.

Costretta da Napoleone, la Baviera nel 1810 dovette cedere la parte occidentale di Rothenburg al Württemberg. Il nuovo confine peggiorò la situazione economica della città e dei dintorni. La situazione si riprese solo dopo la fondazione dell’Impero Tedesco del 1871 grazie al turismo e alla industrializzazione.

Con il 1873 Rothenburg fu connessa alla rete ferroviaria. Dapprima fino a Steinach, per congiungersi al tratto principale da Ansbach a Würzburg, poi a Dombühl per poter viaggiare da Ansbach a Stoccarda. Le strutture furono ampliate dai sindaci Karl Mann (18861908) e Ludwig Siebert (19081919). La popolazione crebbe da 5382 abitanti (nel 1871) a 8612 (nel 1910).

Nel 1881 ci fu il debutto della rappresentazione della storia del Meistertrunk. Rothenburg fu riscoperta dai turisti.

La città fu bombardata e parzialmente distrutta nel 1945 e solamente grazie all’opposizione di un generale americano, Rothenburg fu risparmiata dall’annientamento totale. Negli anni seguenti il centro storico di Rothenburg fu completamente ricostruito con aiuti finanziari nazionali ed internazionali. Il ritorno dei profughi causò l’aumento della popolazione da 8939 abitanti nel 1939 a 11924 nel 1971. Rothenburg è diventata un noto centro turistico. Milioni di persone la visitano ogni anno.

Luoghi d’interesse 

Il centro storico che sorge sul culmine del colle è recintato da mura che sono percorribili a piedi nel cammino di guardia. Sono munite di torri, bastioni e di porte come la Roeder Tor, che, preceduta da bastioni e da due basse torri, è sormontata da un’alta torre, poi la Wurzburger Tor e la Klingen Tor sovrastata da una torre con sporti. Davanti a questa porta è la Wolfgangzkapelle, chiesa del 1475. Un’altra porta è la Burgtor, fortificata e anch’essa sovrastata da una torre che è più alta di tutte le altre, una possente torre di guardia sovrasta anche la porta detta Kobolzeller Tor del XIII secolo.

Nel Burggarten, giardino nello sperone roccioso sul fiume Tauber c’è l’unico resto dell’antica rocca imperiale: la Blasiuskapelle a pianta quadrata e databile fra il XII e il XIII secolo. Stupenda è la veduta sulla valle del fiume con il Topplerschlosschen, grossa torre a graticcio del 1388, il ponte sulla Tauber originariamente del XIV secolo poi rifatto e il santuario tardogotico del 1472-79 detto Kobolzellerkirche.

All’interno della città da notare il Plonlein slargo della strada principale incontro di diverse piccole strade con case a graticcio e la poderosa torre quadrata del secolo XIII sovrastante la porta detta Kobollzeller Tor. Di torri in città ce ne sono diverse come la Kohlturm a pianta quadrata, la rotonda Johanniterturm vicino alla Johanniskirche del 13931403 chiesa del convento giovannita rifatto nel 1718, la Stoeberleinsturm con coronamento a torricelle. Una possente torre di guardia del XIV secolo sovrasta lo Spitalbastei, baluardo interno del 1430 presso il bel complesso ospedaliero del XVI secolo con cortile centrale circondato da diversi edifici fra cui uno lo Ochsenbau del 1554 rifatto dopo che fu colpito da un incendio nel 1921 e adibito ad “Ostello per la gioventù” e la chiesa del 1308.

 

klingentorKlingentor, una delle porte di Rothenburg

Una notevole chiesa è St. Jakob, gotica del XIV-XV secolo che ospita un’altare intagliato e dipinto del 1466 e la celebre ancona della Cena capolavoro di Tilman Riemenschneider del 1505. Altre chiese sono la Franziskanerkirche, antica chiesa francescana del 1285-1309 oggi evangelica e, nel sobborgo di Derwang, c’è la chiesa romanica, oggi evangelica, del X secolo al cui interno è un altro capolavoro di Riemenschneider del 1515: L’ancona della Croce.

Bella è la piazza centrale, detta come in quasi tutte le città tedesche Marktplatz (piazza del mercato), circondata da edifici notevoli fra cui il Municipio (Rathaus) costituito da due parti: una classicheggiante con portico bugnato, altana e torre scalare del 157278 e l’altra gotica del XIII secolo sormontata da un’esile torre del XVI secolo. All’interno dell’edificio del Municipio si può visitare la gotica Kaisersaal, sala imperiale, legata al ricordo della Meistertrunk cioè la “magistrale bevuta” di vino offerta nel 1631 durante la guerra dei Trent’anni dai cittadini al maresciallo svedese Tilly, che ne approfittò abbondantemente e che salvò la città dalla distruzione. A destra del Municipio la Ratstrinkstube del 1466, sul cui fronte il complicato meccanismo di un orologio ad ogni ora, dalle 11 alle 15, mette in movimento diverse figurine riproducenti la scena del Meistertrunk.

Nella piazza spiccano la più bella fontana della città detta St. Georgsbrunnen e la casa detta Fleischhaus con piano inferiore a due navate del XIII secolo e piano superiore a graticcio del secolo XIV che è utilizzata per mostre temporanee. La città è anche dotata di diversi Musei: il Reichsstadtmuseum cioè il museo civico, con reperti archeologici, ricordi storici e dipinti, è sistemato in un convento fondato nel 1288 e ampliato successivamente fino al XVI secolo, interessanti sono gli ambienti conventuali e il chiostro. Il Frankisches Heimatmuseum è sistemato in una casa del 1270 detta Handwerkhaus a graticcio in parte, che è stata per sette secoli sede di diverse corporazioni artigiane, da cui deriva appunto il nome che letteralmente significa casa degli artigiani, di cui sono visibili gli ambienti, i mobili, le balconate e il pozzo dell’inizio del XIV secolo. Singolare è il Kriminal- und Foltermuseum, museo di criminologia e della tortura in cui sono visibili ben 10.000 oggetti originali (documenti, opere grafiche, e strumenti di tortura di tutti i paesi), è quasi d’obbligo per il turista farsi fotografare con la testa infilata nella gogna.

Inizia dalla piazza centrale la più bella strada della città la Herrngasse su cui si affacciano dei pregevoli palazzetti nobiliari alcuni con alti frontoni, di epoca diversa, in mezzo alla strada c’è una fontana barocca. 

Un altro vanto della città si trova nella Herrngasse 1: è il negozio di giocattoli e articoli natalizi fondato nel 1977 dalla famiglia Wohlfahrt che, forte del grande successo ottenuto in Germania, ha aperto alcune filiali all’estero,weihnachtsdorf

non ci si può trattenere dal visitare il Weihnachtsdorf (paese di Natale) di Käthe Wohlfahrt, un enorme negozio a tema natalizio aperto tutto l’anno! 

Entrandovi, ci si immerge in una vera e propria cittàdina, con casette a graticcio ricoperte di neve che ospitano le decorazioni natalizie e gli articoli da regalo, tra musiche e luci.

Uno dei motivi principali per visitare Rothemburg sono le Schneeballen (palle di neve), cioè il dolce tipico della città, facilmente reperibile in una delle tante pasticcerie che s’incontrano nel centro storico. In pratica, si tratta

delle nostre “chiacchiere” – nome variabile da città a città in Italia – di Carnevale, appallottolate e schiacciate prima di essere cotte, quindi ricoperte, nella versione originale, di zucchero a velo. Ciò che le rende ancora più appetitose è che, oltre allo zucchero a velo, possono essere utilizzati zuccherini, cioccolata d’ogni tipo, glassa, mandorle, noccioline, cocco, marzapane e qualsiasi altra cosa possa venire in mente al pasticcere! Una schneeball è una delizia di circa 10 cm di diametro, quindi una vera bomba di gusto, piacere e calorie. Probabilmente non sarete in grado di finirne una da soli, ma garantisco che sarete felici d’averla provata!
E’ impossibile non innamorarsi di questa città e non desiderare di conservarne il ricordo anche al rientro. Per fortuna si possono trovare meravigliosi souvenir che vanno al di là del semplice ricordino di viaggio. Al negozio delle manifatture Leyk, in Untere Schmiedgasse 6, si possono trovare delle deliziose casette di porcellana che riprendono lo stile architettonico di Rothenburg.Sono splendidi soprammobili e decorazioni natalizie che si illuminano di gioia se si pone una candela al loro interno.

Viaggio con Monica e le persone che amiamo per cercare di essere migliore ma non sempre riesco….